Testo della comunicazione presentata al convegno Sissco
Ambiente, paesaggio e territorio nella storia d'Italia , Siracusa 6 ottobre 2017.
Un titolo fruttuosamente 'sbagliato'
Quando per la comunicazione di oggi Gabriella Corona mi ha proposto il
titolo che vedete ho subito avvertito che c'era qualcosa che che mi dava
disagio. Dietro la sua "ragionevolezza" non ho infatti potuto fare a meno
di scorgere uno schema oppositivo che nel corso di quasi mezzo secolo ha
prodotto scontri e schermaglie retoriche e politiche che non sono del tutto
placate e che anzi - come vedremo - si ripropongono oggi ma con segno
paradossalmente rovesciato. Ma - quel ch'è peggio - uno schema
oppositivo che è un'inesauribile fonte di equivoci e di depistaggi.
Quando Gabriella mi ha fatto la proposta ho tuttavia pensato che proprio
ripercorrere la genesi di tale schema oppositivo, cercare di individuarne e
illustrarne la scarsa fondatezza e descriverne la parabola storica poteva
costituire una sfida stimolante, sia per questa comunicazione sia per una
ricostruzione più ampia delle vicende dell'ambientalismo italiano
dell'ultimo mezzo secolo.
Due topoi deboli sulla vicenda dell'ambientalismo italiano (e non
solo)
Nel nostro paese la storiografia sull'ambientalismo non ha molti punti
fermi e condivisi, dibatte poco - quella di oggi è una rara e preziosa
occasione - e proietta ancor meno le sue elaborazioni all'esterno della
comunità degli studiosi.
Tuttavia almeno due topoi si ripresentano spesso, di tanto in
tanto e in modo più o meno esplicito, e anche in testi non
approssimativi, di un certo impegno. In comune essi hanno il fatto di
essere poco o niente sostenibili.
Il primo topos: il 1970 come anno dell'epifania ambientalista
Il primo topos ha una diffusione più ampia ma è meno
strutturato e decisamente più fragile. Esso postula, in buona
sostanza, che l'ambientalismo si afferma soltanto a partire dal 1970.
L'idea serpeggia nell'opinione pubblica colta ma talvolta compare anche
nella ricerca, con una sottovalutazione o persino ignoranza di quanto
è avvenuto nel campo dell'ambientalismo fino al 1970 e si tratta di un
fenomeno non soltanto italiano [1].
C'è qui un elemento di verità costituito dal fatto che il 1970
è stato un anno particolarmente ricco di eventi marcanti, eventi di
alto impatto e di alto valore simbolico in tutto il mondo dal primo Earth
Day alla "svolta ecologista" di Richard Nixon fino all'annata europea
dell'ambiente. questo addensarsi di eventi innescò in effetti una
reazione a catena sia sul piano culturale che su quello istituzionale che
si propagò rapidamente a livello planetario [2].
È facile verificare, ad esempio, come la stampa italiana utilizzi per
la prima volta la parola "ecologia" in senso non disciplinare proprio nel
corso di quell'anno 1970[3] e
gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Noi tutti e tutte sappiamo però altrettanto bene che la vicenda
dell'ambientalismo moderno va retrodatata di oltre cento anni, fino almeno
alla metà degli anni '60 dell'Ottocento, che gli sviluppi di quei
primi cento anni sono stati tutt'altro che irrilevanti sia in termini
culturali che istituzionali e soprattutto, che questi ricchi sviluppi hanno
posto le basi dell'esplosione dell'ambientalismo globale dai primi anni '70
in poi[4].
Il secondo topos: la contrapposizione protezionismo-ecologia
politica
Il secondo topos è più complesso concettualmente e
quindi meno diffuso ma anche un po' più fondato e di conseguenza
più tenace.
Esso "narra" di come, nel corso degli anni '70, sorga e si affermi in contrapposizione a un ambientalismo tradizionale, elitario e
focalizzato quasi solo su oggetti di natura "pregiati", un ambientalismo
invece teoricamente complesso, dotato di una visione più sistemica ma
soprattutto politicamente più radicale, insomma quella che chiamiano
l'ecologia politica, nata in opposizione al protezionismo della foca monaca
e delle "contesse", come si diceva un tempo e qualche volta si sente dire
ancor oggi[5].
Come dicevo all'inizio, il titolo propostomi da Gabriella riecheggiava in
qualche misura e certo involontariamente proprio questo topos che
contiene - come vedremo - qualche elemento di verità ma che è
radicato in una retorica svalutativa coltivata per decenni e deve ad essa
la sua fortuna pubblica.
Una retorica che si basa per lo più - ripeto - su una narrazione di
parte secondo la quale a un ambientalismo elitario e dagli obiettivi
ristretti si contrappone e quindi fa seguito un ambientalismo più
dinamico, moderno, teoricamente più agguerrito e profondamente
democratico.
La vexata quaestio dell'elitismo
Una delle caratteristiche salienti - se non la caratteristica
saliente - di questa descrizione dell'ambientalismo tradizionale finisce
con l'essere l'elitismo, in qualche caso definito e descritto in
modo neutrale in altri casi definito al contrario in modo valutativo, come
una sorta di peccato originario.
Una descrizione tra le più apertamente valutative - anzi di precisa e
netta condanna - è rintracciabile in un testo che avuto grandissima
fortuna e ha formato una generazione di ambientalisti di sinistra: L'imbroglio ecologico di Dario Paccino, pubblicato da Einaudi nel
1972[6].
Credo proprio sia inevitabile dare direttamente la parola allo stesso
Paccino:
Sono questi personaggi, apparentemente diversi, che riflettono l'immagine
dello schieramento ecologico, in tutto simile a quello della realtà
politica, con un suo centro, una sua destra, una sua sinistra. (...) A
destra troviamo Uicn e Wwf con relative teste coronate e intellettuali
cosmopoliti tipo Max Nicholson (...) Loro punti di forza: la necessità
di costituire dappertutto dei «santuari»; ostentato disprezzo per
il liberalismo e marxismo, nei quali andrebbe ricercata l'origine
dell'odiato consumismo, che consente alla plebe di andare in automobile
dove un tempo entravano solo Boleslao e Ladislao e i loro fidi;
priorità dell'orso sull'uomo, essendo il primo naturalmente ecologico,
mentre il secondo è un dannato distruttore [7].
Se quella di Paccino è un'imputazione molto estrema - nei contenuti
quanto nei toni - quando si tratta dell'ambientalismo precedente agli anni
'70 la categoria di elitismo si ripresenta in realtà molto di
frequente, non solo nella letteratura divulgativa e giornalistica ma non di
rado anche nelle opere di ricerca.
Ora, per quanto posso personalmente ricavare dai miei studi e dalla mia
esperienza di militante, mi pare di poter dire che il termine "elitario" si
presti nel nostro caso a tre diverse interpretazioni. Esso può
significare che un patrimonio culturale, un'iniziativa pubblica, un
movimento
. rimangono oggettivamente circoscritti a minoranze più o
meno piccole;
. vengono intenzionalmente e consapevolmente circoscritti a gruppi
di persone accuratamente selezionate quali che siano le loro visioni o i
loro obiettivi;
. si basano su visioni e finalità dichiaratamente elitiste
come quelle indicate da Paccino quando parla di "Boleslao e Ladislao e i
loro fidi".
La popolare immagine dell'"ecologia delle contesse" - che ho sentito citare
ancora lo scorso anno in un autorevole convegno pubblico - implica che
quello che abbiamo deciso di chiamare il "protezionismo naturalistico" -
Pro Natura, Italia Nostra, Lipu, Wwf: le associazioni nate tra il 1948 e il
1966 - combini la seconda e la terza accezione di elitismo. Secondo questa
rappresentazione, insomma, esso sarebbe un movimento da un lato
programmaticamente riservato a pochi eletti e dall'altro portatore di
obbiettivi di conservazione di valori da riservare a pochi e minacciati
dalla società di massa.
Il problema di questa rappresentazione è che una conoscenza
ravvicinata e documentata di gran parte dei gruppi ambientalisti
europei - ma penso anche statunitensi - del secolo che va dal 1865 al 1965
mostra chiaramente che il loro elitismo fosse concepibile soltanto nella
prima accezione, quella cioè di una forzata convivenza con numeri
piccoli che si accompagnava d'altra parte a grandi ambizioni di pedagogia
sociale o persino di democratizzazione della società. E non sempre
oltretutto i numeri erano piccoli, come ad esempio nel caso della Royal
Society for the Protection of Birds, del National Trust inglese e dei vari
Heimatschutzbund nei paesi di lingua tedesca nei decenni a cavallo tra Otto
e Novecento che arrivavano a raccogliere decine quando non centinaia di
migliaia di adesioni.
In generale la stessa cosa può dirsi - almeno sul piano delle
aspirazioni - dell'associazionismo ambientalista italiano, sia nella sua
prima ondata del periodo 1880-1930 sia in quella successiva al 1945.
La contrapposizione netta: quali fondamenti ha e perché tuttavia non
regge
A ben guardare, però, anche il sarcasmo di Paccino aveva qualche
fondamento fattuale, come pure l'idea che gli obiettivi del protezionismo
naturalistico fossero notevolmente ristretti.
In primo luogo era difficile infatti negare che l'Italia Nostra delle
origini e il Wwf delle origini avessero una solida e persino determinante
componente alto-borghese e addirittura aristocratica. Era inoltre era
altrettanto evidente una forte focalizzazione tematica da parte quantomeno
del Wwf, che tra l'altro era l'associazione che nell'Italia dei primi '70
era già più visibile e di successo.
A dispetto di questo va tuttavia osservato come:
1) tanto il Wwf quanto Italia Nostra - e il Wwf più di Italia nostra -
erano associazioni che ambivano programmaticamente a una dimensione di
massa e ed erano decisamente volte a una trasformazione della cultura
collettiva in senso moderno e progressista;
2) erano sodalizi che coltivavano un forte senso civico e di conseguenza
una politicità consapevole e molto determinata, circostanza
particolarmente vera per quanto riguardava Italia Nostra, di cui in ogni
caso il Wwf Italia costituiva una filiazione diretta;
3) più precisamente, alla base della cultura e dell'azione di Italia
Nostra e anche del Wwf stavano una sensibilità e una cultura politica
progressiste anzi più specificamente "azioniste", legate cioè
all'esperienza del disciolto Partito d'Azione, che collocavano naturalmente
le due associazioni all'interno di un arco partitico che andava dal piccolo
Partito radicale al Partito socialista passando per il Partito repubblicano [8].
La fisionomia del protezionismo italiano degli anni Sessanta aveva insomma
caratteri fortemente politici, essenzialmente in chiave "riformista",
latamente liberalsocialista.
Di conseguenza, piuttosto che una contrapposizione un movimento composito e
convergente
Ora, quel che succede è che questo assetto culturale
dell'associazionismo ambientalista "storico" italiano come si configura a
partire dalla fine degli anni '50 ha conseguenze determinanti sul modo in
cui l'ambientalismo italiano "esplode" e si configura a partire dai primi
anni '70. Ecologia politica inclusa.
Quel che insomma si è verificato a partire dai primi anni '70 - come
aveva già visto Simone Neri Serneri nel 2001 [9] e come hanno poi più
approfonditamente osservato Michele Citoni e Catia Papa[10] - è statanon una contrapposizione bensì una effettiva, progressiva convergenza in cui percorsi e
identità anche molto diverse si sono fertilizzate e influenzate
reciprocamente e hanno trovato - soprattutto a partire dalla metà
degli anni '60 - un gran numero di vertenze e di elaborazioni su cui
operare congiuntamente in modo per lo più non conflittuale.
Una primogenitura protezionistica, contestata ma evidente
Per avere un quadro d'insieme dell'evoluzione dell'ambientalismo italiano
dagli anni '60 in poi bisogna considerare oltretutto che l'associazionismo
- protezionista, "borghese" o come lo vogliamo chiamare - svolge un ruolo
incontestabilmente pionieristico in quasi tutte le questioni importanti e
soprattutto nella prima introduzione di temi, culture e visioni riguardanti
il rapporto uomo-società-ambiente naturale.
Se è opportuno ricordare ancora una volta che Italia Nostra nasce nel
1955, la Lenacdu (poi Lipu) nel 1965 e il Wwf nel 1966, alla vigilia di un
progressivo aumento della visibilità della questione ambientale in
senso lato, con una vera e propria esplosione - italiana e internazionale -
nel corso del 1970, è altrettanto opportuno ricordare che in
quell'anno fatidico sulla scena ambientalista italiana ci sono solo le associazioni: il 1968 e l'autunno caldo sono
rimasti infatti totalmente estranei all'esplodere della questione
ambientale[11], salvo negli
anni seguenti operare una convergenza verso di essa a partire dalla
questione della tutela della salute sui luoghi di lavoro, come testimonia
una crescente letteratura e in questo stesso numero di "altronovecento" i
contributi di Marino Ruzzenenti e Angelo Baracca.
Se a partire dal 1970-71 si iniziano invece - e molto faticosamente - a
gettare le fondamenta anche in Italia di quella che siamo soliti chiamare
l'ecologia politica è anzitutto come reazione - una reazione
articolata, si badi - a un'onda culturale e politica che finora solo le
associazioni protezioniste hanno saputo fare propria e poi hanno sospinto
energicamente. Ma questa capacità di primogenitura non si limita al
biennio 1970-71: assai emblematico è il fatto che nel 1974 - quando
ormai l'ecologia politica ha mosso da tempo i suoi primi passi - la prima
denuncia del nucleare civile provenga dal Wwf e anticipi oltre due anni il
primissimo manifestarsi di un'opposizione collettiva alle centrali atomiche
esistenti e in progetto[12]
. Fa persino una certa impressone leggere Gianni Mattioli - di lì a
poco una delle figure più visibili dell'ecologia politica italiana e
della battaglia contro l'atomo - che in un'intervista confessa come ancora
nell'autunno del 1976 il gruppo energia di Democrazia Proletaria fosse
filo-nucleare e che la sua conversione di 180 gradi avvenne solo quando
Paolo Degli Espinosa andò a Montalto di Castro e si accorse che "sul
campo" tutti erano già da tempo contrarissimi - e con ragioni del
tutto convincenti - alle centrali [13]. Nella prima fase
della mobilitazione delle popolazioni della Maremma laziale, oltretutto, un
ruolo decisivo era stato svolto da Italia nostra e dal suo staff legale.
Derivazioni, convergenze, ponti
Nonostante il clima di contrapposizione ideologica plasticamente
rappresentato dalla scrittura di Paccino e nonostante alcune evidenti
differenze - e divergenze - tra l'ambientalismo delle associazioni
tradizionali e quello dei nuovi gruppi di sinistra, la nascita
dell'ecologia politica italiana si verifica insomma in larga parte - poche
sono le eccezioni, tra cui quella della lotta contro la nocività in
fabbrica - a partire dalle elaborazioni e dal concreto operare del
protezionismo naturalista.
Oltre a quello - davvero eclatante - del nucleare si possono citare diversi
altri esempi:
a) la prima "virata a sinistra" dell'ambientalismo italiano avviene
all'interno di un'associazione protezionistica assai tradizionale
qual'è Pro Natura, grazie alla gestione avviata nel corso del 1970 che
vede alla presidenza Valerio Giacomini e Dario Paccino come responsabile
della nuova rivista del sodalizio, "Natura e società" [14];
b) nel comitato di redazione di "Ecologia" - prima vera palestra
dell'ecologia politica italiana - sono presenti diversi esponenti
dell'associazionismo protezionistico come Valerio Giacomini, Alfredo
Todisco, Sergio Frugis, Franco Corbetta e Fulco Pratesi anche se dopo pochi
numeri tra alcune di queste figure e il direttore Virginio Bettini si
consumerà un divorzio traumatico [15];
c) il nucleo di giovani ambientalisti di sinistra che produce "Denunciamo"
- che esce proprio come inserto di "Ecologia" - si è avvicinato
all'ambientalismo all'interno delle attività della sezione milanese di
Italia Nostra[16];
d) quando nel 1971 il Pci tenta - in modo invero assai faticoso e confuso -
di assumere per la prima volta la questione ambientale traducendola in
un'ottica di classe non può fare a meno di coinvolgere [17] una figura-ponte da
tempo attivamente impegnata nell'associazionismo protezionista, come
Giorgio Nebbia, iscritto a Italia nostra, al Wwf e a Pro natura e animatore
a Bari delle attività di questi sodalizi [18].
Entro una galassia ambientalista unitaria, la nascita dell'ecologia
politica italiana
Affermare tuttavia che in Italia tra protezionismo ed ecologia politica non
c'è stata contrapposizione netta né rottura, ma piuttosto
convergenza e continuità non significa negare la novità
costituita dalla comparsa di un ambientalismo con una forte
caratterizzazione politica.
Si trattò in effetti di un fenomeno in realtà molto composito ma
con alcuni tratti comuni e nuovi rispetto alla tradizione associativa
protezionistica. Le principali novità possono essere sintetizzate
nell'ambizione a costruire un ambientalismo
a) programmaticamente "di massa" non solo in quanto rivolto a un pubblico
ampio ma anche perché democratico, partecipativo e attento anzitutto
ai bisogni degli strati popolari della società italiana;
b) apertamente e programmaticamente critico del modello di sviluppo
capitalista e industrialista, nei suoi vari aspetti;
c) consacrato a connettere strettamente le rivendicazioni ambientali con
quelle civili, sociali, di genere e pacifiste.
ed è indubbiamente la Lega per l'Ambiente-Arci - sorta nei mesi a
cavallo tra il 1979 e il 1980 - a portare a sintesi con la massima
efficacia e originalità tutte queste caratteristiche [19].
L'età d'oro dell'ambientalismo italiano: la campagna antinucleare e
l'affermazione delle liste verdi (1977-87 circa)
Questo sistematico convergere - al di là di alcune differenze anche
significative ma che non compromettono il lavoro comune - trova
l'espressione più efficace e visibile nel movimento contro il Piano
energetico nazionale che si sviluppa a partire dal 1975, ha la sua massima
espansione nel decennio 1977-1987 e si conclude con la vittoria nel
referendum propiziata dall'incidente di Chernobyl e dalla fronda
governativa socialista contro il nucleare.
Il decennio in questione con una coda fino ai primi anni '90 è - come
già nei primi anni 2000 avevano ormai agio di constatare i sociologi [20] - quello del massimo
sviluppo del movimento ambientalista italiano: unità di intenti e di
azione, notevole capacità propositiva, grande visibilità e
influenza, ampio seguito popolare, importanti risultati conseguiti,
affermazione di una rappresentanza politica ambientalista, il tutto - e
questo è un punto centrale - con una caratterizzazione politica
complessivamente molto avanzata, cioè con visione complessa della
questione ambientale e un taglio fortemente democratico e progressista.
Appare a questo proposito particolarmente significativa una testimonianza
di Arturo Osio, fondatore e a lungo segretario del Wwf Italia:
Avremmo potuto fare molto di più ma abbiamo dovuto contenerci
perché il Wwf internazionale un po' ci controllava, non è che
amasse molto le nostre deviazioni rispetto alla tematica specifica delle
specie in estinzione o della raccolta di fondi. Eravamo visti un po'
così, insomma ... Poi, dopo, quando cominciarono a fare delle indagini
- indagini che avevano fatto loro senza dirci niente - sulla
popolarità del Wwf in Italia, qual'era l'associazione più
conosciuta in Italia, rimasero stupefatti ... Così dovettero abbozzare
e per anni non tornarono più sulla problematica [21].
Questa peculiare "politicità diffusa" dell'ambientalismo italiano -
che in alcune fasi non mancò di creare disagi e scontri all'interno di
associazioni come Italia Nostra e Pro Natura [22] - andrebbe studiata in
modo più approfondito, ma credo sia comunque possibile avanzare
qualche prima ipotesi sulle sue radici:
a) l'inevitabile carattere di denuncia e di opposizione assunto dal
protezionismo associativo degli anni '50 e '60 di fronte al carattere
selvaggio dello sviluppo italiano degli anni del boom economico;
b) al di là della comune postura polemica, l'effettiva derivazione di
gran parte della nascente ecologia politica italiana da visioni, agende e
strutture proprie dell'associazionismo protezionista;
c) come osservato ancora una volta dai sociologi [23], la forte egemonia
culturale e sociale esercitata da partiti e movimenti latamente di sinistra
tra la fine degli anni '60 e per tutti gli anni '70 non ha mancato di
influire sull'identità culturale e sulle pratiche dell'associazionismo
protezionista.
Un declino avvertito ma mai messo a tema
Sono in ogni caso gli anni '80 la fase più fortunata
dell'ambientalismo italiano, segnata in particolare da due vicende di
rilievo: la grande mobilitazione antinucleare e la nascita di una
rappresentanza politica verde. La fine del decennio, che appare ai
contemporanei come l'epoca della consacrazione definitiva del movimento,
finirà invece col configurarsi come l'inizio di un ripiegamento.
A cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90 il movimento inizia infatti a
perdere slancio e a percorrere quella parabola che ha condotto nei decenni
successivi alla scomparsa di una rappresentanza politica ambientalista
autonoma, a un associazionismo ambientalista spaccato con modalità e
su linee di frattura inedite e a un'influenza sui media e sulle istituzioni
notevolmente ridimensionata rispetto al passato oppure come caratterizzata
in senso fortemente consociativo.
Un declino fatto di temporalità diverse
A osservarlo più da vicino, questo declino - pur temperato
dall'emergere da altre forme di mobilitazione, soprattutto giovanili e
locali - sembra in realtà composto da archi temporali diversi: alcuni
temi si appannano presto, alcuni protagonisti perdono peso e in qualche
caso addirittura spariscono dalla scena, altri resistono più a lungo
oppure si prolungano fino ad oggi, talvolta trasformandosi.
Alcuni elementi vanno in crisi presto o relativamente presto:
a) l'ecologia di classe, la lotta operaia per la salute in fabbrica e sul
territorio esterno alla fabbrica sembrano esaurire la loro spinta già
verso la metà degli anni '70 [24];
b) il cruciale nesso riformista tra programmazione economica e
pianificazione territoriale si esaurisce a livello nazionale già alla
fine degli anni '60 e, trasferito in parte alle regioni, si appanna via via
fino a scomparire quasi del tutto nel corso degli anni '80 [25];
c) nel corso degli anni '80 si affievolisce anche il dibattito sulla
neutralità della scienza e della tecnica e sul nesso tra modo di
produzione capitalista e crisi ambientale che tanto peso aveva avuto nella
definizione dell'ecologia politica degli anni '70 [26] mentre per qualche
anno, tra la metà degli anni '80 e i primi anni '90, gode di una
discreta popolarità una discussione sul paradigma della
complessità associato alle questioni ambientali [27];
d) per quanto riguarda la pianificazione urbana e territoriale in sé
la crisi comincia già nella prima metà degli anni '80 e si
aggrava progressivamente fino all'estesa deregulation odierna [28].
Resta invece molto forte, almeno fino al referendum del 1987, la
mobilitazione antinucleare [29] e fino alla fine del
decennio quella - anche popolare - per alcune grandi riforme ambientali,
soprattutto per le aree protette [30].
Tante crisi intrecciate e qualche causa comune
Se la ricostruzione delle cause e delle esatte parabole di queste diverse
ma convergenti crisi costituisce una sfida teorica stimolante ma ancora
tutta da approntare, esse sembrano comunque essere state influenzate da un
insieme di fenomeni anch'essi convergenti ma in senso opposto a quello
degli anni '70.
Si può provvisoriamente provare a elencarne alcuni:
a) l'incipiente e sempre più grave crisi delle sinistre, tanto di
classe quanto riformiste, delle loro culture e del loro radicamento
sociale;
b) il successo, di contro, e la pervasiva diffusione della cultura e della
prassi politico-istituzionale neoliberiste;
c) la crisi - oggi globale, ma in cui l'Italia ha avuto una funzione
anticipatrice - del sistema tradizionale dei partiti e il precoce
affermarsi di una politica-spettacolo populista, personalistica e
fortemente semplificatoria sia per quanto riguarda le visioni
politico-culturali, sia per quanto riguarda i contenuti qualificanti, sia
per quanto riguarda i programmi;
d) la storica fragilità italiana della cultura e della prassi
partecipativo/democratiche;
e) l'altrettanto storica fragilità italiana dell'armatura
istituzionale pubblica, unica possibile garante della corretta applicazione
delle politiche ambientali.
Qualche quesito e una questione tanto paradossale quanto sintomatica
L'analisi di questo declino è però - è bene ripeterlo -
tutta da costruire.
Mentre disponiamo infatti di qualche canovaccio - sia pure ancora
impressionista - degli svolgimenti storici dell'ambientalismo italiano tra
l'immediato dopoguerra e la fine degli anni '80 - non a caso gli anni della
cosiddetta "prima repubblica" - gli sviluppi successivi appaiono oggi come
una terra incognita, nonostante l'anomalia italiana costituita dal
fatto di essere uno dei pochi paesi europei privo di rappresentanza
parlamentare verde dovrebbe suscitare qualche curiosità.
Oltre a porre le due questioni correlate del perché di questa lacuna
analitica e di cosa dobbiamo cominciare a mettere dentro a questa terra incognita, vorrei concludere additando un interessante
paradosso che ci riporta alla contrapposizione da cui siamo partiti tra
protezionismo naturalistico ed ecologia politica.
Il paradosso dell'inversione dei ruoli
Se vogliamo continuare a prendere per buona - ma a fini di sola
semplificazione - la contrapposizione tra due ambientalismi, uno più
elitario, moderato, apolitico e al tempo stesso istituzionale, e l'altro
più di massa e democratico, radicale, aggressivo, politicizzato e
movimentista ci ritroviamo oggi di fronte a una curiosa inversione di
ruoli.
Sparito l'ambientalismo di classe e di fabbrica, ridotto a pochissima cosa
quello di critica dei saperi borghesi, della scienza e della tecnologia, il
quadro che abbiamo di fronte oggi è caratterizzato anzitutto da una
nuova contrapposizione: quella tra il vecchio associazionismo protezionista
che continua a svolgere un ruolo di denuncia non troppo dissimile da quello
di quaranta anni fa e i principali eredi dell'ecologia politica degli anni
'70 che si caratterizzano da un lato per un'adesione convinta ai paradigmi
dell'ambientalismo neoliberista (denuncia della "sindrome nimby",
esaltazione e promozione della "green economy", assunzione della teoria dei
servizi ecosistemici, etc) e dall'altro per uno schiacciamento progressivo
su una "politica politicata" che appare allontanarsi sempre di più non
solo dalla partecipazione di base ma anche da qualsiasi forma di accountability.
Ammesso che questa mia analisi - basata soprattutto su un'"osservazione
partecipata" delle vicende degli ultimi due o tre lustri - abbia un fondo
di verità, credo che anche l'interpretazione di questo paradosso
costituisca una sfida storiografica molto stimolante.
Cosa rimane ancora fuori
È bene che io lo confessi: nonostante potesse sembrare cosa agevole,
il compito affidatomi da Gabriella era in realtà temibile e il
carattere approssimativo, di torso incompiuto pieno di domande più che
di risposte, di questo paper credo che lo dimostri.
Vorrei solo accennare in conclusione a una complicazione, tanto per non
farmi mancare niente: quel che rimane fuori da questo quadro e che chiede
di essere preso in considerazione.
Al momento vedo soprattutto tre temi, alcuni dei quali godono già di
una letteratura più o meno consistente mentre altri restano poco o per
niente conosciuti:
a) cosa sono e come si configurano all'interno dell'ambientalismo degli
anni '70 e '80 i radicali, che pure in quella fase furono dei protagonisti
di primissimo piano;
b) come si configura la parabola della rappresentanza verde - ed ecologista
in genere - rispetto alle varie componenti dell'ambientalismo italiano;
c) come si configurano e come pesano i movimenti spontanei, di base - e in
particolare le vertenze territoriali - nella fase alta degli anni '70-'80 e
poi nella successiva fase di declino fino ad oggi.
Altro ancora potremmo aggiungere, ma per ora penso che tutto questo basti.
Grazie dell'invito e dell'attenzione prestatami.
[1]
Joachim Radkau, The Age of Ecology, Cambridge, Polity
Press, 2014, p. 90: "the tens of thousands of young enthusiasts who
observed Earth Day on 22 April 1970 in Washington and many other
cities believed that they were the first to have discovered the
acute threat to nature; most of them had no idea at all of the long
list of their predecessors. This is why many environmental
historians have sought to demonstrate the historical falsity of
this conception of a 'ground zero'".
[2]
L'opera appena citata di Joachim Radkau dedica un intero capitolo
all'anno 1970 sotto il significativo titolo "The Great Chain
Reaction", pubblicato in traduzione intaliana in questa stessa
sezione di "altronovecento".
[3]
Qualche esempio basterà a dare il senso dell'improvvisa e
crescente ondata di attenzione. Dopo essere comparsa
incidentalmente e in un solo caso per anno nel 1968 e nel 1969, la
parola "ecologia" nel senso di "questione ambientale" inizia a
ricorrere sistematicamente su "La Stampa" solo a partire dal mese
di febbraio del 1970, finché il 12 agosto vi dedica un
editoriale Alberto Ronchey. Il 26 giugno il settimanale del Partito
Comunista Italiano, "Rinascita" avvia per la prima volta un'ampia
discussione sull'ecologia con un articolo di Giovanni Berlinguer
(pubblicato nella sezione "Documenti" di questo stesso numero di
"altronovecento") cui seguiranno gli interventi di Sergio Scarpa,
Giorgio Morpurgo, Franco Busetto, Vittorio Carreri, Giorgio Casule,
Guido Manzone, Corrado Perna e Lamberto Pignatti. È solo in
seguito all'avvio di questo dibattito che la parola "ecologia"
compare per la prima volta nella sua accezione politica sul ben
più diffuso quotidiano del PCI: Concetto Testai, "Una scienza
che contesta", "l'Unità", 25.8.1970, p. 3. Nel mese di
settembre la rivista "I problemi di Ulisse" dedica un impegnativo e
denso numero monografico al tema "I guastatori della natura". Il 5
dicembre, infine, padre Bartolomeo Sorge pubblica su "La
Civiltà Cattolica" il suo articolo seminale "La crisi
ecologica. Un problema di coscienza e di cultura", peraltro primo
articolo di argomento ambientale sulla rivista e commento del primo
intervento papale su temi ecologici. Anche i saggi di Bettini e
Sorge sono riprodotti tra i "Documenti" di questo numero di
"altronovecento".
[6]
Dario Paccino, L'imbroglio ecologico, Torino, Einaudi,
1972.
[8]
Ho in corso di pubblicazione una ricostruzione della genealogia
culturale delle due associazioni, ma al momento si può sempre
utilmente far riferimento all'accurata esplorazione di Edgar Meyer,
I pionieri dell'ambiente. L'avventura del movimento ecologista
italiano. Cento anni di storia
, Milano, Carabà, 1995.
[9]
Simone Neri Serneri, "Culture e politiche del movimento
ambientalista", in
L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. II.
Culture, nuovi soggetti, identità
, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2003, pp. 367-399.
[11]
Luigi Piccioni, "Paccino e Peccei: una relazione lasca col
Sessantotto", in L'ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto,
a cura di Pier Paolo Poggio e Carlo Tombola, Brescia, Fondazione
Micheletti, 2019, pp. 203-205.
[12]
Realtà delle centrali termonucleari. Morte pulita
, Roma, World Wildlife Fund Italia, 1974.
[13]
Roberto Della Seta,
La difesa dell'ambiente in Italia. Storia e cultura del
movimento ecologista
, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 41-42.
[14]
S. N. Serneri, "Culture e politiche del movimento ambientalista",
cit., p. 369.
[15]
Elena Davigo, "The origins of the Italian ecology movement. The
birth of Nuova Ecologia", in State of Nature.
2nd International Workshop of the Nature and Nation Network.
Bucarest 2-4 December 2011
, a cura di Marco Armiero, Wilko Graf Von Hardenberg e Valentin
Quintus Nicolescu, Bucarest, Pro Universitaria, 2012, pp. 44-59;
Catia Papa, "Alle origini dell'ecologia politica in Italia", in
L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. II.
Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di Fiamma
Lussana e Giacomo Marramao
, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 422-24.
[16]
La vicenda è rievocata da Andrea Poggio nel suo Ambientalismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1996, pp.
30-35.
[17]
Come relatore al convegno dell'Istituto Gramsci su "Uomo natura e
società" del novembre 1971, i cui atti usciranno tre anni dopo
per i tipi degli Editori Riuniti.
[18]
Fondazione Luigi Micheletti. Archivio Giorgio e Gabriella Nebbia.
Busta Corrispondenza W. Giorgio Nebbia a Fulco Pratesi
24.8.1968; Id., Busta Corrispondenza FA FE. Giorgio Nebbia
alla sede centrale di Pro Natura Italica 26.7.1969. Si veda al
riguardo Luigi Piccioni, "Giorgio Nebbia e l'ecologia. Un profilo
biografico", in Giorgio Nebbia, La terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo,
a cura di Lelio De Michelis, Milano, Jaca Book, 2020, p. 18.
[19]
A. Poggio, Ambientalismo, cit., pp. 64-76.
[20]
Donatella della Porta e Mario Diani, Movimenti senza protesta? L'ambientalismo in Italia,
Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 17-20.
[21]
Arturo Osio (1932), testimonianza raccolta a Colico il 6.4.2016.
[22]
Una dura polemica interna riguardo a scelte di viabilità
nazionale portò ad esempio nel 1978 all'uscita di Susanna
Agnelli da Italia Nostra. R. Della Seta, La difesa dell'ambiente in Italia, cit., p. 44.
[23]
Si veda ad esempio il saggio di Giovanni Lodi, "L'azione ecologista
in Italia: dal protezionismo alle Liste verdi", in La sfida verde. Il movimento ecologista in Italia, a cura
di Roberto Biorcio e Giovanni Lodi, Padova, Liviana, 1988, pp.
17-26.
[24]
M. Citoni e C. Papa, Sinistra ed ecologia in Italia, cit.,
pp. 64-65.
[25]
Cristina Renzoni,
Il Progetto '80. Un'idea di paese nell'Italia gli anni Sessanta
, Firenze, Alinea, 2012, p. 27.
[26]
Sul dibattito sulla neutralità della scienza si vedano i
bilanci a firma degli autori e di Arianna Borrelli, Marco Lippi,
Dario Narducci e Giorgio Parisi contenuti nella ri-edizione del
2011 (Milano, Franco Angeli) dell'opera di Giovanni Ciccotti,
Marcello Cini, Michelangelo De Maria, Giovanni Jona-Lasinio,
L'ape e l'architetto. Paradigmi Scientifici e Materialismo
Storico
, originariamente pubblicata nel 1976 da Feltrinelli.
[27]
Interesse diffuso ben testimoniato dall'esperimento della rivista
mensile "Arancia blu" fondata e diretta da Enzo Tiezzi tra il 1990
e il 1992. Su Tiezzi, su quella discussione e su "Arancia blu" si
veda Lucio Passi, Enzo Tiezzi. Verso il nuovo ambientalismo, Roma, La
biblioteca del Cigno, 2013. Ma al riguardo si vedano le notazioni
nel saggio di Angelo Baracca contenuto in questa stessa sezione di
"altronovecento".
[28]
Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica, Bari-Roma,
Laterza, 2003, cap. X.
[29]
Una recente messa a punto su un soggetto sul quale si sta
risvegliando un certo interesse è costituita dall'articolo di
Catia Papa, "Energia, democrazia, sviluppo: il movimento
antinucleare in Italia (1976-86), in "Meridiana", XXXIV (2020), n.
98, pp. 241-53.
[30]
Carlo Alberto Graziani, "Le aree naturali protette", in Trattato di diritto agrario. 2. Il diritto agroambientale,
a cura di Luigi Costato, Alberto Germanò, Eva Rook Basile,
Utet, 2011, pp. 361-440.