Ci
fu chi parlò di “seconda
superpotenza mondiale”: il 15 febbraio 2003 milioni di persone
scesero in piazza in quasi tutti i paesi
del pianeta, simultaneamente, per dire no alla guerra di Bush Blair e
valvassori contro l’Iraq, “no alla guerra per il petrolio e per
gli affari”. Quell’esperienza di rivolta pacifica planetaria,
epica ma senza successo (non fu fermata nemmeno una bomba), non si è
ripetuta in occasione di successive guerre di aggressione diretto o
per procura, né per altre emergenze, ambientali e sociali.
Oggi
è il movimento dei giovani per il clima e per un’esistenza futura
a dilagare come uno tsunami - metafora non casuale - in tutto il
pianeta.
Impegnarsi
contro il caos climatico e - allo stesso tempo - opporsi alle guerre
e al complesso militar industriale dovrebbe essere un’ovvietà. Il
raggiungimento dell’obiettivo primario di zero emissioni è
impossibile senza includere il complesso militar-industriale, le sue
basi territoriali, i suoi eserciti e il suo risultato più tragico:
le guerre di aggressione, gli interventi umanitari responsabili di
devastazioni ambientali, vittime umane e spostamenti di popolazione.
Incalcolabili. Aeree e terrestri. Un carro armato e un
cacciabombardiere fanno guerra anche al clima.
Eppure,
non solo i governi presenti al Climate Action Summit dell’Onu non
hanno fatto parola dell’argomento bellico (nascosto sotto il
tappeto anche nei negoziati annuali, le Cop), ma anche a livello di
movimenti di massa per il clima, manca la contestazione delle
attività militari in tutti i loro sensi. L’antimilitarismo
dovrebbe imporsi fra gli ecomilitanti insieme al concetto di carbon
bootprint (impronta climatica degli
scarponi militari): l’impatto climalterante di energivori sistemi
d’arma, basi e apparati, aerei, navi, carri armati, eserciti;
soprattutto durante gli interventi bellici veri e propri.
Secondo
il rapporto A Climate of War. The war in
Iraq and global warming
(http://priceofoil.org/2008/03/01/a-climate-of-war/
), i primi quattro anni di pesantissime
operazioni militari in Iraq dal 2003 hanno provocato l’emissione di
oltre 140 milioni di tonnellate di gas serra (CO2 equivalente), più
delle emissioni annuali di 139 paesi.
Lo
studio Pentagon Fuel Use, Climate
Change, and the Costs of War
(https://watson.brown.edu/costsofwar/files/cow/imce/papers/2019/Pentagon%20Fuel%20Use,%20Climate%20Change%20and%20the%20Costs%20of%20War%20Final.pdf)
di Neta Crawford della Boston University nell’ambito del progetto
Cost of war,
analizza il consumo di carburante nelle guerre Usa “antiterrorismo”
post-11 settembre (non dimentichiamo che l’Italia è
corresponsabile avendo partecipato). Dal 2011 al 2017: la stima al
ribasso, per il solo consumo di combustibile, arriva all’emissione
di 1,2 miliardi tonnellate di gas serra (CO2 equivalente). Ma queste
stime non comprendono la produzione di armi e il suo zaino ecologico
e climatico, né l’impatto sul clima e sull’ambiente delle
distruzioni massicce di infrastrutture, case, servizi, tutto da
ricostruire. Milioni di tonnellate di cemento (fra le produzioni
industriali più energivore), combustibili per i macchinari ecc. Un
cappio al collo del pianeta, come sintetizzava l’appello Stop
the Wars, stop the warming lanciato dal
movimento World Beyond War (Wbw) alla
vigilia della Conferenza sul clima di Parigi (2015): “L’uso
esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense
serve a condurre guerre per il petrolio e per il controllo delle
risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il
riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla
finita con le guerre per i combustibili fossili, e con l’uso dei
combustibili fossili per fare le guerre”.
Stesso
tono nel rapporto Demilitarization for
Deep Decarbonization
(https://www.ipb.org/wp-content/uploads/2017/03/Green_Booklet_working_paper_17.09.2014.pdf)
curato da Tamara Lorincz per l’International Peace Bureau (Ipb):
“Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è
una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse
risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di
comunità resilienti”. Si consideri anche - dice Lorincz - che per
avere speranze, “l’80-90% dei combustibili fossili dovrebbe
rimanere sottoterra”, dunque “tutto quello che viene estratto
andrebbe usato per la transizione a un sistema a zero emissioni, non
per i militari”.
Il più studiato è il complesso
militar-industriale statunitense, che certo è l’imputato
principale (solo 35 paesi al mondo consumano più energia fossile di
quest’entità). Ma gli altri paesi sono complici.
Lo
scorso luglio, Wbw ha presentato un nuovo rapporto, The
US military and climate change
(https://worldbeyondwar.org/wp-content/uploads/2019/07/impact.pdf),
nel quale si visualizza, grazie al calcolatore di emissioni, il
confronto fra l’impatto climatico dei consumi per usi civili e
quello di un mezzo di trasporto grigioverde. Nel libro The
Green Zone. The Environmental Costs of Militarism
(2009), l’ex docente di storia delle idee Barry Sanders riporta un
calcolo impressionante: l’esercito Usa, strumenti connessi,
contribuirebbe da solo ad almeno il 5% delle emissioni di gas serra
totali; a questo vanno aggiunti gli eserciti, le armi e le operazioni
degli altri. Le spese militari mondiali (gli Usa fanno la parte della
tigre) sono arrivate a 1,74 trilioni di dollari nel 2017, secondo il
Sipri di Stoccolma. Trilioni traducibili in un’enormità di
tonnellate di gas serra. Trilioni per distruggere.
I
militari si occupano di clima, ma non certo per produrre meno armi e
fare meno guerre. Il libro The
Secure and the Dispossessed. How the Military and Corporations are
Shaping a Climate-Changed World (Pluto
Press) curato da Nick Buxton e Ben Hayes illustra le strategie del
settore militare e delle multinazionali per gestire i rischi (anche
con la geoingegneria che pretenderebbe di attenuare gli effetti del
riscaldamento globale senza la necessaria drastica riduzione delle
emissioni). Il fine è proteggere pochi in nome della sicurezza
escludendo i non privilegiati. In barba alla giustizia climatica. Del
resto il National Defense Authorization
Act (Ndaa) per il 2018 firmato dallo
stesso Donald Trump si preoccupa della “vulnerabilità delle
installazioni militari ai prossimi eventi climatici” e la US Navy
ha pubblicato un manuale sulle
tecniche di resilienza grigioverde. Loro sono preparati.
Anche
la Nato, nella Wales Summit Declaration
(http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2014_2019/documents/sede/dv/sede240914walessummit_/sede240914walessummit_en.pdf)
che concludeva nel 2014 una riunione del North Atlantic Council
(organo decisionale dell’Alleanza), vede fra i cambiamenti
climatici uno dei fattori che hanno e avranno un “impatto sulla
sicurezza ambientale” e che possono “interessare in modo
significativo la pianificazione e le operazioni della Nato”. La
quale si impegna non certo a estinguersi o quantomeno a non far più
guerre ma a migliorare la propria efficienza energetica… Ma come
farà il settore militare ad affrontare una vera transizione
post-fossile? Improbabile che le guerre del futuro si facciano con
cacciabombardieri a pannelli solari, carri armati a idrogeno e
successiva ricostruzione degli edifici con balle di paglia e canapa.
E
non finisce qui. Il settore militare non solo inquina ma contamina,
trasfigura, rade al suolo. “Il destino della Terra e del mondo è
nelle mani delle armi” (Barry Sanders). Le attività militari sono
responsabili di molte forme di inquinamento e danni alla salute delle
popolazioni: dai metalli pesanti per finire all’uranio impoverito,
e anche al torio per la sperimentazione di razzi nei poligoni di
tiro. Non meno grave è l’occupazione di territori che dovrebbero
essere adibiti a coltivazioni o altre attività umane utili, e che
invece rimangono gravemente e permanentemente contaminati dalle
attività militari. Come esempio sono noti - ma i procedimenti
giudiziari sono insabbiati - i danni alla salute umana e degli
animali, e ovviamente all’ambiente, dei poligoni di tiro in
Sardegna, regione che detiene il record di servitù militari in
Italia. In molti casi si inquinano anche le fonti idriche, come
sottolineano i pacifisti tedeschi che lottano per la chiusura della
base di Ramstein (hanno anche presentato un piano per la sua
eco-riconversione).
Uranio
impoverito: i casi riconosciuti di tumori
(e di decessi) che hanno colpito i soldati italiani
che servirono all’estero hanno
superato i 300. Ovviamente poco si sa sull’aumento di tumori e
malattie a danno delle popolazioni vittime degli indiscriminati
attacchi militari, e che ovviamente non hanno canali per ricorrere
alla giustizia o ottenere risarcimenti (il Tribunale per la ex
Jugoslavia archiviò le denunce contro la Nato).
C’è
da aggiungere che le spese militari (oltre
1.700 miliardi di dollari a livello mondiale, in Italia 80 milioni di
euro al giorno) sono risorse sottratte agli investimenti sociali e
alla riconversione verso un’economia equa ed ecologica.
E
poi, il nucleare militare. La fine della civiltà umana per la
minaccia dello sconvolgimento del clima potrebbe avvenire a causa di
una “scorciatoia”: una guerra nucleare, anche con l’uso di un
numero ridotto delle armi nucleari ancora esistenti (quasi 15.000) e
operative (quasi 5.000) causerebbe per la sola emissione di polveri e
detriti (anche senza contare le distruzioni dirette e il fall-out
radioattivo e le sue conseguenze sanitarie) un drastico oscuramento,
e conseguente raffreddamento dell’atmosfera terrestre, un
cosiddetto “inverno nucleare” con drastici danni all’agricoltura
e drammatiche carestie. Le simulazioni indicano che una guerra
nucleare fra India e Pakistan (costantemente sull’orlo di un
conflitto) che esplodano la metà dei loro arsenali nucleari, circa
260 testate complessive, potrebbe causare fino a 2 miliardi di
vittime. Non per nulla, la rete Peace and Planet e l’International
Peace Bureau organizzano a New York il prossimo aprile la conferenza
mondiale “Abolire le armi nucleari; affrontare la crisi climatica;
per la giustizia economica e sociale”.
Le mobilitazioni in Italia dovrebbero
chiedere al governo di firmare e ratificare il Trattato di
Proibizione delle Armi Nucleari approvato dall’Onu il 7 luglio del
2017.