Michele Boato, Arcipelago Verde, Ecoistituto del Veneto, Mestre, 2020, pp. 252, € 10,00.
"Stiamo scrivendo nella condizione inedita di reclusi in casa, come gran
parte dell'umanità, nel tentativo di contenere l'aggressione maligna
del Covid 19".[1] Una
situazione contingente benché di estrema gravità, ma anche una
precondizione da cui deriva il lavoro di scavo, di verifica, di
ripensamento con cui Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti hanno riguardato
il mezzo secolo che ci separa dalla fiduciosa affermazione di Giorgio
Nebbia, che si fosse allora davvero agli inizi di una "primavera
ecologica". Viviamo oggi invece un triste autunno, una volta di più la
natura afferma la capacità di dissolvere stili di vita, comportamenti,
modi di lavoro e di consumo, la stessa comunità civile.
Ripensare il mondo dentro la pandemia è dunque obbligo e dovere per
tutti, per chi da quella lontana primavera ha iniziato a leggere e studiare
i fenomeni sempre più allarmanti che gravano sul pianeta e per chi
invece ancora insiste a perseguire l'ossessivo mito della "crescita",
ciecamente additata come obiettivo primo dal potere economico e politico
del mondo intero (o quasi. Solo il Bhutan, mi pare, addita oggi la
felicità dei suoi abitanti come scopo primario dell'azione di governo
regale).
Il lavoro di Poggio e Ruzzenenti ha sullo sfondo la rivoluzione industriale
e tecnologica di questo ultimo mezzo secolo, basata essenzialmente
sull'energia fossile e nucleare e che ha dominato la produzione delle
economie cosiddette avanzate tra cui affannosamente è entrata
l'Italia; ovviamente il libro si muove tenendo presente l'orizzonte
planetario, ma punta l'attenzione sul caso Italia, studiato però - ed
è uno dei maggiori pregi del lavoro - non solo sulle evidenze
nazionali, ma attraverso l'esperienza, la riflessione, le strategie che
altrove sono state utilizzate.
Volendo dunque mantenere l'attenzione sul rapporto che si è costituito
tra industria e ambiente in Italia nel periodo considerato (mezzo secolo),
la prima constatazione che ne traggono gli autori è che si tratta di
un rapporto a tutt'oggi poco esplorato, sul breve o sul lungo periodo.
Adottando poi come criterio guida la dimensione qualitativa e quantitativa
dell'impatto che l'industrializzazione ha esercitato
sull'ambiente, distinguono quattro periodi (e la loro diversa consistenza
bibliografica): dalla fine Ottocento ai primi decenni del Novecento; dagli
anni Trenta a metà anni Cinquanta; da metà anni Cinquanta agli
anni Settanta; dagli anni Ottanta ad oggi. È però il terzo
periodo l'oggetto della ricerca ed è il più devastante,
caratterizzato dall'espansione impetuosa della petrolchimica e dall'uso di
fonti energetiche gravemente inquinanti.
Ci penserà però la crisi energetica e l'evento di Seveso del 1976
a mettere in evidenza gli effetti del libero sfruttamento del territorio da
parte del capitalismo industriale. È qui che si può già
misurare quella che nel libro viene definita "una sorta di
'autocolonizzazione' e di 'autosfruttamento' del proprio ambiente di vita.
In sostanza i meccanismi sono simili a quelli classicamente coloniali
(sfruttamento selvaggio delle risorse umane, naturali ed economiche di un
territorio da parte di una potenza straniera dominatrice), ma messi in
opera da forze interne, che appartengono allo stesso Paese che si
'autosfrutta', in un contesto democratico e con il consenso delle forze
politiche rappresentative, una forma di servitù volontaria, basata
sulla condivisione più che sul dominio dall'esterno". [2]
Il brusco risveglio degli anni Settanta, la vittoriosa battaglia
antinucleare e la "primavera ecologica" che ha la sua premessa nella prima
giornata della terra del 1970 e vede l'avvio di una prima mobilitazione
ambientalista, si deve confrontare però, fino agli anni Novanta, con
l'alternarsi, da parte del sistema politico, della rimozione o del rinvio nell'adozione di norme e regole, nonostante l'intervento in
campo dell'Unione Europea. Basta pensare che a fronte dell'incidente di
Seveso del 1976 l'Ue adotta nel 1982 la Direttiva CEE n.82/501 (chiamata
Direttiva Seveso) che la legislazione italiana si degna di recepire con il
DPR 175/88…
Da questo punto di vista, è sconfortante la lettura del
documentatissimo capitolo quarto, uno dei più importanti, dedicato a La mancata giustizia ambientale: non meraviglia più di tanto
quanto si legge se si riflette che, a fronte dell'emergenza ambientale,
altra gravissima emergenza italiana è proprio l'emergenza giudiziaria:
a prescindere dai suoi costi e dai suoi tempi, è sicuro incentivo
all'illegalità pervasiva nel nostro Paese il sapere di poter contare
sull'impunità o sui tempi biblici dei processi. Anche se la maggior
carenza a monte sta nell'attività legislativa. Eloquente quanto si
legge, nel sempre ricco e puntuale corredo di note: "Nel 2014, anno che ha
registrato il maggior numero di procedimenti penali per violazione del
testo unico ambientale, su un totale di 12.771 procedimenti, 7.174 sono
stati archiviati, in 8.727 casi l'azione penale riguarda contravvenzioni e
solo in 147 casi l'azione penale è per delitti. Cfr ISTAT,
I reati contro l'ambiente e il paesaggio. I dati della procura. Anni
2006-2016
, "Report", 10 luglio 2018, pag. 5". [3]
Anche a questo proposito i paradossi si sprecano: Giovanni Maria Flick,
ministro della Giustizia con il Governo Prodi dal 1996 al 1999, dichiara
nel 2014: "Il reato di disastro ambientale non è finora previsto dal
nostro Codice - e, se lo si volesse includere nel generico altro disastro -
la norma attuale sarebbe comunque un'arma spuntata, perché la misura
(bassa) della pena minima, e la difficoltà di prolungare nel tempo il
momento in cui il reato si consuma, fanno sì che la prescrizione
scatti in tempi abbastanza brevi, perfino anteriori al verificarsi degli
effetti dannosi, ed eventualmente delittuosi, sulla popolazione e
l'ambiente".[4] Bene, e lui
dov'era? Eppure ha riformato con altre leggi organiche il sistema
giudiziario.
Nei successivi capitoli il volume affronta il ruolo ambiguo della scienza,
nella crisi del paradigma chimico e fossile, per poi passare alla "sindrome
Nimby" e al nuovo "imbroglio ecologico". Riutilizzando nell'oggi
l'espressione di Paccino, ci si imbatte in un altro incredibile paradosso,
che fa sì che il signor Stefhan Schmidheiny, magnate svizzero della
Eternit e responsabile delle devastazioni del cemento-amianto in mezzo
mondo, si trasformi nell'ideologo dello "sviluppo sostenibile" (e diventi
leader "verde" del WBCSD.[5]
A stretto giro di invenzione segue poi la proposta lanciata a Davos nel
2017 della circular economy pronta a limitare l'estrazione
dell'ambiente di nuove risorse ed energie non rinnovabili in cambio di
immissione di materiali postconsumo, dimenticando però che nessuna
attività umana ha impatto zero e che l'incubo dei rifiuti eterni[6]
non è una minaccia, ma una realtà.
"D'altro canto, questo strano cinquantenario della Giornata della terra,
celebrato nel chiuso delle nostre case, ha indotto a una sorta di
consuntivo di questo mezzo secolo dell'ambientalismo". [7] Consuntivi più o
meno pessimistici, ma anche manifestazioni, appelli, lezioni, studi,
articoli lanciati in quest'anno difficile da una costellazione di
individui, gruppi, associazioni che dovrebbero riuscire a far massa
critica, ma di cui si fa ampio regesto; ancora di più, per gli autori,
sarebbe urgente un Piano del lavoro, come quello lanciato da Di Vittorio
nel 1949: "Forse questo sarebbe il momento più opportuno per il
movimento sindacale di contrapporre alla propaganda green del
sistema delle imprese un serio progetto di riconversione sociale ed
ecologica dell'economia, un nuovo Piano del lavoro e dell'ambiente da
proporre al Paese".[8] È
un punto importante, chiama in causa la necessità di una "primavera
sindacale" e politica, non solo ecologica.
È un libro utile e rigoroso, condensa anni di studi e di interventi
dei suoi autori[9]; offre
un'imponente serie di indicazioni e di riferimenti rispetto ai temi via via
trattati; reca comunque in sé l'attività della Fondazione
Micheletti che da decenni anche per loro merito lavora - sotto l'ala amica
e ispiratrice di Giorgio Nebbia - a far sì che, forse, possa
cominciare davvero una nuova "primavera ecologica".
[5]
Word Business Council for Sustainable Development.
[6]
Cfr. l'articolo dello stesso titolo della Società chimica
Americana di cui si parla a pag. 156.
[9]
Penso per esempio tra le opere di Ruzzenenti al saggio
L'autarchia verde. Un involontario laboratorio della green
economy
, 2011 che indicava le tante strade interrotte, e oggi nuovamente
percorribili, nella ricerca italiana degli anni '30.