Il manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell'ambiente e del
territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19, a cura di Giampaolo Nuvolati e Sara Spanu, Ledizioni, Milano, 2020.
Avevo preso in mano questo lavoro collettivo sulle trasformazioni indotte
dalla pandemia nelle città e nel rapporto tra queste e la campagna con
curiosità, ma pensando che, comunque, trattasse di una vicenda
passata, ancorché drammatica e istruttiva. Sennonché, la
realtà della seconda ondata suggerisce quanto sia urgente e utile per
riprogettare il futuro scorrere i 35 contributi di riflessione e proposte
contenuti in questo Manifesto.
Dar conto di un'opera così ricca di spunti e suggestioni è
ovviamente impegnativo. Mi preme innanzitutto chiarire perché mi
sembra meriti un'attenta lettura. La pandemia tutt'ora in corso non
v'è dubbio che rimetta inevitabilmente in discussione il rapporto che
stanno intrattenendo l'uomo contemporaneo con la natura e la tecnica con
l'ambiente. Il nesso tra pandemia del Covid-19, come altre zoonosi
(malattie di origine animale), e degrado dell'ambiente è stato
evidenziato proprio da uno studio prodotto dal Programma per l'ambiente
dell'onu (unep, Six nature facts related to coronaviruses, 8
aprile 2020
https://www.unenvironment.org/news-and-stories/story/six-nature-facts-related-coronaviruses
). D'altro canto, per quanto riguarda la presunta onnipotenza della
tecnica, la decantata efficienza del sistema di cura ha mostrato di
poggiarsi su piedi d'argilla di fronte all'attuale pandemia, proprio in
Lombardia, la Regione tecnologicamente e industrialmente più avanzata
del Paese. Una debacle che ha lasciato tutti stupefatti, e che non
si può spiegare solo con il taglio degli investimenti pubblici nella
sanità, in omaggio alle politiche di aggiustamento di bilancio, con il
dissennato foraggiamento delle imprese sanitarie private a scapito del
patrimonio pubblico, con la regionalizzazione di un servizio che doveva
rimanere nazionale, alimentando così corruzione e clientelismo. La
causa va ricercata più in profondità e individuata nella
presunzione della modernità capitalistica di ridurre la natura, la
biosfera, alla dimensione della gigantesca protesi esosomatica creata
dall'uomo, la cosiddetta tecnosfera. Come questa, in quanto prodotto
artificiale, è ritenuta con qualche ragione perfettamente misurabile,
programmabile, prevedibile e governabile, così, da parte di una
tecnoscienza arrogante, si è pensato di poter includere nello stesso
paradigma anche la natura. Dimenticando la lezione profetica di Leopardi
sull'irrimediabile fragilità dell'uomo di fronte ad una natura che
è sì fonte essenziale di vita - e per questo andrebbe il più
possibile preservata dal degrado e dall'inquinamento -, ma può essere
anche matrigna, con eventi di una forza dirompente immensa, dai terremoti e
dalle eruzioni vulcaniche, ai tifoni, alle alluvioni, alle pandemie virali,
eventi da cui possiamo difenderci con la sola arma della prevenzione, che
invece abbiamo del tutto dismessa.
Così le strutture deputate alla tutela della salute e alla cura sono
state negli ultimi decenni ridefinite sul modello delle aziende che
producono automobili: anche negli ospedali si è affermato il toyotismo
del just in time, che prevede l'azzeramento delle scorte e dei
magazzini, lo sfruttamento massimo degli impianti con la riduzione del
personale e la dismissione di macchinari, ovvero di letti e
apparecchiature, sottoutilizzati. L'aziendalizzazione non è stata solo
un'operazione nominalistica, ma sostanziale: la cura di un corpo, di un
organo, di un batterio o di un virus è stata assimilata alla
costruzione di un'automobile e l'efficienza è stata misurata nel
rapporto tra costi (quindi posti letto, scorte di magazzino, personale,
apparecchiature …) e prestazioni e si è preteso di programmare
questo rapporto, incentivato con premi ai dirigenti anche nel pubblico,
sulla base di algoritmi lineari assimilabili all'andamento di mercato
previsto per le automobili. Con tale impostazione ovviamente ci si è
trovati disarmati di fronte all'imprevedibilità e non
programmabilità della natura, di una biosfera che sa sempre
sorprenderci nel bene o nel male. Insomma, anche in questa vicenda che ha
sconvolto l'intero pianeta, sembrano confermarsi i caratteri di una
tecnoscienza che si è in gran parte messa al servizio di un sistema
sociale e produttivo, quello capitalistico e neoliberista fino a ieri
trionfante, mosso dagli idoli della crescita illimitata, dell'efficienza,
della competitività, del massimo profitto, idoli ai quali vanno
sacrificate le risorse naturali e le "risorse umane", come pudicamente si
definiscono le prestazioni lavorative anch'esse private in gran parte di
tutele, dopo il crollo del comunismo e la sconfitta del movimento operaio.
Ci permettiamo, a questo punto, di riproporre una riflessione di qualche
anno fa che oggi appare profetica del caro amico, nostro direttore (P.P.
Poggio, "Tecnica e natura", in,
L'altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Alle frontiere
del capitale,
a cura di P.P. Poggio, vol. vi, Jaca Book, Milano 2018, p. 5):
La crisi ecologica rende manifesti gli effetti negativi del progetto
fondamentale della modernità: sfruttare integralmente le risorse
naturali per costruire un mondo sempre più artificiale, sino ad
arrivare a liberarsi della natura e di tutti i limiti. La novità
inaspettata è che la natura non umana si è ribellata al suo
sfruttamento, pena il dispiegarsi di retroazioni incontrollabili. Questo
ritorno del non umano ha di colpo posto fine al monopolio scientifico del
discorso sulla natura e ha messo in crisi il progetto ideologico
trasversale di neutralizzazione, tendenzialmente assoluta, della natura da
parte della tecnica.
Ora l'umanità è di fronte ad un microscopico virus che ha
letteralmente messo in ginocchio un mondo così perfezionato e
tecnologico, tronfio di sviluppo e di scienza, costringendo in clausura tre
miliardi di persone, cosa mai successa nemmeno nel xiv secolo con la peste
nera. E, probabilmente, il generale sbigottimento nasce, più che dalla
paura della morte, dallo smarrimento di fronte agli incredibili limiti che
abbiamo scoperto di avere.
Se queste considerazioni hanno un fondamento inevitabilmente lo
sconvolgimento prodotto dal Covid-19 nelle nostre esistenze ha e avrà
degli effetti importanti anche nel nostro modo di abitare il territorio,
dentro le città e nelle periferie, nelle aree interne e nei piccoli
borghi, con significative differenze tra le diverse condizioni economiche,
culturali, di età, di genere, di etnia…
Ebbene di questo si occupa Il manifesto in esame, cercando di
analizzare tutti gli aspetti, le sfaccettature, le contraddizioni di un
vasto processo in corso, in larga parte inatteso, vorticoso, in certi casi
violento, destinato a ridefinire il rapporto tra le città e le aree
interne, e le loro interazioni con la natura, facendo emergere, oltre alle
criticità ambientali, anche nuove fragilità nelle relazioni tra
gli umani che vanno tempestivamente riconosciute per non aggravare, ma
semmai per attenuare quegli squilibri ecologici e sociali che il
neoliberismo ha prodotto nell'ultimo trentennio. Ebbene questa appare
l'ispirazione, del tutto condivisibile, che accomuna i diversi contributi,
pur nella varietà degli accenti, del livello di radicalità, dei
toni più o meno preoccupati, della pregnanza e originalità delle
proposte. In questa sede non possiamo che citarne alcuni, con l'avvertenza
che non si tratta di una scelta dettata da una scala di valori, ma
semplicemente tesa ad esemplificare le caratteristiche e i contenuti del
volume.
Colpisce per la spiazzante denuncia il primo breve saggio di Claudio
Marciano, "La via del propilene", straordinariamente simbolico
delle contraddizioni strutturali del nostro tempo ancor più
evidenziate dal Covid-19. Come abbiamo vitro, l'allarme dell'Onu
sull'influenza dello stress ambientale nella virulenza di questa pandemia
è stato oltremodo chiaro. Eppure le istituzioni ed i comportamenti
collettivi non sembrano ancora avvedersene, neppure in questa fase
emergenziale.
Non deve sorprendere, pertanto, che dei 55 miliardi di euro in deficit che
lo Stato Italiano ha finora investito per gestire l'emergenza Covid-19,
neanche uno sia dedicato alla ricerca di soluzioni alternative agli attuali
DPI o al contenimento del loro impatto ambientale. […] La maggior
parte delle mascherine disponibili in commercio sono quelle 'chirurgiche'.
Si tratta di dispositivi in polipropilene con 2-3 strati di tessuto non
tessuto. Diffuse prevalentemente in ambito ospedaliero sono invece le
mascherine FFP2 o FFP3 costituite anch'esse da più strati di
polipropilene" (pp. 24-25). Lo smaltimento e la dispersione in ambiente di
miliardi di questi "usa e getta" ha un impatto ambientale insostenibile:
per prevenirlo ed evitarlo basterebbe semplicemente "brevettare un set di
dispositivi di protezione pienamente riutilizzabili certificato
dall'Istituto Superiore di Sanità" (p. 26).
Una vicenda straordinariamente simbolica, dicevamo. Il polipropilene è
la plastica di "qualità" inventata agli albori del boom economico che
ne ha rappresentato in qualche modo il substrato essenziale, dopo che nel
1954 gli studi del tedesco Karl Ziegler a Mulheim e dell'italiano Giulio
Natta nei laboratori Montecatini (insigniti entrambi per questo del premio
Nobel) consentirono di polimerizzare il propilene. In particolare il
polipropilene costruito da Natta e brevettato dalla Montecatini (il mitico Moplen dello storico spot di Gino Bramieri che fece la fortuna nel
mondo dell'oligopolio nazionale) era ed è un materiale plastico,
più di altri, particolarmente versatile negli impieghi finali. Ma
soprattutto ha diffuso l'illusione che il mondo artificiale creato dalla
tecnica fosse migliore di quello naturale, che questi nuovi prestanti
materiali potessero costruire una nuova tecnosfera al servizio dell'uomo
emancipandolo dalla biosfera. Si sa, oggi, com'è andata a finire: le
microplastiche hanno impestato il globo, hanno inzuppato il mare,
cominciando a soffocare i pesci, hanno contaminato l'acqua potabile
prefigurando scenari inquietanti per la vita umana. Ecco, mi pare che
questa storia delle mascherine di propilene sia una fulminante parabola
dell'attuale crisi ecologica e del groviglio di contraddizioni che ancora
ci impediscono di affrontarla.
Non poteva del resto aprirsi meglio la prima sezione tematica,Ri-produrre, seguita da Ri-pensare, quindiRi-connettere, poi Ri-abitare ed infine Ri-esplorare.
E così nella prima sezione non poteva mancare una rivisitazione della
nuova centralità del cibo e dell'alimentazione di qualità che
l'emergenza in corso ha proposto: "cibo sano e di qualità che passa ad
essere da commodity a commons; il lavoro degli
agricoltori e dei braccianti che deve essere lavoro pulito e dignitoso; gli
impatti ambientali, penalizzando l'agricoltura estrattiva; prodotti che
viaggino meno" (p. 29). Se un settore tradizionale, nel recente passato
troppo reietto e maltrattato, come l'agricoltura può ricevere,
paradossalmente, stimoli positivi dall'emergenza Covid-19, quello più
innovativo della cosiddetta sharing economy, ne viene stravolto,
con attività pesantemente colpite (turismo, ospitalità, viaggi) e
altre invece rilanciate (commercio gestito da piattaforme digitali,
consegne a domicilio) per cui si impone "ripensare l'ecosistema sharing […] domandandosi come accompagnare un cambio di
paradigma in direzione dell'innovazione sostenibile più che del
profitto: […] Sicurezza e tutele per gli operatori: ai
soggetti più esposti è necessario garantire diritti,
ammortizzatori sociali e tutele. Dimensione cooperativa per
correggere la distopia delle piattaforme corporate: incentivare la
nascita di piattaforme mutualistiche che siano anche tecnologiche, o
favorire la trasformazione in chiave cooperativa delle piattaforme
esistenti, attraverso incentivi/voucher/fondi" (p. 34).
La produzione e fruizione culturale è, forse, la principale ragion
d'essere della città che il Covid-19 ha profondamente messo in crisi:
come far sì che nelle nuove condizioni questo bene comune, alimentato
dalla indispensabile socialità "faccia a faccia" e dalla
partecipazione cui è strettamente connesso, è il tema che occupa
l'attenzione degli altri contributi della prima sezione.
Tematiche che vengono riprese e approfondite nella seconda sezione per
immaginare nuove soluzioni per la configurazione sociale delle città,
sapendo che "l'emergenza sanitaria per la diffusione del virus Sars CoV-2,
nell'arco di poche settimane, ha messo in crisi i caratteri fondanti delle
nostre città, a partire dai suoi spazi collettivi", fondamentali
proprio per i bisogni delle fasce più deboli. Da qui i titoli del che
fare, secondo Antonietta Mazzette, Daniele Pulino e Sara Spanu:
"Riorganizzazione in sicurezza degli spazi pubblici. Riorganizzazione delle
politiche sociali e sanitarie. Il Sistema sanitario pubblico è da
considerarsi un elemento fondamentale per la sicurezza urbana. Il che
significa rafforzare il principio che la sanità è un bene comune primario da tradurre in termini di qualità e
di accessibilità garantita a tutti. Diffusione delle tecnologie
digitali: l'uso delle tecnologie andrebbe incrementato reso accessibile a
tutti […]. In questa direzione le città italiane dovrebbero
ri-orientarsi in un'ottica concretamente smart" (pp. 57-58).
Diversi sono i suggerimenti su come andrebbero ripensati gli spazi urbani,
rivolti a tutti ("Favorire la fruizione delle aree verdi e dei parchi
pubblici. Favorire la mobilità lenta. Più attenzione al design
urbano" p. 61), oppure mirati da Gilda Catalano a quartieri e a soggetti
più disagiati: "mini suggerimenti low-cost per avvicinare il
linguaggio dello spazio alle frange sociali più fragili di un
quartiere tramite forme di riorganizzazione spazio-temporale […]
usando le social streets (come nel caso di via Duse a Bologna ) in veste di piattaforme di riprogrammazione delle attività
all'aperto […]. Una seconda idea potrebbe riguardare l'uso degli
spazi vuoti e sottoutilizzati (cortili, piazze fallite, scalinate) come
punti di aggregazione per distinte iniziative scaglionate per fasce orarie:
da quelle di base (mense all'aperto) a quelle di cura (consulenze, aiuti o
persino attività ricreative) […] Una terza proposta consiste nel
creare un fondo comune nei quartieri, in base al proprio reddito, per le
opere di filtraggio e ventilazione di quei luoghi coinvolti in una continua
attività di volontariato (centri sociali e punti chiusi per la
distribuzione di cibo e medicine), insieme ad una sanificazione
auto-regolamentata degli spazi di routine condivisi" (p. 66). Poiché,
come molti contributi giustamente mettono in rilievo, non è "andato
tutto bene" alla stessa maniera per tutti, anzi il Covid-19 ha esasperato
le disuguaglianze sociali, culturali, territoriali.
Per quanto riguarda il territorio ed il tradizionale rapporto città e
campagna le scosse della pandemia colpiscono in modo contraddittorio: la
città, è ormai chiaro, per la densità delle relazioni e,
probabilmente, per l'inquinamento è un ambiente dove il coronavirus ha
modo di correre velocemente e nello stesso tempo dove la clausura provoca
uno shock violentissimo; mentre le aree interne, i piccoli borghi, meno
inquinati e con relazioni e spostamenti più rarefatti, a volte sono
rimasti addirittura liberi da contagi, come nel caso di alcuni piccoli
comuni montani. Tuttavia, nel momento in cui le comunicazioni si spostano
sulla rete, comprese quelle formative degli istituti d'istruzione, la
città sembra di nuovo avvantaggiarsi per velocità e sicurezza
della rete, ma anche per garanzia di cura sanitaria adeguata in seguito
alla centralizzazione in mega strutture ospedaliere quasi esclusivamente
urbane.
E qui l'attenzione si sposta sull'altra grande questione che, se vogliamo,
caratterizza il nostro tempo e la cosiddetta globalizzazione e a cui è
dedicata la terza sezione, Ri-connettere: la forsennata
mobilità di persone e cose e le nuove forme digitali di comunicazione.
Di primo acchito sembra che il problema abbia trovato spontaneamente una
sua risistemazione riducendo, anche drasticamente, la prima ed espandendo
le seconde. Ma tutto ciò sta avvenendo con effetti sociali non sempre
desiderabili: da un canto forme nuove di mobilità sono comunque
irrinunciabili pena un danno economico e sociale insostenibile, dall'altro
la comunicazione digitale richiede una qualità ed accessibilità a
tutti che è ancora lontana dall'essere perseguita nel nostro Paese. Si
pensi, ad esempio, alla crisi dei Parchi naturali che richiedono un minimo
di mobilità per essere goduti che il Covid -19 ha del tutto bloccato
(p. 104). Da qui una serie di suggerimenti per mantenere viva una
mobilità essenziale e dolce: "Per il prossimo futuro è cruciale
definire un regime di mobilità (o sistema di governance della
stessa) che sia capace di bilanciare e garantire le necessità di vita
e le funzioni urbane con la sicurezza e la salute pubblica. Per questo
sarà centrale da un lato l'incentivazione della mobilità attiva
(a piedi e in bicicletta), principalmente nei contesti urbani dove la
prossimità e la densità lo permettono. Parallelamente deve essere
dato supporto al trasporto pubblico per non ridurre l'offerta a fronte di
una limitazione della capacità del Tpl. Occorre de-sincronizzare gli
orari di attività dei metronomi urbani e valorizzare le politiche
temporali, in maniera da garantire oltre alla sicurezza e alla
sostenibilità economica ed ambientale dei sistemi urbani anche quella
sociale. Inoltre bisogna ridurre i divari nell'utilizzo degli strumenti
digitali e ICT, che rappresentano un prezioso strumento per una migliore
gestione delle necessità di spostamento" (p. 86). Infatti quest'ultima
leva ha bisogno di particolari e urgenti cure: "le istituzioni dovrebbero
lavorare su tre aspetti: 1) la dotazione di infrastrutture per favorire
l'utilizzo di internet in tutti i quartieri, anche periferici; 2) la
fornitura di bonus per l'acquisto di device da parte delle fasce
più povere; 3) il supporto tecnico per evitare l'analfabetismo
digitale, con riguardo ad esempio agli anziani" (p. 108).
E veniamo ora al Ri-abitare, tema centrale per una riflessione
sulla città ai tempi del Covid-19. Qui mi permetto una citazione
estesa, e a mio parere significativa, del saggio di Igor Costarelli e
Silvia Magnano: "Casa e disuguaglianze". Durante il lockdown
l'abitazione è diventata luogo di studio, lavoro e svago facendo
emergere nuove esigenze e questioni che sembravano risolte: dal
sovraffollamento all'adeguatezza della casa per la nuova quotidianità.
Si tratta di questioni che mettono al centro la qualità abitativa e l'abitare di qualità e che influenzano altre sfere dove si
riproducono le disuguaglianze. Il vicinato. All'esterno
dell'abitazione in molti hanno riscoperto il valore delle relazioni con i
vicini di casa che possono rivelarsi una risorsa durante periodi prolungati
di isolamento, così come usufruire degli spazi comuni
(cortile/giardino condominiale) può restituire all'abitare la sua
dimensione comunitaria. Casa e quartiere. In situazioni di
mobilità limitata l'accessibilità a risorse e servizi essenziali
(dal supermercato alla farmacia) assume maggiore importanza e apre nuove
riflessioni circa la capacità dei quartieri di garantire a tutti i
servizi di base. Vulnerabilità abitative. La pandemia ha
aumentato la vulnerabilità di soggetti già fragili e privi di
tutele che vivono in condizione di estremo disagio abitativo: senza dimora,
migranti nei centri di accoglienza, abitanti dei quartieri di edilizia
residenziale pubblica, anziani in residenze, insediamenti informali, ghetti
rurali dove gli standard di salubrità sono minimi Le proposte per
orientare le politiche sono: (1) promuovere l'affordability
[cioè la capacità di sostenere i costi abitativi. Ndr] ; (2) rafforzare la dimensione sociale dell'abitare; (3)
integrare i servizi territoriali.
A partire da esperienze già consolidate, il condominio cooperativo può rappresentare una grande risorsa
non solo come estensione fisica della casa (con sale comuni dedicate al coworking, didattica a distanza, socialità) ma anche come
"soggetto" erogatore di servizi a km 0 (consegna spesa a domicilio per le
persone fragili, frigoriferi condominiali, case dell'acqua e forme di mutuo
aiuto tra condomini)" (p. 117). Altri contributi accentuano l'urgenza di
interventi riparatori dell'emarginazione che il Covid-19 ha ampliato:
"Questa emergenza, tuttavia, potrebbe diventare l'occasione per immaginare
una nuova idea di città, da restituire a tutti e non solo a pochi
eletti, a partire da una trasformazione radicale dei quartieri più
degradati delle città. […] La città che cura […] una
zona grigia caratterizzata da abitanti invisibili, appartenenti ad
un sottobosco definito dai più gravi livelli di fragilità e
abbandono, tra persone con disabilità psichiche, anziani invalidi e
soli, occupanti privi di tutele. In quest'ottica, le pratiche di cura
condivisa dei beni comuni potrebbero vivere un periodo di intenso sviluppo,
promuovendo iniziative di autorganizzazione dei cittadini su base locale e
di quartiere" (pp. 120-121).
Una scorsa merita anche l'ultima sezione Ri-esplorare dedicata soprattutto
al turismo nelle città e nelle aree interne. Le sfide che Covid-19
pone al settore turistico sono molteplici e per certi aspetti meno
prevedibili rispetto ad altri settori e si affiancano alle nuove
sensibilità indotte dalla preoccupazione per il cambiamento climatico
e per la perdita di biodiversità, che portano ad interrogarsi sul
rapporto tra uomo e Terra. "Nel breve periodo il turista manifesterà
nuove priorità: ricerca di serenità, spazi aperti, sanità,
igiene, distanziamento sociale". Una tendenza che potrebbe consolidarsi con
una domanda in crescita rivolta alla natura e alle destinazioni minori e
poco affollate, un turismo interno di prossimità che potrebbe
diventare un pilastro fondamentale in futuro. Una tendenza che,
all'opposto, può mettere in crisi il processo che ha investito negli
ultimi tempi il turismo in molte città, dove è divenuto una
monocoltura: si sono moltiplicati, soprattutto nei centri storici,
ristoranti, pizzerie, paninerie, in contemporanea con B&B e case
vacanze, con l'effetto negativo, non solo di allontanare le identità
locali, ma anche di favorire la diffusione di lavoro non tutelato. Nel
saggio di Gennaro Avallone, Marianna Ragone si evidenziano "tre aspetti,
con l'obiettivo di costruire città maggiormente inclusive e con minori
disuguaglianze. In primo luogo, risulta necessario affrontare le condizioni
di vita di milioni di lavoratori del turismo, regolari e non, con
interventi immediati a livello statale oltre che regionale. In secondo
luogo, bisognerà pensare non solo a come salvare una parte del turismo
che le città hanno attirato negli ultimi anni, ma anche a come
diversificare le economie urbane locali, andando verso l'implementazione
della città come bene comune da curare e non più bene privato da
mettere a valore. In terzo luogo, in merito al ritorno della
disponibilità di alloggi nelle città bisognerà ristrutturare
il mercato immobiliare, orientandolo maggiormente verso i bisogni abitativi
della popolazione locale e meno verso il consumo turistico" (p. 151).
Infine si dovranno ripensare nel breve periodo le strategie turistiche,
individuando molti piccoli luoghi, isolabili ma non isolati che potranno
diventare la regola per ridurre la densità fisica.
Come si vede, dalle esemplificazioni riportate, diversi sono i pregi di
questa pubblicazione: innanzitutto si tratta di un lavoro collettivo, un
dato di per sé rilevante in un mondo troppo segnato dal'individualismo
e dalla competizione, anche nell'ambito della cultura e della ricerca; in
secondo luogo l'ispirazione che accomuna tutti i saggi sembra essere quella
che dal trauma del Covid-19 non si esce tornando alla situazione di prima,
come se nulla fosse accaduto, ma che invece si impone una trasformazione
profonda del nostro modo di stare sul Pianeta e di vivere le città e i
territori, nel segno di una pacificazione con la natura e tra noi umani; in
terzo luogo i suggerimenti avanzati, in generale, hanno il carattere della
saggezza, della concretezza e della fattibilità e potrebbero
rappresentare una grande risorsa anche per il rinnovamento dell'agire
politico a tutti i livelli, disintossicandolo dal vuoto chiacchiericcio,
spesso inutilmente sguaiato, e da un eccesso di litigiosità,
corroborandolo, invece, di efficacia operativa e di attenzione al bene
comune.
Sappiamo che l'obiettivo di una piena pacificazione con la natura e tra
tutti gli esseri umani che vivono il Pianeta è un compito assai arduo
e impegnativo: richiede una nuova cultura e un nuovo senso comune in gran
parte da costruire; deve invertire la formidabile inerzia dell'attuale
megamacchina produttiva e di consumo; infine deve contrastare imponenti
interessi economici e di potere che questa megamacchina alimenta. Tuttavia
ogni passo che possiamo compiere nella giusta direzione è doveroso e
in questo cammino può esserci utile il
Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell'ambiente e del
territorio.