Articolo apparso originariamente in "New Internationalist", n. 523,
gennaio-febbraio 2020, quindi in "Gli asini" il 23 settembre 2020 con
traduzione di Giacomo Borella e Daniella Engel.
[presentazione dal sito della rivista "Gli asini"] Quella che
pubblichiamo è una versione estesa della nuova prefazione scritta
da Wolfgang Sachs in occasione della terza riedizione dello storico
volume collettaneo
The Development Dictionary
, uscita l'anno scorso per i tipi dell'inglese Zed Books. Il libro,
originariamente pubblicato nel 1992 (la traduzione italiana -
Dizionario dello sviluppo
, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998 - è da molto tempo fuori
catalogo), era curato dallo stesso Sachs e scaturiva dal lavoro di
messa in discussione di alcuni decisivi assiomi dell'età moderna
svolto in quegli anni nella cerchia di Ivan Illich, che si ritrovava
periodicamente presso la Pennsylvania State University, dove diversi
suoi membri insegnavano. Sachs aveva raccolto i contributi di coloro
che avevano partecipato a quelle discussioni, ognuno incentrato su una
parola chiave (bisogni, povertà, risorse, tecnologia, ecc.), a
comporre un lessico dello sviluppo e dei suoi effetti sull'ambiente,
sulle culture locali, sugli stili di vita. Oltre a quelli degli stessi
Sachs e Illich, comprendeva saggi di diversi interlocutori abituali di
quest'ultimo, tra cui Barbara Duden, Jean Robert, Gustavo Esteva, Majid
Rahnema, e altri firmati da figure a lui meno vicine, come Vandana
Shiva e Serge Latouche, divenute in seguito molto note. Il testo che
segue è una versione rielaborata e arricchita della nuova
prefazione al
Dizionario
, pubblicata sul numero 523 nel gennaio di quest'anno della rivista
inglese "New Internationalist". Il rigore e l'intelligenza con cui
Sachs ha ribettuto sugli intrecci tra ecologia, consumi, giustizia
globale, geopolitica e modi di vivere ne hanno fatto da molto tempo un
punto di riferimento fondamentale per chi si interroga sul presente e
sul futuro del mondo. Per tutto ciò, e per averci voluto concedere
di pubblicare questo testo, lo ringraziamo con grande affetto e
riconoscenza.
Sviluppo è una di quelle categorie-zombie che, anche se da molto tempo
in decomposizione, continuano a circolare, come una consunta utopia.
Seppellito apparentemente molto tempo fa, il fantasma di questo concetto si
aggira ancora per la politica mondiale. Malgrado i grandi sconvolgimenti
avvenuti di recente nella situazione globale, tutto a un tratto lo sviluppo
sembra essere tornato sulla scena.
Per esempio, oggi la nuova leva di leader autoritari è entusiasta
dello sviluppo. Eppure, con l'ascesa dei populismi nazionali, l'idea di
sviluppo non gioca più un ruolo di ispirazione e di apertura al
futuro, come durante il periodo della decolonizzazione degli stati nazione
o al tempo della deregulation dei mercati globali. I Trump e i Bolsonaro,
gli Erdogan e i Modi di questo mondo credono ancora nello sviluppo solo
nella misura in cui ciò significa grandi progetti, potere d'acquisto
per le masse e assoluta libertà di movimento per le corporation. Ma,
oltre a essere autoritari e xenofobi, sono nemici dichiarati dell'ambiente.
Promettono ai loro seguaci una marcia indietro nelle politiche ambientali;
sono infatti grandi sostenitori della brown economy, e si
oppongono a una alternativa verde. La loro immagine dello sviluppo è
modellata sull'energia fossile e, più in generale, sull'estrazione
delle risorse naturali. I populisti nazionali sono nostalgici dell'era
industriale: non sono orientati verso il futuro ma, piuttosto, verso il
passato.
C'è tuttavia una discontinuità cruciale nei programmi di sviluppo
dei populisti nazionali: essi sono etnocentrici ed egoisti. Dalla seconda
guerra mondiale fino a tempi molto recenti, lo sviluppo era bene o male
sempre concepito all'interno di una cornice multilaterale. Ma, con
l'inaugurazione della presidenza Trump negli Stati Uniti, il vento è
cambiato: "America First" è il grido di battaglia dell'unilateralismo.
Gli interessi di una nazione sono di primaria importanza, mentre quelli
delle altre sono trascurabili. L'eco di Trump risuona, per esempio, in
Matteo Salvini, l'uomo forte dell'Italia degli ultimi anni: "Prima gli
italiani" era la giustificazione del suo rifiuto a lasciar attraccare i
rifugiati che soffrivano in mare.
In altre parole, siccome l'era dello sviluppo non è affatto giunta da
tempo a una fine ingloriosa, come una volta pronostica il nostro gruppo, la
parola-zombie sviluppo continua a produrre ogni tipo di danni. Allo stesso
tempo, però, è vero che in tutto il mondo sono stati fatti molti
sforzi nella direzione di una tecnologia maggiormente basata sulla natura,
di un'economia più fondata sul bene comune e di una cultura incentrata
sulla varietà delle civiltà: tutti obiettivi che possono essere
intesi in termini di post-sviluppo.
Un'affermazione eccessiva
Eravamo ingenui e un po' pomposi quando abbiamo proclamato la "fine
dell'era dello sviluppo". Durante l'autunno del 1988, alla Pennsylvania
State University, nella casa di Barbara Duden, il nostro gruppo di amici
aveva iniziato a delineare i contorni di quello che sarebbe diventato ilDizionario dello sviluppo [1]. Sulle orme di Ivan
Illich, che un tempo intendeva scrivere un'"archeologia delle certezze
moderne", volevamo esplorare i concetti chiave dello sviluppo, che noi
vedevamo come le rovine di un paesaggio intellettuale.
Dobbiamo ricordare che nella seconda metà del ventesimo secolo la
nozione di sviluppo incombeva come un potente monarca sulle nazioni
dell'emisfero meridionale: era il grido di battaglia dell'era
post-coloniale. Il concetto sembrava essere innocente, ma a lungo termine
si rivelò dannoso. Come una sorta di infrastruttura mentale, preparava
la strada al potere imperiale dell'Occidente sul mondo intero. Come erano
le cose in Occidente, così dovevano essere anche sulla Terra: questo
era, in sostanza, il messaggio dello sviluppo [2].
Quando era iniziata l'era dello sviluppo? Nel nostro Dizionario,
ci concentravamo sul discorso inaugurale del presidente Harry S. Truman al
congresso degli Stati Uniti, il 20 gennaio 1949, nel quale definiva i paesi
dove viveva più di metà della popolazione mondiale come "aree
sottosviluppate". L'era dello sviluppo si aprì con questo discorso, e
fu il periodo della storia mondiale che seguì la fase coloniale delle
potenze europee. Essa è durata circa quaranta anni, ed è stata
rimpiazzata dall'era della globalizzazione. Ora assistiamo a un'altra
svolta: l'ascesa dei populismi nazionali.
Cosa costituisce l'idea di sviluppo? Dobbiamo considerare quattro aspetti.
Sul piano crono-politico, tutte le nazioni sembrano avanzare nella stessa
direzione. Immaginate che il tempo sia lineare, che si muova solo in avanti
o indietro, ma lo scopo del progresso tecnico ed economico sia
costantemente sfuggente.
Sul versante geo-politico, coloro che fungono da guide su questo cammino,
le nazioni sviluppate, mostrano ai paesi ritardatari la strada da
intraprendere. La sbalorditiva varietà dei popoli del mondo è ora
classificata semplicisticamente in nazioni ricche e nazioni povere. Sul
piano socio-politico, lo sviluppo di una nazione è misurato attraverso
la sua prestazione economica, in termini di Prodotto Interno Lordo (Pil).
Alle società che sono appena emerse dal dominio coloniale è
richiesto di farsi prendere in custodia dall'"economia". E infine, gli
attori che spingono per lo sviluppo sono soprattutto esperti dei governi,
delle banche transnazionali, delle corporation. In precedenza, ai tempi di
Marx o di Schumpeter, sviluppare era usato come verbo intransitivo, come il
fiore che cerca la maturazione. Ora il termine viene usato in modo
transitivo, come il riordino attivo di una società che deve essere
completato entro pochi decenni, se non entro pochi anni.
Cosa ne è stato di questa idea? Per farla breve, la nozione ha preso
una direzione non insolita nella storia delle idee: ciò che un tempo
era un'innovazione storica è divenuta gradualmente una convenzione, di
quelle che finiscono nella frustrazione generale. Ciò nonostante,
trent'anni fa era prematuro proclamare la fine dell'era sviluppista,
perché il disincanto verso l'idea di sviluppo è avvenuto nel giro
di alcuni decenni, e ancor oggi non si è completato.
Le idee che nella storia diventano forti non scompaiono in un istante, ma
piuttosto svaniscono gradualmente mentre diventano sempre più
irrilevanti per la nostra comprensione dei tempi. Eppure, la marea è
cambiata: perfino gli esperti dello sviluppo, per quanto concerne il futuro
sono immersi nella nebbia, preoccupati principalmente di limitare le
catastrofi sociali ed ecologiche causate dal modello di sviluppo dominante.
Mettere in dubbio l'idea di sviluppo è diventato accettabile. Ma
cerchiamo di non correre troppo.
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il discorso sullo
sviluppo era formulato nella cornice degli stati-nazione. Praticamente ogni
giovane nazione vedeva come sua ragion d'essere quella di svilupparsi. Ma
nel novembre 1989 cadde il muro di Berlino, la guerra fredda giunse al
termine e iniziò l'era della globalizzazione.
Negli anni successivi l'idea di sviluppo ricevette un'ulteriore spinta: la
mentalità dello sviluppo si diffuse in ogni angolo del mondo,
coinvolgendo attori completamente nuovi. Gli stati-nazione erano tuttavia
divenuti porosi, come container crivellati di fori di proiettili esplosi da
forze esterne, e dovevano sottoporsi ai poteri globali, sia economici che
culturali. Merci, denaro, informazioni, immagini e persone si riversarono
attraverso i confini, creando uno spazio sociale transnazionale nel quale
avevano luogo interazioni a grande distanza, a volte addirittura in tempo
reale.
In questo processo, altri attori, come le corporation e i media
transnazionali, giocavano un ruolo sempre più importante nello
sviluppo, mentre gli stati-nazione rimanevano in posizione sempre più
arretrata. Per esempio, gli investimenti privati stranieri superarono
l'assistenza allo sviluppo sociale, i programmi televisivi resero in tutto
il mondo marginali le narrative autoctone, e il consumo globale
soppiantò l'artigianato locale. Lo sviluppo, fino ad allora compito
dello stato, era ora deterritorializzato.
Oltretutto, apparvero sulla scena le filiere transnazionali. Con la fine
della guerra fredda e il processo di deregulation in pieno
svolgimento, la strada era spianata per lo spiegamento di reti di
produzione capaci di attraversare il mondo intero.
In generale, anche nei più remoti angoli del mondo l'economia
capitalista delle merci e dei servizi aveva rimpiazzato un'infinità di
economie di sussistenza e i loro mercati tradizionali. E il capitalismo era
cambiato, come già John Kenneth Galbraith aveva osservato negli anni
Cinquanta: si era passati da un'economia dedicata a soddisfare bisogni a
una impegnata a inculcare esigenze.
In un'economia siffatta, ciò che conta è sempre di più il
potere simbolico delle merci e dei servizi. Ciò che importa è
quello che le merci dicono, piuttosto che quello che fanno: sono mezzi di
comunicazione. Le merci sono simultaneamente rituali e religione. Le corporation proliferano, e in ogni continente gli stili di vita si
allineano: i Suv hanno sostituito i risciò, i telefoni cellulari hanno
preso il posto delle riunioni di comunità, l'aria condizionata ha
soppiantato la siesta. La globalizzazione dei mercati può essere
intesa come uno sviluppo senza stati-nazione.
Chi ha beneficiato di più di questo processo è la classe media
globale, in Europa, Nord America e Asia, come in Sud America e Africa,
sebbene in queste ultime meno numerosa. Coloro che vi appartengono fanno la
spesa in centri commerciali simili, acquistano un'identica elettronica high-tech, guardano gli stessi film e le stesse serie tv. Come
turisti, dispongono del decisivo medium di allineamento: il
denaro. La classe media - ora circa tre miliardi di persone con un reddito
superiore ai 10 dollari al giorno - si espande più rapidamente in
Cina, India e altri paesi asiatici, grazie alla rapida crescita economica.@
Questa è in sé un'impresa storica: ci sono voluti probabilmente
centocinquanta anni, dall'inizio della rivoluzione industriale a circa il
1985, per creare il primo miliardo di consumatori della classe media; per
superare la soglia del secondo miliardo ci sono voluti ventun anni; e solo
nove anni per il terzo miliardo. Se le proiezioni sono corrette, altri due
miliardi di individui andranno ad aggiungersi alla classe media entro il
2028, raggiungendo un totale di cinque miliardi di persone [3]. Chi sta sui gradini
più bassi della scala può permettersi un motorino o una
lavatrice, mentre chi sta sui gradini più alti può investire in
viaggi a lunga distanza o in proprietà immobiliari.
Già nel 2010 all'incirca la metà della classe media globale
viveva nel Nord Globale, e l'altra metà viveva nel Sud Globale. Lo
stile di vita occidentale si è realmente diffuso negli altri
continenti, abbracciando l'intero globo. Ma quello che senza dubbio è
stato il formidabile successo dello sviluppo, non è che un fallimento
che sta per avvenire.
Sopravvivenza, non progresso
Sviluppo è una parola plastica, un termine vuoto privo di significati
positivi. Ciò nonostante ha mantenuto il suo status di
prospettiva globale, perché è stato inscritto in un network internazionale di istituzioni che va dall'Onu alle ong.
Dopotutto, miliardi di persone hanno fatto uso del "diritto allo sviluppo",
così come è stato affermato in una risoluzione dell'assemblea
generale Onu nel 1986.
Possiamo tuttavia notare le notevoli trasformazioni che questa idea ha
subito di recente. Nel 2015, per esempio, si è potuto osservare un
intensificarsi del discorso sullo sviluppo: l'enciclica papale Laudato si' in giugno, i Sustainable Development Goals
(Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell'Onu in settembre, e gli accordi di
Parigi sul cambiamento climatico in dicembre. Ma queste dichiarazioni
internazionali sono ancora improntate allo sviluppo? Oppure si potrebbe, al
contrario, considerarle prove di un pensiero del post-sviluppo?
L'erosione dell'idea di sviluppo è ora evidente nei Sustainable Development Goals (Sdg) dell'Onu. I tempi in cui lo
sviluppo rappresentava una "promessa" sono ampiamente finiti: a
quell'epoca, era un discorso che riguardava nazioni giovani e ambiziose che
procedevano su un cammino di progresso. La parola d'ordine dello sviluppo
conteneva davvero una monumentale promessa storica: che infine tutte le
società avrebbero colmato il divario con quelle più ricche,
arrivando a condividere i frutti della civiltà industriale.
Quell'era è finita: più frequentemente, lo sviluppo oggi riguarda
la sopravvivenza, non il progresso. Gli Sdg sono progettati per garantire
il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali. Niente
di più e niente di meno, ma l'eroica fede nel progresso ha ceduto il
passo al bisogno di sopravvivenza. La lettera papale Laudato si'
trascura le parole chiave di "sviluppo" e "progresso", mentre l'accordo di
Parigi sul clima è teso a evitare catastrofi e guerre.
La politica della lotta alla povertà ha inoltre ottenuto successi in
alcuni casi, ma al costo di produrre diseguaglianze ancora maggiori altrove
e al prezzo di danni ambientali irreparabili. Il World Inequality Report del 2018 ha confermato che, a partire dal
1980, la quota di reddito nazionale che è andata all'uno per cento dei
più ricchi è aumentata rapidamente in Nord America, Cina, India e
Russia, e più moderatamente in Europa: quarant'anni di corsa all'oro!
Per di più, lo sfruttamento della Terra è drasticamente
aumentato: secondo i calcoli del Global Footprint Network, l'umanità
consuma la biosfera 1,7 volte ogni anno. L'inquinamento da materiali
plastici degli oceani, l'estinzione di massa degli insetti e lo
scioglimento dello scudo di ghiaccio dell'Artico ne sono esempi
emblematici.
Il caos climatico e il lento declino della vita vegetale e animale hanno
messo in dubbio la fede nel fatto che le nazioni sviluppate rappresentino
il culmine dell'evoluzione sociale. Al contrario, il progresso si è
rivelato essere un regresso, così come la logica capitalista del Nord
Globale ha dimostrato di non poter far altro che sfruttare la natura. DaiLimits to the Growth del 1972, fino ai Planetary Boundaries del 2009, l'analisi è chiara: lo
sviluppo-come-crescita rende il Pianeta Terra inospitale per gli umani. Gli
Sdg - che recano il termine sviluppo nel loro stesso titolo - sono un
inganno semantico. I Sustainable Development Goals dovrebbero in
realtà chiamarsi Ssg: Sustainable Survival Goals (Obiettivi di
sopravvivenza sostenibile).
Seppellire il mito della rimonta
Anche la geopolitica dello sviluppo è implosa. Al Millennium Summit di
New York, nel 2000, erano stati riprodotti gli schemi dei cinquant'anni
precedenti: il mondo nettamente diviso tra Nord e Sud, in cui i benefattori
elargiscono capitali, crescita e politiche sociali ai paesi beneficiari per
ricondizionarli, in funzione della corsa globale. Questo schema è un
familiare sedimento della storia coloniale, ed era - proprio come
l'imperativo della rimonta - onnipresente negli anni del dopoguerra.
Ma ora che siamo arrivati agli Sdg, che fine ha fatto l'idea delle nazioni
in via di sviluppo che rimontano sulle nazioni ricche, questa nozione che
un tempo era così fondamentale per l'idea di sviluppo?
Vale la pena di citare un passaggio del documento che ha proclamato gli
Sdg: "La portata e il significato di questo programma sono senza
precedenti. Questi sono obiettivi universali, obiettivi che coinvolgono il
mondo intero, le nazioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, allo
stesso modo"[4]. Gli Sdg
affermano di essere globali e universali, e gli accordi di Parigi fanno lo
stesso.
Il cambio di mentalità non potrebbe essere espresso più
chiaramente: la geopolitica dello sviluppo, secondo la quale le nazioni
industrializzate erano lo scintillante esempio per i paesi più poveri,
è stata archiviata. Quante strategie, passioni e risorse, consumate
per realizzare il sogno della rimonta! Ora è tutto finito.
Così come l'era della guerra fredda è finita nel 1989, il mito
della rimonta è evaporato nel 2015. Molto raramente un mito è
stato seppellito così tranquillamente. Che cosa significa sviluppo, se
non esiste nessun paese che possa definirsi "sviluppato in modo
sostenibile"? Dobbiamo anche aggiungere che la geografia economica del
mondo è cambiata. In termini geopolitici, la rapida ascesa della Cina
alla posizione di maggiore potenza economica della terra è stata
spettacolare. I sette più importanti paesi di recente
industrializzazione sono ora economicamente più forti degli stati
industriali tradizionali, sebbene i G7 pretendano di essere ancora egemoni.
La globalizzazione ha quasi dissolto il consolidato schema Nord-Sud.
Internet ci fornisce un esempio. Nel 2016 3,4 miliardi di persone, la
metà della popolazione mondiale, ha utilizzato internet. Singoli
individui navigano sul web con computer, tablet o smartphone, le grandi
imprese sono dotate di enormi dipartimenti di tecnologie informatiche, e
miliardi di persone sono ogni giorno online sui social network. Internet
è divenuto il "sistema nervoso centrale" della società mondiale.
Per inciso, l'infrastruttura digitale, con i suoi centri di elaborazione
dati, necessita di un'enorme quantità di energia, impiegando circa il
7 per cento di quella consumata globalmente [5]: quanto corrisponde al
consumo annuo di elettricità della Gran Bretagna.
Qual è la distribuzione geografica degli utenti di internet? La
maggior parte vive in Asia orientale (867 milioni) e in Asia meridionale
(480 milioni); Europa occidentale (345 milioni) e America del nord (341
milioni) sono a metà classifica [6]. Dal momento che
l'elettricità proviene soprattutto da centrali a carbone, a gas e a
petrolio, l'impronta ecologica di tutte queste attività su internet
è immensa.
In sostanza, in termini di consumo di risorse le classi alte di Cina,
India, Malesia e Arabia Saudita hanno già rimontato le classi medie
statunitensi ed europee.
Tra l'altro, dai negoziati internazionali sul clima le classi alte dei
paesi di recente industrializzazione escono relativamente indenni,
perché possono nascondersi dietro ai poveri delle loro nazioni.
Lo sviluppo come operazione statistica
Inoltre, lo sviluppo è sempre stato un costrutto statistico: senza il
numero magico, ovvero il Pil, sarebbe stato impossibile proporre una
classifica delle nazioni mondiali. La comparazione dei redditi era il
fulcro del pensiero dello sviluppo: solo in questo modo si poteva
determinare la relativa povertà o ricchezza di un paese. Tuttavia, a
partire degli anni Settanta, nel discorso sullo sviluppo è emersa una
dicotomia: la giustapposizione dell'idea di sviluppo-come-crescita con
quella di sviluppo-come-politica-sociale. Istituzioni come la Banca
Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Wto sono rimaste fedeli
alla prima, mentre il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp),
quello per l'Ambiente (Unep) e la maggior parte delle ong sono passati a
enfatizzare la seconda. Così il termine "sviluppo" è divenuto una
sorta di collante multiuso, che può riferirsi alla costruzione di
aeroporti tanto quanto all'escavazione di pozzi. I Millennium Development Goals (Obiettivi di sviluppo del
Millennio), così come gli Sdg che li hanno seguiti, erano radicati in
questa eredità.
Le relazioni tra indicatori sociali e crescita economica si sono
ripetutamente rivelate una questione spinosa. Da un lato, l' Agenda 2030 (la dichiarazione di governo degli Sdg) riconosce il
declino degli ecosistemi marino e terrestre e l'aumento delle
diseguaglianze sociali, ma dall'altro lato richiede ai paesi più
poveri una crescita economica di almeno il 7 per cento all'anno. Si
sostiene che la contraddizione tra crescita e sostenibilità sia
sorpassata dai nuovi concetti di "crescita inclusiva" e "crescita verde".
Ma è ormai risaputo che la crescita inclusiva, guidata dai mercati
finanziari, è impossibile, in quanto riproduce costantemente
meccanismi di disuguaglianza. Il declino della povertà va tipicamente
a braccetto con l'aumento delle disuguaglianze. A partire dal 1990, le
economie emergenti di Russia, Cina, India e Sudafrica hanno sperimentato un
brusco aumento delle disuguaglianze, mentre in Brasile sono leggermente
diminuite, sebbene a partire da un livello molto alto.
Lo stesso vale per lo slogan della crescita verde. Il fatto che la crescita
economica fondata sulle risorse fossili non sia praticabile neppure nel
medio periodo, è arrivato perfino agli alti ranghi dei summit del G7.
Nel 2015, i paesi industrializzati prevedevano la decarbonizzazione
dell'economia globale entro la fine del secolo. In ogni caso, tutte le
ricette della crescita verde sono fondate sulla disgiunzione tra degrado
ambientale e crescita, anche se la disgiunzione assoluta (aumento della
crescita con diminuzione del degrado ambientale) non è mai stata
raggiunta nella storia[7].
In sostanza, lo sviluppo-come-crescita è divenuto storicamente
obsoleto, rivelandosi persino pericoloso per la vita stessa. Malgrado
ciò l'Agenda 2030 evita di parlare di prosperità senza
crescita, neppure per quanto riguarda i vecchi paesi industrializzati.
Ridurre la compulsione alla crescita sembra essere un tabù: in campo
economico, ciò significherebbe dare priorità alla sufficienza
anziché all'efficienza. In un'economia in cui domina il principio di
efficienza, sempre più cose vengono prodotte con sempre meno risorse.
Ma in una economia della sufficienza, le cose necessarie sono prodotte con
un uso intelligente delle risorse. Alcuni settori dell'economia si
ridurrebbero, mentre altri crescerebbero. Questo assetto dell'economia
implicherebbe una disponibilità a ridimensionare l'attuale sistema
industriale. Al confronto con l'Agenda 2030, Papa Francesco, nella
sua enciclica Laudato si', sembra più capace di aprirsi al futuro,
dato che propugna la decrescita per le zone ricche della Terra.
Una contraddizione insanabile
Mohandas Gandhi, che portò l'India all'indipendenza, era un
post-sviluppista molto prima che il termine venisse inventato. Lasciò
ai posteri una ben nota citazione, che riassume sinteticamente il suo
pensiero sullo sviluppo: "La Terra offre abbastanza per i bisogni di ognuno
[everyone's need], ma non per l'avidità di ognuno [everyone's greed]".
Se si osserva meglio la frase, il suo carattere sovversivo diviene chiaro.
Nessuna meraviglia che nell'India di oggi Gandhi sia visto come un santo
patrono in disuso, che viene tirato fuori solo per cerimonie particolari.
Al contrario dell'ortodossia economica, Gandhi crede che le risorse della
Terra non siano scarse, ma invece abbondanti, di certo sufficienti per
soddisfare i bisogni della società umana. Egli presuppone che i
bisogni sono modellati culturalmente, e più o meno circoscritti, altra
cosa in contrasto con il buonsenso economico generalmente accettato.
Ciò lo porta a mettere sotto accusa l'avarizia, perché
l'avidità sistemica pregiudica i bisogni della maggioranza delle
persone. L'avidità è la variabile che decide se le persone hanno
abbastanza per vivere oppure no.
Se gli autori del rapporto della Commissione Brundtland, nel 1987, avessero
letto attentamente Gandhi, non sarebbero venuti fuori con quella classica
definizione dello sviluppo sostenibile: "Lo sviluppo soddisfa i bisogni del
presente senza compromettere la possibilità delle future generazioni
di soddisfare i propri bisogni". Gandhi avrebbe insistito sul fatto che non
tutti i bisogni sono ugualmente validi, che i bisogni dei benestanti sono
diversi da quelli dei diseredati. Così, in seguito, la mancanza di
distinzione tra bisogni di sopravvivenza e bisogni di lusso è divenuta
una trappola nel dibattito sulla sostenibilità.
In effetti, mettere insieme i diritti umani e i diritti del consumatore fa
parte dell'eredità del concetto di sviluppo, che è cieco ai
rapporti di classe. Com'è possibile trattare i diritti sociali
fondamentali al cibo, alla casa e alla salute come se fossero sullo stesso
piano della domanda, espressa dai consumatori, di suv, proprietà
immobiliari e azioni? Che cosa hanno in comune i Mapuche del sud del Cile
con i banchieri di Wall Street, o i lavoratori del cotone del Mali con le start-up di Shanghai? Non molto, tranne il fatto che sono uniti
dal miraggio comune dello sviluppo.
Ma ciò apre un dilemma che è sempre rimasto nascosto
nell'illusione dello sviluppo. Uno studio recente conferma che, all'interno
del modello di sviluppo corrente, c'è una contraddizione insanabile
tra gli obiettivi sociali e ambientali degli Sdg [8]. Nei paesi relativamente
ricchi, dove gli obiettivi Sdg riguardanti la dimensione fisica
(povertà, nutrizione, salute, energia) sono ragionevolmente
soddisfatti - come in Europa, Nord America, Giappone, Argentina, Cile,
Tailandia, e così via - c'è un problema ecologico di enormi
dimensioni. Essi sorpassano i limiti planetari, nell'emissione di Co2 e di
azoto, nel consumo di fosforo e di acqua dolce.
Al contrario, dove i paesi rimangono all'interno del quadro ambientale, gli
obiettivi Sdg di tipo fisico sono largamente insoddisfatti. Il doppio
vincolo è pressappoco questo: più sale lo standard di vita di un
paese, più la biosfera tende a degradarsi. E, al contrario, meno sono
garantiti i diritti umani e sociali, più tende a essere piccola
l'impronta ecologica, almeno in termini di carbonio e di materiali. Che
risultato tragico per lo sviluppo!
Ciò che è più rilevante, inoltre, è il fatto che a
volte il benessere della classe media globale dipende dalla povertà
degli altri. Ne abbiamo un'infinità di esempi: quando le grandi navi
che praticano la pesca industrializzata svuotano gli oceani, danneggiano i
pescatori locali; i piccoli proprietari vengono soppiantati quando le corporation agricole si accaparrano grandi estensioni di terra;
gli abitanti degli slum devono lasciare il campo quando vengono
costruite le strade urbane a scorrimento veloce; i vecchi abitanti devono
andarsene quando la gentrificazione raggiunge i loro quartieri; i
lavoratori vengono repressi quando rivendicano i loro diritti sindacali
nelle fabbriche della filiera globale.
In breve, il modo di vivere "imperiale" penetra profondamente negli stili
di vita, nelle istituzioni e nelle infrastrutture della classe media
globale[9]. Non riconosciuto,
eppure assolutamente presente attraverso una varietà di complesse
strutture economiche e di meccanismi di sfruttamento, il risultato
complessivo è drammatico: i benestanti vivono a spese dei poveri.
Paura del futuro
Un aspetto essenziale emerge dall'Agenda 2030, dall'enciclica Laudato si' e dagli accordi di Parigi: l'entusiasmo del ventesimo
secolo per lo sviluppo se n'è andato. Al suo posto, la fine della
modernità espansiva ha conquistato la scena. Il motto del secolo
scorso (parafrasando le parole del Padre Nostro), "come in Occidente,
così in Terra", ora suona come una minaccia. Il mondo ci appare in
subbuglio: caos, paura e rabbia si estendono ovunque, contrastando
aspramente con il trionfalismo degli anni Novanta. L'ascesa della Cina, il
declino dell'Occidente, l'egemonia dei mercati finanziari, il ritorno degli
stati autoritari: sono solo alcuni esempi dei capricci della storia
contemporanea.
Se dovessimo trovare una frase che riassuma l'atmosfera attuale nel Nord
Globale, e in parte del Sud Globale, potrebbe essere "paura del futuro".
È la paura che le prospettive di vita si stanno riducendo, e che i
figli e i nipoti saranno meno benestanti dei loro genitori e nonni. Nella
classe media globale si diffonde il sospetto che le aspettative suscitate
dallo sviluppo non saranno soddisfatte.
Le classi medie dei paesi che erano ricchi, sfoltite dalla globalizzazione,
ora chiedono protezione e sicurezza. Allo stesso tempo, vaste porzioni
delle popolazioni dei paesi emergenti, alienate dalle proprie tradizioni,
al corrente degli stili di vita occidentali attraverso i loro smartphone,
ma escluse dal mondo moderno, fanno ricorso all'orgoglio nazionalista.
Ovunque si assiste a un'enorme polarizzazione tra ricchi e poveri. Ma
mentre negli stati-nazione dei tempi andati i perdenti erano ancora capaci
di pretendere correzioni dai vincitori, al tempo della globalizzazione non
sono più in grado di farlo. L'economia transnazionale, specie il
settore finanziario, trionfa sulle condizioni di vita di ogni paese. Come
risposta, sono emersi i populismi nazionali, con le loro diverse
sfaccettature.
Di fronte alle turbolenze del mondo contemporaneo, inquadrare i problemi
sociali come "problemi di sviluppo" appare stranamente antiquato. Se tutto
ciò non è ingannevole, nelle trasformazioni sociali si possono
riconoscere tre diverse narrative: la narrativa della fortezza, quella del
globalismo e quella della solidarietà.
Il pensiero della fortezza, espresso attraverso il populismo nazionale,
ravviva il passato glorioso di un popolo immaginario. I leader
autoritari riportano in auge l'orgoglio, mentre gli "altri" diventano capri
espiatori (dai musulmani alle Nazioni Unite). Ciò conduce all'odio per
gli stranieri, a volte combinato con il fondamentalismo religioso. Si
diffonde ovunque una sorta di "sciovinismo opulento", in particolare tra le
classi medie, i cui beni materiali devono essere difesi contro i poveri.
Nei confronti dell'ecologia, inoltre, i populisti nazionali non mostrano
altro che disprezzo. Gradiscono la trivellazione dei mari, il fracking, l'estrazione del carbone e la deforestazione. Per loro
il cambiamento climatico è lo scrupoloso elenco dei nemici
dell'economia nazionale. Sono così retrogradi da glorificare il
saccheggio della natura. Tranne che per la loro xenofobia, potrebbero
essere considerati i fantasmi dell'ideologia sviluppista degli anni
Cinquanta. Ciò aumenta l'anacronismo dei populismi nazionali.
Al contrario, la narrativa del globalismo ruota attorno all'immagine del
pianeta come simbolo archetipico. Al posto del mercantilismo da fortezza
dell'"America First", i globalisti promuovono un mondo ideale di deregulation e libero commercio, che dovrebbe portare ricchezza e
benessere alle corporation e ai consumatori. I globalisti considerano
però l'attuale sistema economico insostenibile. Rispetto alle
strategie politiche del neoliberismo, essi danno più spazio agli
investimenti pubblici, chiedono più riforme nel settore sociale e in
generale più leadership nelle politiche pubbliche.
Soprattutto, si battono per la crescita economica in un quadro di "green
economy". Le elite globalizzate possono anche essere preoccupate per il
futuro, ma pensano che queste difficoltà possano essere superate
attraverso la crescita inclusiva, le tecnologie smart e direttive
in materia ambientale in grado di indirizzare le forze di mercato. L' Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con i suoi Sdg, si colloca in
larga misura all'interno di questo quadro di pensiero.
La narrativa della solidarietà è diversa. L'etica eco-sociale si
pone in opposizione sia alla narrativa della fortezza quanto a quella del
globalismo. Essa immagina un'era post-capitalista, fondata su uno
spostamento culturale verso l'eco-solidarietà. La monocultura
economica, che regna in larga parte del mondo, dovrebbe lasciare spazio ad
alternative di civiltà, siano esse le visioni del mondo dell'Ubuntu o
del Buen vivir, o quelle dell'umanesimo o spirito di comunità
europei[10].
Nella mentalità della solidarietà, i diritti umani - collettivi e
individuali - e i principi ecologici sono altamente considerati; le forze
di mercato non sono viste come un fine in sé, ma come mezzi per un
fine. La politica della solidarietà promuove un cambiamento culturale
piuttosto che tecnologico, sostenuto da forme di economia cooperativa e da
misure di welfare pubblico. Diversamente dal globalismo, la narrativa della
solidarietà non invoca confini aperti, ma permeabili, imponendo
determinate condizioni ai migranti, alle merci e ai capitali, come la
membrana di una cellula vivente.
Così come espresso dallo slogan "pensare globalmente, agire
localmente", viene inoltre coltivato un localismo cosmopolita in cui le
politiche locali devono tenere in considerazione anche i bisogni della
comunità transnazionale. Ciò significa abbandonare il modo di
vivere "imperiale" che la civiltà industriale esige, lasciando la
terra, il cibo e i capitali del Sud Globale nelle proprie mani.
Soprattutto di fronte al collasso ecologico, nel Nord come nel Sud del
mondo è indispensabile eliminare gradualmente il sistema economico
basato sulle risorse fossili, sostituendolo con un sistema fondato sulla
biodiversità.
Questa transizione implica sistemi eolici e solari per fornire energia, e
agricoltura rigenerativa per fornire cibo e fibre. Al posto di una
modernità espansiva, è ora il tempo di una modernità
riduttiva: imprese verdi, case a emissioni zero, una quantità di
traffico motorizzato molto inferiore (rispetto agli standard europei), un
consumo di carne molto più basso e, in generale, meno proprietà e
più condivisione. Infine, sono necessarie nuove forme di
prosperità frugale: abbondanza di tempo anziché abbondanza di
merci, lavoro di cura anziché lavoro retribuito, condivisione [partaking] della natura anziché partecipazione [ taking part] alla corsa dei topi.
Dal momento che ci confrontiamo con la paura del futuro, sono in gioco gli
orientamenti politici fondamentali. Questa disputa paradigmatica sarà
all'ordine del giorno nei decenni a venire. Così lo sviluppo, come le
monarchie e il feudalesimo, è in procinto di allontanarsi sempre
più lontano nelle foschie della storia, e a quel punto
interesserà solamente gli studenti e gli studiosi. Dare forma al
nostro destino, oltre lo sviluppo, è il compito che ci sta di fronte.
[1]
Wolfgang Sachs (a cura di), The Development Dictionary: A Guide to Knowledge as Power,
London, Zed Books, 1992 (nuova edizione 2019), traduzione italiana Dizionario dello sviluppo, Torino, Ega, 2004.
[2]
Tra gli altri autori che negli anni Novanta hanno esplorato questa
idea vi sono Arturo Escobar,
Encountering Development: The Making and Unmaking of the Third
World
, Princeton, Princeton University Press, 1995, e Gilbert Rist, The History of Development, Zed Books, 1997, traduzione
italiana Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale,
Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
[3]
Homi Kheras,
The Unprecedented Expansion of the Global Middle Class: An
Update
, Washington, Brooking Institution, febbraio 2017, p. 11.
[4]
United Nations,
Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable
Development
, New York, United. Nations, 2015.
[5]
Greenpeace Usa, Clicking Clean, Washington, Greenpeace
Usa, 2017.
[6]
Simon Kemp, Digital in 2016, London, We Are Social, 2016.
[7]
Tim Jackson e Robin Webster, Limits Revisited: A Review of the Limits To Growth Debate,
London, APPG, 2016; Decoupling Debunked, Bruxelles,
European Environmental Bureau, giugno 2019.
[8]
Daniel W. O'Neill et al., "A Good Life for All within Planetary
Boundaries", "Nature Sustainability", 1, 88-95, 2018.
[9]
Ulrich Brand e Marcus Wissen, "The Imperial Mode of Living", in
Clive I. Spash (a cura di), Routledge Handbook of Ecological Economics, London,
Routledge, 2017.
[10]
Ashish Kothari et al., Pluriverse: A Post-Development Dictionary, Alwarpet
Chennai, Tulika Books, 2019.