Presentazione di Enzo Ferrara
“Senza un linguaggio comune a tutti,
medici, malati, sani, uomini, donne; senza un modello comune di
costruzione della salute, di difesa della capacità e della
possibilità di vivere; e senza un modello comune di malattia,
l’assistenza sanitaria diventerà una torre di Babele, una
costruzione sempre più costosa, è sempre più inefficiente”. Con
queste parole, nel suo libro Medicina preventiva e partecipazione
(Editrice Sindacale Italiana, Roma 1975) Ivar Oddone – medico del
lavoro e presidente della Commissione medica della Camera del lavoro
di Torino negli anni ’60 e ’70 del ‘900 – descriveva la sua
aspettativa di un sistema di tutela della salute. Come ha fatto
notare Eleonora Artesio, Assessore alla Sanità in Piemonte dal 2007
al 2010, Oddone pronunciava quasi una profezia
(https://sindacalmente.org/content/medicina-e-partecipazione-e-artesio-galassia-sanita0/).
Chi si occupa di salute e sanità con prospettiva davvero collettiva
e quindi pubblica, sa che in questo fondamentale e delicatissimo
settore delle imprese sociali le politiche durature si strutturano se
e quando prevedono e domandano la responsabilità delle persone
coinvolte e che non è possibile nessuna valutazione attendibile
sulla loro convenienza sociale ed economica senza spazi di
partecipazione e di giudizio offerti ai professionisti così come ai
titolari e destinatari dei servizi e delle prestazioni.
La riforma sfociata nelle legge
883/1978 costitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – come
ricorda sempre Eleonora Artesio – “nacque ad opera del movimento
operaio toccato e interessato dai rischi professionali, ma
illuministicamente proiettato sulle tutele della salute per tutti,
sostenibili attraverso la fiscalità generale. Il governo partecipato
fu praticato attraverso la democrazia rappresentativa dei comitati di
gestione delle unità sociosanitarie locali, ma fu – come dice il
proverbio inglese su bambini e acqua sporca – buttato insieme agli
episodi di corruzione; approdando così [con il D.lgs. 30 dicembre
1992 n. 502] alla direzione apparentemente sterilizzata delle aziende
sanitarie, antenate del governo tecnocratico”.
Fondamentalmente, il dibattito ancora
ruota su questi stessi temi, salvo che la regionalizzazione della
sanità definita dalla riforma del Titolo V della Costituzione (Legge
costituzionale n. 3 del 2001) ha aggiunto complessità per gli
inevitabili conflitti inter-istituzionali tra Stato e Regioni e la
costante tensione sulla presunta insostenibilità economica del SSN.
La devastante ma non imprevedibile
vicenda del Covid-19 (a fine luglio 2020 stiamo andando verso il
milione di morti accertati sull’intero pianeta) ha dimostrato che
le controversie della medicina trattano argomenti che meritano di
essere discussi pubblicamente, anche se per la loro tecnicità
sembrano rivolti più a una platea di specialisti. Siamo rimasti
“sorpresi” dalla pandemia anche perché negli ultimi decenni le
“nuove” politiche sanitarie industriali e occidentali non si sono
occupate di salute nel senso tradizionale – abbassando per esempio
la soglia del diritto ai livelli essenziali di assistenza, fino a
rendere inesigibile l’accesso anche ai più bisognosi senza mai
dichiararlo – ma ne hanno incoraggiato una ridefinizione a partire
dagli stili di comportamento delle persone (singoli),
sistematicamente sottovalutando gli aspetti di prevenzione
(collettivi) anche in campo educativo. Abbiamo assistito anche alla
celebrazione di espedienti, sempre indirizzati al consumo dei
singoli, spacciati per cure, per i quali sia i malati sia la pubblica
opinione pretendevano il riconoscimento a carico del servizio
sanitario. Una Babele, appunto, “come nella profezia del prof.
Oddone”. Succede – spiega ancora Eleonora Artesio – anche
perché “la partecipazione (che non c’è o volutamente è stata
estromessa) non è più capace di definire priorità socialmente
condivise sulla base di una diffusa conoscenza dei bisogni di salute
di un territorio e di una comunità” in modo da garantire
“l’appropriatezza” dei servizi e delle prestazioni.
In questo contributo – che integra
interventi
già apparsi sulle riviste “Gli Asini” e “Medicina
Democratica” – Maria Elisa Sartor docente a contratto di
Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie
alla Statale di Milano e collaboratrice di
‘saluteinternazionale.info’, riflette sulle profonde incongruenze
del Sistema sanitario privato, affermatosi trionfalmente negli ultimi
decenni in Lombardia e indicato da molti come modello per sostituire
il SSN, ma dimostratosi invece inadeguato per la difesa della salute
collettiva, come nel caso dell’emergenza da coronavirus. Nella
prima parte, l’autrice si sofferma sulla logiche di fondo del
Sistema sanitario lombardo, che rimandano a una visione della salute
in chiave essenzialmente utilitarista, mentre i box inseriti nel
testo offrono aggiornamenti cronologici sugli sviluppi della
situazione nella regione italiana più pesantemente colpita dal
Covid-19.
È comunque più semplice denunciare
gli errori, le dimenticanze e le controproduttività dei modelli
esistenti, pubblici e privati; ben più complesso è comprendere le
cause profonde della loro inefficacia per riproporre 42 anni dopo la
stessa visione unitaria della salute come “fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività” che univa in una
sola prospettiva gli ambienti di vita e di lavoro, richiamati dalla
legge 833/1978. Per questo, la seconda parte di questo contributo
sulla riforma del Sistema Sanitario Lombardo prova a ribadire i
principi di “coerenza unitaria” dei modelli sanitari
universalistici mettendo in guardia da semplificazioni che,
proponendo scorciatoie per affrontare separatamente i problemi della
salute, rischiano – proprio come sta accadendo – di indebolire
l’intera struttura sanitaria e sociale, che deve operare,
certamente nell’interesse primario dell’individuo bisognoso di
cure, ma con ancor più determinazione nell’interesse generale
della società di cui l’individuo fa parte.
È anche grazie al contributo di
politici, ricercatrici e ricercatori, giornaliste/i e attiviste/i
come quelli qui citati, che da anni studiano e denunciano le storture
del modello sanitario privatistico non solo in Lombardia se nel
nostro Paese si moltiplicano gli appelli per una revisione dei
sistemi sanitari nazionale (SSN) e regionali (SSR), per esempio di
Medicina Democratica (La salute non è una merce, la sanità non
è un’azienda), ATTAC (Agire locale e pensare globale per
una sanità pubblica fuori dal mercato) e Sbilanciamoci (In
salute, giusta, sostenibile: l’Italia che vogliamo). Le istanze
che accompagnano la medicina dovrebbero essere fra le più meritevoli
di attenzione da parte delle agenzie politiche nazionali e
internazionali. I temi del disagio e della malattia appaiono fra
quelli meglio capaci di plasmare assieme, in modo univoco, le società
nel mondo globale. I contorni storico-sociali delle condizioni di
salute o di malattia su scala mondiale hanno già forgiato le prime
due decadi del terzo millennio e – come sta drammaticamente
dimostrando la pandemia – ne influenzeranno la storia molto oltre.
Niente è in grado di
sostituire la sanità pubblica, nemmeno in Lombardia
Noi che abitiamo la Lombardia e che
siamo i diretti utenti della sua organizzazione sociosanitaria
avremmo un compito da svolgere, quasi un dovere verso noi stessi e i
cittadini-utenti degli altri SSR del paese. Quello di tentare di
conoscere meglio che si può e di far conoscere, senza giri di parole
e paludamenti e in estrema sintesi come il Servizio Sociosanitario
lombardo sia stato radicalmente trasformato negli ultimi decenni. Per
allontanarci poi dal modo di comunicare tipico di questi tempi,
dovremmo essere guidati da un ferreo orientamento di fondo: basarci
solo su dati di fatto e non utilizzare/ripetere racconti non
verificati, a priori elogiativi.
Questo contributo cade in un momento in
cui tutte le strutture sanitarie pubbliche e private della Regione
Lombardia sono ancora chiamate al massimo impegno per cooperare
nell’individuare e nel curare le persone colpite dal coronavirus. È
nel quadro di questa collaborazione che dovranno essere individuate
anche tutte le nuove risorse da mettere in campo, a breve e in
futuro. Tuttavia non possiamo non evidenziare fin d’ora una serie
di fatti e di problemi che riguardano il “Sistema sociosanitario di
Regione Lombardia” e che devono essere oggetto di valutazione nelle
sedi e nei tempi opportuni.
Innanzitutto cominciamo col dire che al
29 febbraio 2020, a otto giorni da quando sono emersi i primi
ricoveri per coronavirus in Lombardia, le strutture di ricovero e
cura in prima linea nell’emergenza coronavirus erano tutte
pubbliche: Ospedale di Codogno (LO), Ospedale di Casalpusterlengo
(LO), Ospedale di Lodi (LO), Ospedale di Crema (CR), Ospedale di
Cremona (CR), Ospedale Sacco (MI), Ospedale Niguarda (MI), Ospedale
San Paolo (MI), IRCCS Policlinico Ca’ Granda (MI), IRCCS San Matteo
(PV), Ospedale San Gerardo di Monza (MB), Spedali civili (BS),
Ospedale S. Anna (CO), Ospedale Papa Giovanni XXIII (BG), Ospedale
Carlo Poma (MN). Gli ospedali appena citati sono i presidi
ospedalieri o gli ospedali delle ASST Aziende socio sanitarie
territoriali – una sorta di organizzazione più ospedaliera che
territoriale che ridefinisce e aggrega in genere ex aziende
ospedaliere, e che svolge alcune funzioni di servizio che in
precedenza erano delle ex ASL lombarde. Le ASST sono articolate in
POT (Presidi ospedalieri territoriali) e in PRESST (Presidi
sociosanitari territoriali), le unità organizzative territoriali
anche a partecipazione privata previste dalla legge regionale. In
teoria le ASST dovrebbero coordinare, ma sarebbe più corretto
dire che tentano, non sempre con successo, di coordinarsi con i
servizi erogati dai privati del loro territorio, facenti parte di
quella che con una delibera del 2016 veniva denominata Rete integrata
di continuità clinico assistenziale (R.I.C.C.A.). Fra le strutture
di ricovero e cura pubbliche in prima linea nell’emergenza
coronavirus fino alla fine di febbraio 2020 si contavano 11 ASST
sulle 27 totali e 2 IRCCS pubblici (Istituti di ricovero e cura a
carattere scientifico, uno a Milano e uno a Pavia) sui 4 IRCCS
pubblici della regionei.
L’informazione circa la “natura
pubblica” delle strutture in prima linea nell’identificazione e
nella cura dei contagiati dal coronavirus è quindi la prima notizia
rilevante su cui soffermarsi. È stata ricavata dall’elaborazione
delle frammentarie informazioni circolanti, in quanto non è stata
esplicitamente fornita dai media, almeno fino alla fine del mese di
febbraio. La seconda notizia, dedotta specularmente dalla prima, è
l’assenza sostanziale nell’emergenza in Lombardia, e nel periodo
considerato, di un ruolo rilevante della sanità privata. Una vacanza
che si constata essersi prolungata fino ai primissimi giorni di
marzo.
Con l’inasprimento della crisi, il 14
marzo sono poi partiti i lavori per una nuova terapia intensiva da
campo dedicata all’emergenza Covid-19 all’Ospedale San Raffaele
di Milano, grazie una campagna fondi lanciata dagli influencer
Chiara Ferragni e Fedez. Il 16 marzo 2020 il governatore Attilio
Fontana ha avviato l’iter per la realizzazione di un grande
ospedale da campo in Fiera Milano, dedicato interamente all’emergenza
Covid-19 chiamando come consulente l’ex responsabile della
Protezione civile Guido Bertolaso.
Solo dopo l’istituzione della zona Rossa per l’intera Lombardia
una delibera regionale, approvata il 4 marzo, ha stabilito l’impiego
straordinario del personale sanitario e degli ospedali privati
accreditati, individuati dalla direzione generale Welfare lombarda
““per il periodo strettamente necessario a fronteggiare
l’emergenza Covid-19 e comunque non oltre 60 giorni dalla
sottoscrizione del protocollo d’intesa, rinnovabili in caso di
ulteriore necessità”. Gli uffici della Regione non hanno ancora
fornito un elenco completo delle strutture private coinvolte nella
situazione di emergenza coronavirus. Secondo l’Associazione
italiana degli ospedali privati (Aiop) nelle loro strutture dislocate
in Lombardia, dove sono a disposizione 2.621 posti letto per la
degenza e 270 posti in terapia intensiva, Il 13 marzo, risultavano
ricoverati più di 700 pazienti affetti da Civid-19 dei quali quasi
100 in terapia intensiva N.d.R.
Queste sono notizie di particolare
importanza perché ci troviamo nella regione che ha fatto della
cosiddetta “partecipazione paritaria della sanità privata al
servizio sanitario della Lombardia (SSL)” il punto di forza e
l’elemento distintivo del suo modello.
Qualcuno non si sarà sorpreso nel
constatare questi fatti incontrovertibili, forse perché aveva già
da tempo presupposto che le affermazioni di principio dei governi
della Lombardia sul ruolo paritario del privato rispetto al ruolo del
pubblico non potessero corrispondere alla realtà. Ma altri, che vi
hanno da sempre creduto, si sarebbero dovuti per la prima volta –
proprio in questi giorni – legittimamente porre la seguente
domanda: che ne è del ruolo “paritario” delle strutture private
accreditate della sanità nell’emergenza del coronavirus in
Lombardia?
Richiamiamo a questo punto
sinteticamente il percorso delle riforme sanitarie nazionali e
lombarde perché pensiamo possa aiutare a spiegare con compiutezza i
fatti di oggi.
Prima della riforma sanitaria di
Formigoni del 1997, il Servizio sanitario di questa regione, come
tutti gli altri in Italia, si articolava in strutture locali
organizzate in distretti (in USSL, inizialmente su base comunale,
poi, ridimensionate nel numero e divenute, nei primi anni ‘90,
ASL). Strutture che svolgevano direttamente al proprio interno,
attraverso le proprie unità organizzative (uffici amministrativi,
unità di prevenzione, presidi ospedalieri, ambulatori, consultori,
ecc.) le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione diretta
dei servizi e di controllo delle attività svolte. Si trattava di un
governo diretto della sanità in tutti i suoi aspetti (che in
Lombardia si estendeva anche al socio-assistenziale), con un sistema
organizzativo regionale che presentava una struttura di tipo modulare
(che si ripeteva cioè secondo lo stesso modulo nelle diverse aree),
una gestione strategica regionale unitaria, riconducibile a una linea
di comando definita, che rispondeva, per lo più con efficacia, alle
esigenze immediate e di medio-lungo periodo dei territori, attraverso
l’integrazione delle funzioni di prevenzione, programmazione,
erogazione e controllo su una base locale.
La prima svolta nella configurazione
del SSN, che ha prodotto un significativo cambiamento, si è avuta in
ambito nazionale nei primi anni ‘90, con la cosiddetta
controriforma sanitaria. Quelle che poi saranno identificate come le
principali precondizioni della privatizzazione del SSN in generale e
dei SSR sono state introdotte già da allora: 1) aziendalizzazione:
metodi e strumenti manageriali tipici delle aziende profit venivano
applicati alle strutture pubbliche; 2) regionalizzazione: misure che
consentivano libertà di definizione delle politiche sanitarie a
livello regionale e facilitavano quindi il differenziarsi delle
finalità e delle politiche nelle diverse parti del paese (quindi il
frazionamento del SSN e il decentramento legislativo, non solo
amministrativo, avrebbero di fatto offerto la possibilità anche di
eventuali sperimentazioni creative riferite ai processi di
privatizzazione); 3) a metà degli anni Novanta, introduzione di un
nuovo sistema di pagamento dei servizi sanitari attraverso la
definizione a livello regionale di tariffe per le singole prestazioni
sanitarie (sistema di retribuzione che offriva ai nuovi potenziali
entranti privati nel SSR – per riferirsi alla sola componente
privata del Servizio sanitario regionale – la possibilità di
commisurare l’entità potenziale del business, consentendo loro
anche di stimare i compensi futuri).
Su questa base normativa nazionale, nel
1997, la Lombardia dà una sterzata decisa verso un modello pensato
per facilitare il più possibile l’entrata dei privati nel SSR. Il
modello da cui il governo della Lombardia trae ispirazione è la
riforma britannica di qualche anno prima, che introduceva i
quasi-mercati nella sanità di quel paese, cambiando consistentemente
il modello Beveridge originario (1948). Il governo di Formigoni, al
pari dei governi conservatori oltremanica, sceglie anche in Lombardia
di separare le funzioni che prima erano integrate, in modo che la
funzione di erogazione potesse essere contesa dal privato e affidata
sempre più ad esso. La Regione, a partire da quel momento,
programma – ma lo fa sempre meno nelle modalità della
pianificazione, storicamente intese – e soprattutto fa da
committente e quindi compra servizi dai soggetti erogatori, sia dalle
strutture pubbliche del SSR (che diventano nella pratica “aziende”
gestite via via in modo sempre più manageriale, e impropriamente, in
modo contraddittorio, definite “autonome” dalla normativa) sia
dai soggetti privati, che entrano nel quasi-mercato della sanità con
orientamenti profit e una certa vis concorrenziale. In un
primo momento, fra il 1997 e i primi anni del 2000, la Regione
tralascia di accreditare i suoi fornitori in ambito sanitario,
estendendo le convenzioni preesistenti e consentendo la fornitura dei
servizi del SSR a strutture private che si auto-valutavano come
idonee e che, per un certo lasso di tempo, di fatto non verranno
controllate.
Ma non basta. Per far sì che questa
riforma radicale in senso privatistico del modello organizzativo
sanitario lombardo venisse accolta e approvata con il massimo del
consenso della opinione pubblica, si è fatto ricorso a
concettualizzazioni teoriche che legittimassero questa scelta,
supportati da un’elaborazione accademica di pari orientamento
ideologico. Le parole chiave maggiormente utilizzate nel corso dei
decenni dal governo di centro destra per consentire al processo di
privatizzazione di svilupparsi sono state: “sussidiarietà”
(nella versione orizzontale), e – venendo al punto che più ci
interessa qui, con riferimento alle strutture di erogazione sia
pubbliche sia private – “pariteticità” di partecipazione al
SSR e “parità” delle condizioni nella fornitura dei servizi
sanitari.
La condizione di sostanziale parità
degli erogatori pubblici e privati di servizi sanitari, accreditati e
a contratto, secondo la Regione, andava considerata sotto diversi
profili:
1) parità di diritti: l’autonomia
organizzativa, gestionale, amministrativa, tecnica delle strutture
pubbliche, affermata dalla normativa, voleva corrispondere
all’autonomia dal soggetto pubblico, naturalmente esistente per le
strutture di natura privata. Ma se questa caratteristica risulta
presente ed evidente per quanto riguarda il privato, nel caso del
pubblico, l’autonomia – pur supposta e richiamata dalle delibere
– è sempre stata solo apparente, e non poteva che essere così in
un SSN dai caratteri pubblicistici, in particolare se la nomina dei
direttori generali delle aziende pubbliche derivava da scelte
politiche dell’Ente Regione. Anche da parte dei rapporti OASI della
Bocconi in Lombardia si è constatata l’esistenza di una sorta di
neocentralismo su base regionale, che non poteva lasciare molta
autonomia alle strutture pubbliche facenti parte del sistema. Ossia,
in Lombardia, mentre si combatteva il centralismo statalista, si
realizzava un centralismo regionalista.
2) parità di doveri delle strutture.
Anche questo profilo di parità non può essere confermato: la
committenza pubblica dei servizi vale sì sia per l’erogatore
pubblico che per il privato, ma è più cogente per il soggetto
pubblico, che deve garantire una gamma di funzioni e di servizi molto
più estesa, anche se questo volume di attività corrisponde a volumi
di ricompense per prestazioni mediamente unitariamente meno cospicui,
perché il privato sceglie quali servizi intende offrire, e
normalmente sono quelli che costano unitariamente di più al SSR; le
strutture pubbliche poi devono sottoporre all’approvazione della
Regione le loro decisioni strategiche, organizzative e di bilancio,
che non sempre vengono approvate. Il che dimostra anche la non pari
autonomia di gestione rispetto alle strutture della sanità private.
Per la gestione delle strutture serve disporre dei fattori produttivi
(risorse finanziare, risorse di personale, risorse tecnologiche, che
non sempre sono a disposizione delle strutture pubbliche, in quanto
il loro livello dipende dalle scelte delle istituzioni regionali e
nazionali.
3) parità di trattamento da parte della
Regione: modalità di pagamento, interazioni, formalizzazione del
rapporto tramite la negoziazione e il contratto fra committente
pubblico ed erogatori privati e pubblici non sono gli stessi (schemi
contrattuali uguali non comportano un pari trattamento contrattuale).
Si riscontrano notevoli differenze nella realtà fra i trattamenti
rivolti al settore pubblico rispetto al settore privato, a detta
degli operatori. Un’area di differenziazione del trattamento
riguarda le pratiche di accreditamento e di controllo.
4) pari orientamento valoriale. La meno
dimostrabile di tutte, e forse la più evocata, è la supposta
sostanziale parità di orientamento valoriale o della finalità
ultima fra i due soggetti pubblico e privato: l’utilità pubblica,
affermazione che nega la fondamentale rilevanza del profitto per la
sanità privata, anche nelle vesti di fornitore del SSL.
5) pari dignità dei soggetti pubblici e
privati, un modo per dire che al soggetto pubblico non dovrebbe mai essere
assegnato – in automatico – un ruolo sovraordinato nei confronti
del privato, senza verificare cosa è in grado di fare il soggetto
privato.
Le
teorie della parità pubblico e privato, che fanno ritenere
coincidenti di fatto i due tipi di soggetti, perché quindi non
dovrebbero farci naturalmente presupporre anche una pari
disponibilità dei due soggetti a farsi carico delle emergenze
sanitarie?
Ma questo SSR della Lombardia è
davvero paritario? Da quanto detto in precedenza, pare proprio di no.
Alla prova della prima emergenza, dovuta ad una minaccia epidemica,
la realtà sembra smascherare del tutto l’ideologia. Soprattutto
oggi le teorie appena richiamate risultano prive di ogni fondamento.
E quindi lo sono anche le domande che ne vengono stimolate. Ma dove
stanno i soggetti erogatori privati? Gli innumerevoli IRCCS
privati e le strutture di ricovero di eccellenza private? In quale
modo gli erogatori privati hanno contribuito fino ad oggi alla
soluzione dell’emergenza coronavirus?
Ma ci sono altre importanti
considerazioni da fare. Qui vengono in evidenza le contraddizioni di
un modello di servizio sanitario regionale misto pubblico-privato,
affiancato da un mercato diretto solo privato, retti sia quello
interno al SSL sia quello diretto, dagli stessi operatori privati,
che sono i fornitori del Servizio sanitario regionale e del libero
mercato.
Uno dei due soggetti non risponde
subito. Il che corrisponde a dire che la sua disponibilità è
incerta ed è quindi da richiedere. La presenza di una disponibilità
è sempre quindi da verificare. E il SSR deve sottostare – di
conseguenza – alla volontà dei soggetti privati. La disponibilità
poi ad offrire servizi extra-contratto costa ancora di più al SSR;
si hanno quindi costi elevati di transazione: risorse di tempo spese
nella negoziazione e risorse finanziarie aggiuntive per il carico
straordinario del servizio richiesto.
Insomma il modello del “Sistema
sanitario di Regione Lombardia”, come viene denominato nella
normativa regionale per sottolineare la sua diversità rispetto a
qualsivoglia altro Servizio Sanitario regionale del nostro SSN,
mostra una certa rigidità, lentezza di risposta, ed è più costoso.
Proviamo ora a considerare il probabile
punto di vista dell’erogatore privato, il grande gruppo della
sanità privata. Innanzitutto ricordiamo che non si è reso
disponibile fin da subito, dall’inizio della crisi. Come si spiega
questo fatto? Primo, ciò che fa la sanità privata per il SSL è
formalizzato in un contratto e in un budget di fornitura. E questo di
per sé significa dover riconsiderare da parte dei due contraenti
Regione e strutture della sanità privata, gruppo per gruppo,
struttura per struttura, gli accordi già stabiliti. La sanità
privata è un interlocutore che non si mette al servizio
spontaneamente, ma contratta sempre le condizioni del suo servizio,
naturalmente quanto più possibile a suo favore.
Ma un altro aspetto è che la sanità
privata si sta trovando di fronte al fatto che la partecipazione
all’emergenza sanitaria finisce per generare ed enfatizzare una
delle più grandi contraddizioni del modello appena descritto.
Contrappone tipi diversi di beneficiari. Il cittadino/paziente
colpito dal coronavirus vs il cliente pagante. I due beneficiari del
servizio sono su fronti opposti. L’ospedale privato, fornitore del
SSR e player sul mercato libero, perché autorizzato a esserlo dalla
istituzione pubblica (Direzione generale del welfare della Regione
Lombardia e sue articolazioni organizzative), quale fra i due
beneficiari citati dovrebbe principalmente servire? il cittadino
paziente del SSR contagiato o i propri clienti paganti, che proprio
perché pagano di tasca loro, o attraverso i loro intermediari
(assicurazioni, mutue, ecc.), non intendono correre rischi ulteriori?
con ogni probabilità non può fare congiuntamente l’uno e l’altro
senza pregiudicarsi una quota del suo mercato, principalmente quello
diretto (quello al di fuori dal SSN). In altre parole, se
partecipasse all’emergenza correrebbe il rischio di perdere la sua
clientela privata. È per questo, e non solo quindi per motivi
strettamente medico-clinici, che la collaborazione che si prospetterà
per risolvere l’emergenza del coronavirus avverrà probabilmente in
modalità tali da non mescolare i due ambiti del servizio nei
confronti delle due diverse classi di pazienti.
Ecco un’altra evidente
differenziazione fra pubblico e privato che è esplicativa di un
impedimento di fondo dato dal modello.
Il modello della separazione delle
funzioni alla base della privatizzazione spinta del SSR, con il suo
corollario della supposta – ma non dimostrata – parità fra
erogatore pubblico e privato, mette la Lombardia nelle condizioni di
operare pienamente utilizzando ogni sua componente, pubblica o
privata che sia? No.
In situazione analoga il 16 marzo il governo spagnolo ha messo
l’intera sanità privata al servizio del Sistema Nacional de
Salud, il sistema sanitario nazionale. Le aziende con materiale
sanitario avranno 48 ore di tempo per informare l’esecutivo su cosa
hanno a disposizione e le comunità autonome spagnole, corrispondenti
alle nostre regioni, potranno disporre di “tutti i mezzi”
necessari del sistema privato per far fronte all’epidemia comprese
apparecchiature mediche come maschere chirurgiche, guanti e occhiali
protettivi tenuti in stock da aziende o individui. Mentre anche per
la già citata messa a disposizione dei posti letto della sanità
privata si tratta di una disponibilità tardiva (un certo lasso di
tempo dopo l’avvio della emergenza da coronavirus), obbligata di
fronte all’opinione pubblica con la situazione fuori controllo e
probabilmente, anche ben compensata visti gli ingenti stanziamenti
promessi dal governo N.d.R.
Le ricadute in termini di gestione del
SSL sembrano essere quelle di un non funzionamento pieno del modello,
in certi casi. Soprattutto nelle emergenze di salute pubblica, ovvero
durante eventi straordinari che riguardano tutti noi cittadini. E
questo, nonostante le aspettative della opinione pubblica. Il
cittadino lombardo “vede” infatti il privato (accreditato e a
contratto) come fosse davvero “pari” al pubblico – e quindi
parimenti coinvolto per principio e nella realtà nella sanità
istituzionale regionale – anche perché è così che le istituzioni
lo descrivono sui media. È emblematica la dichiarazione, all’interno
di un programma televisivo di informazione del 1 marzo sulla Rete 4,
pronunciata da un viceministro che lavora per il principale gruppo
economico italiano della sanità privata: “La sanità privata
(intendeva quella accreditata e a contratto, ndr) è il SSN.” Ma è
proprio così? Se fosse davvero così, bisognerebbe chiedersi perché
il governatore della regione Lombardia (lo stesso 1 marzo) ringrazia
la sanità privata e le sue strutture per essere “entrate” con la
loro disponibilità nel “nostro” sistema, nel momento in cui 14
medici danno la propria disponibilità a “collaborare” (Dire,
Roma, 18:15 01 03 20).
D’altra parte, la “sanità privata”
si autocelebra in tutti i modi invece come “settore privato”, in
quanto è proprio quella in realtà la sua natura, ed è quella anche
la sua prospettiva di espansione per quanto riguarda il business.
Tanto è vero che anche in piena emergenza si occupa molto e bene del
suo marketing strategico.
L’emergenza del coronavirus è una
cartina di tornasole. Ma, se si va un po’ oltre potremmo anche
ammettere che ci sono altre considerazioni che ci fanno esprimere
preoccupazione dal punto di vista del paziente cittadino. Quanto ci
rassicura la consistente presenza della sanità privata di fronte ad
iniziative che per la loro criticità e gravità devono essere
imposte da una istituzione pubblica agli erogatori e che richiedono,
da parte del management e del personale sanitario, una abnegazione e
una forte motivazione deontologica più che un orientamento al
profitto o, per quanto riguarda il personale, una motivazione
circoscritta ad interessi personali, economici o di altro tipo?
La garanzia della salute pubblica
sembra venire da una sanità pubblica finanziata, integrata, ben
organizzata e controllata, insomma ben governata. Esattamente la
politica sanitaria opposta a quella realizzata nel corso degli ultimi
decenni, basata sulla “governance”, cioè su un governo e un
controllo laschi sugli aspetti maggiormente critici del sistema.
Serve allora un altro modello organizzativo: molto integrato. Va
decisamente invertita la rotta del SSR della Lombardia.
Riforma della sanità
lombarda? D’ora in poi solo a carte del tutto scoperte
SSN
e SSR: improvvisamente se ne discute
La pandemia Covid-19, dunque è stata
anche un test di tenuta del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel
suo insieme e nelle sue articolazioni regionali (SSR). Alla prova del
virus, le persone hanno visto il Servizio Sanitario della propria
regione reggere bene o soccombere, in parte o del tutto. Per la prima
volta, anche chi non se ne era mai interessato, si è forse domandato
se impianto e funzionamento del proprio SSR fossero adeguati.
La risposta è stata negativa per qualcuno. Non erano adeguati. Ma
non è stato così per tutti i SSR, alcuni sono stati del tutto
all’altezza della sfida, almeno per ora.
Un po’ alla volta è stato possibile
intendere che esistevano delle differenze, a parità o quasi di
diffusione del virus. Si è capito che una configurazione di SSR era
meglio di un’altra perché facilitava comportamenti di contrasto
della pandemia opportuni ed efficaci e aveva risvolti positivi sulla
velocità di intervento. Nei casi di una risposta apparsa appropriata
a posteriori, giustamente non si è pensato che questi buoni
risultati potessero essere dovuti ad una combinazione casuale di
fattori positivi. Anche se, in un caso almeno, il fortunato ritorno
in Italia e il contemporaneo incarico all’Università di Padova di
un medico romano di fama internazionale, esperto nello studio e
controllo delle epidemie, e disponibile a offrirsi come consulente
del SSR, può essere stato un fattore decisivo, che si è aggiunto ad
altri più strutturali, per il riconosciuto successo di una delle
regioni del Nord fra le più colpite: il Veneto.
SSR
Lombardia: cambiano le ragioni del suo stare alla ribalta
La Lombardia è stata forse la regione
che ha stimolato il maggior numero di domande sull’efficacia del
suo Servizio Sanitario sia presso i propri cittadini sia nel Paese.
Come si potevano spiegare esiti così catastrofici al passaggio della
pandemia in una Regione supposta eccellente nel settore della sanità?
16000 morti circa dall’inizio della pandemia ai primi giorni di
giugno 2020. Dagli altari alla polvere, perché? Data per scontata
l’impreparazione dovuta alla non disponibilità dei vaccini e di
cure farmacologiche adeguate, comunque trasversale a tutte le
regioni, per quanto riguarda altri tipi di impreparazione o di
inadeguatezza, da identificare, si trattava di carenze gestionali o
di carenze dovute ad aspetti più di fondo? Per esempio,
l’insufficienza strutturale del modello.
Si è passati dal considerare –
innanzitutto e prevalentemente – le caratteristiche del virus, e
con esse la sua difficile identificazione, conoscenza, la possibile
diffusione e le modalità opportune del contrasto, al considerare gli
errori procedurali della Regione e, per finire, si è arrivati a
porsi il problema di quanto avesse contato nel disastro la
configurazione del modello misto pubblico-privato in una specifica
versione. E poi, dallo spostamento di focus su aspetti diversi del
problema si è passati alla considerazione delle evidenti connessioni
fra tutti gli aspetti che erano stati considerati.
Si è compreso un po’ alla volta che
gli errori procedurali (ormai accertati dalla ricostruzione
giornalistica), l’insufficiente possibilità di intervento
extra-ospedaliero (anche questa accertata nelle situazioni più
drammatiche), il ritardato e limitato intervento della componente
privata del sistema, e il mancato o insufficiente esercizio delle
responsabilità da parte del governo regionale della sanità, non
erano disgiunti da come era stato concepito e realizzato il
modello di SSR.
Da qui, ha avuto origine una sacrosanta
richiesta di informazione e di trasparenza (ancora purtroppo in certi
casi disattesa) e si è imposto da più parti il tema di una
riconsiderazione della macro-organizzazione dei SSR meno efficaci.
In particolare in Lombardia si sta
sempre più affermando – sottotraccia, ma talvolta emerge in
superficie – l’intenzione di una riforma del modello,
anche da parte della maggioranza al governo della Regione. Questa
svolta sarebbe stata del tutto impensabile fino a qualche settimana
fa. Ma, se sta accadendo tutto questo, è anche per un incredibile
combinarsi di eventi. Una fortuita opportunità di modifica del SSR
della Lombardia sta fornendo da subito l’occasione di proporre una
sua revisione durante la fase 3 della pandemia, e sta costringendo
gli attori in gioco ad una accelerazione di tale processo, in quanto
esiste un vincolo temporale stringente. La causa della
considerazione di una possibile revisione della riforma del SSR è
una disposizione di legge del dicembre 2015 (LR 41/2015). Essa
prevede che entro l’11 agosto del 2020 si svolga la verifica
della macro configurazione organizzativa del SSR derivante dalla
legge regionale di riforma di Maroni (LR 23/2015), che
include la verifica delle Agenzie di Tutela della Salute (ATS) e
delle Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST). Quella
disposizione – che al governo della Regione Lombardia fino al 2019
era sembrata una iattura da evitare, tanto da indurre il Presidente
della regione Maroni a sottoscrivere nel 2016 un protocollo con il
Ministro della Salute Lorenzin, con cui si tentava di aggirare
l’applicazione della disposizione stessa –, appare in questi
giorni come un’opportunità per il governo Fontana, in quanto
consente di riconfigurare in parte un modello risultato inviso ai
cittadini lombardi. Si tratterà quindi di formulare una
valutazione sulla riforma del 2015 entro la scadenza estiva, cui
seguirà con ogni probabilità una proposta di riforma.
È al tempo stesso interessante e
preoccupante notare che, per fornire idee di riforma, si stiano
facendo avanti coloro che dal 1995 fino al 2013 (sono gli anni dei
governi Formigoni) hanno ideato paradigmi, imposto principi
costitutivi e costituito i presupposti strutturali del SSR di oggi.
Non a caso la riforma Maroni si è auto-qualificata come “evoluzione”
della Riforma Formigoni.
Riforma
necessaria … ma serve anche un metodo di verifica delle proposte in
campo
Facciamo un passo indietro. Il SSN
nelle regioni e nelle province autonome ha assunto forme diverse, e
non persegue, in ogni sua realizzazione regionale, nello stesso modo,
il dettato della Costituzione italiana. È il risultato di
orientamenti politici dissimili e presenta gradi di privatizzazione
diversi.
Se si tratta di proporre una
modificazione del modello in Lombardia, non ci si può aspettare, qui
come forse altrove, una ricomposizione miracolosa dei punti di vista
e degli interessi in campo a livello regionale, tale da far nascere
una sola proposta di riaggiustamento del modello di sanità che metta
tutti d’accordo.
Molti sono i soggetti e le forze che si
stanno predisponendo a proporre soluzioni ai gravi problemi di
mancata tutela del cittadino evidenziati dal SSR della Lombardia,
cercando di non perdere il terreno conquistato in termini di
posizionamenti strategici nel quasi-mercato della sanità della
regione o il consenso verso i propri elettori. E poi, non si tratta
certo solo di qualche criticità cui contrapporre un rimedio, un
correttivo parziale (per esempio, non sarebbe opportuno affermare
“teniamo il modello misto pubblico privato così come è ora e
aggiungiamo ciò che manca nella medicina di territorio…”).
Di chiunque sia l’iniziativa, la proposta di riforma del SSR
lombardo richiede prima di tutto la conoscenza dello stato di fatto
e, in ogni caso, che venga formulato un vero progetto (di massima
e dettagliato), come si trattasse di dover costruire un ponte. E
come nel caso del ponte, è sulla base di un buon progetto che può
essere costruito un efficace SSR e per effetto di una costante buona
manutenzione, poggiata su efficaci controlli del suo funzionamento,
che il SSR può continuare a svolgere al meglio le sue funzioni.
Il
progetto di riforma
Quali sono i presupposti di un buon
progetto? Il progetto deve essere qualcosa di unitario, coerente,
logico. Ben costruito in ogni sua parte. Di massima e di
dettaglio.
Nel caso del ponte, le funzioni sono
molto chiaramente identificabili: collegare due porzioni di
territorio consentendo e facilitando la mobilità (di persone e
merci) in sicurezza, in entrambe le direzioni. Molto più articolate
sono invece le funzioni da garantire nel caso del SSR, e meno
evidenti le sue caratteristiche, trattandosi di un artefatto molto
più complesso, che svolge le sue funzioni nel territorio regionale,
e le cui realizzazioni sono spesso intangibili e difficilmente e
compiutamente conoscibili negli esiti, nel loro complesso.
Soprattutto per i cittadini (anche se questi sperimentano in modo
diretto, e subito, ciò che non funziona). E, per finire, si
presuppone che il Servizio sanitario regionale debba essere in
armonia con altri SSR in ambito nazionale, essendo riconducibile al
Servizio Sanitario Nazionale.
La buona salute è l’esito atteso di
questo artefatto, il mantenimento in vita delle persone in buone
condizioni di salute. Nella fase più acuta della pandemia è proprio
quello che è mancato, e non solo perché il virus era sconosciuto e
senza una specifica cura. È mancata la capacità del Servizio
sanitario lombardo di prendersi cura adeguatamente (per quanto
possibile, data l’assenza di vaccini e di farmaci per la cura)
degli operatori sanitari e di coloro che avevano la necessità di
essere comunque assistiti. Sono stati abbandonati invece a loro
stessi e per questa ragione moltissime persone sono tragicamente
decedute.
Quando dico che serve un progetto vero
e proprio, intendo dire che la proposta di riforma che si racchiuderà
in un progetto, pur stimolata da una pluralità di idee, non potrà
essere una ricomposizione scomposta di una miscellanea di idee
diverse. Un pezzo della proposta A di una certa fonte che si combini
con una frazione della proposta B di un’altra fonte, giusto per
accontentare tutte le parti che vogliono dire la loro. Il progetto
non potrà essere costituito da frammenti così procurati. Se così
fosse, sarebbe come se al progetto di un ponte basato sulla logica
costruttiva della tensione (struttura a tensione) si
aggiungessero elementi costruttivi di un ponte ideato su altri
principi costruttivi (per esempio, quelli di una struttura ad
arco). Difficilmente il ponte potrebbe stare in piedi.
Se ci sarà più di una proposta da
discutere, che contiene un modello di SSR coerente al suo interno,
questa, dovrà essere considerata o scartata nel confronto con un
modello altrettanto coerente, di altro tipo, contenuto in un’altra
proposta, sua concorrente.
Vorrei soffermarmi ancora un po’ di
più sul progetto e su cosa renda diversa una proposta di riforma da
un’altra: il suo rispondere o meno pienamente al dettato
costituzionale; la sua efficacia nel garantire i diritti di salute;
la misura effettiva della centralità del paziente; l’intrinseca
capacità di realizzare sia le funzioni che servono a prevenire gli
stati di malattia o di infortunio sia le funzioni che consentono di
erogare le prestazioni rivolte al cittadino/paziente necessarie alla
sua salute; l’appropriatezza dei servizi offerti; in quale quota
mantiene in mano pubblica l’erogazione dei servizi; il grado di
controllo effettivo delle prestazioni degli erogatori, soprattutto
privati, nel caso di modello misto. Essendo i servizi pagati dal
contribuente, i due ultimi aspetti risultano fondamentali.
Spero che gli attori che si sentono
chiamati alla realizzazione di una proposta di riforma capiscano che
la fase che attraversiamo di pandemia - che ha prodotto un numero
impensabile di vittime in Lombardia, e anche per gli impatti che essa
avrà nel futuro di tutti noi - richiede loro, diversamente che per
il passato, un gioco a carte scoperte fra “giocatori” evoluti
e responsabili. Almeno, è augurabile, responsabili fino al punto di
dichiarare gli obiettivi che intendono perseguire.
I principi costruttivi del SSR
potrebbero essere quelli già usati per gli SSR “integrati” e
maggiormente pubblici (Servizi Sanitari Regionali che, alla prova del
virus, hanno dimostrato di funzionare meglio - e in questo caso non
occorrerebbe cercare molto altrove) o, teoricamente, se ne potrebbero
proporre anche di nuovi. Prima però di scegliere una proposta, tutti
i principi costruttivi alla base di tutti gli eventuali progetti
di riforma in campo (per il ponte: tecnica a tensione o ad arco? o
quale altra?) dovranno essere - e si dovrà pretendere che siano -
esaustivamente esplicitati. E questo per avere preventivamente
un’idea degli effetti che i principi, una volta implementati,
tenderanno a produrre.
Per capirci: affermare, come hanno
fatto gli ultimi due governi lombardi, che la politica della Presa in
Carico dei cronici e/o fragili dei governi Maroni e Fontana (nota
come la politica della PIC) è una mera innovazione di servizio
rivolta ai malati cronici basata su una delle due logiche di People
Health Management (PHM) di derivazione statunitense
utilizzate in Italia, non è esplicitare del tutto i criteri
costruttivi della proposta, mentre completare tali dichiarazioni
aggiungendo che la politica della PIC realizza molteplici
sottosistemi autonomi all’interno del SSR – integrati, in
prevalenza privati, indipendenti e non sottoposti a uno stretto
controllo pubblico –, lo è. Si potrebbero, per esempio, dimostrare
ampiamente i principi costruttivi di questa politica realizzando una
mappa che evidenzi le funzioni che vengono riaggregate e integrate in
capo ai gestori della PIC.
Nel caso della PIC, i criteri
costruttivi di tale politica, che modificano l’impianto complessivo
del SSR lombardo e non sono stati mai esplicitati da chi li ha
proposti, sono i seguenti: “integrare la quasi totalità delle
funzioni tipiche del SSR alla sua base, dentro organizzazioni
“gestori della PIC”, nuove o già entrate nel SSR, collocate al
livello della medicina di base, in una porzione del Servizio
Sanitario Regionale molto critica, quella che consente ai cittadini
l’accesso ai servizi”. Le funzioni/attività integrate dei
gestori della PIC sono: dimensionamento del volume dei servizi di
presa in carico erogabili; reclutamento dei cronici tramite i Medici
di medicina generale (MMG); stipula di un contratto privatistico con
il paziente: il “patto di cura”; pianificazione dell’assistenza
caso per caso; committenza ad altri erogatori e/o auto-committenza
dei servizi per i propri assistiti. In altre parole, i gestori
e le loro filiere diventano una molteplicità di piccoli o grandi
Servizi sanitari a sé stanti in un più esteso Servizio Sanitario
Regionale.
Se i criteri costruttivi del modello
non venissero esplicitati – come nell’esempio appena fornito –
coloro che li dovrebbero comprendere per discuterli nelle sedi
istituzionali (i politici e i loro staff tecnici) dovrebbero
esser chiamati a ricavarli per deduzione dalla proposta, e
dovrebbero fare il massimo per rendere note ai cittadini le
conseguenze delle loro applicazioni. I principi/criteri
costruttivi vanno esplicitati per quello che sono in realtà e, una
volta esplicitati, si devono poter discutere e, avendoli ben
compresi, il passo successivo sarà quello di misurarli e
verificarli, soprattutto osservandoli nelle realizzazioni già
disponibili in altri SSR. O, se nuovi, adoperarsi perché vengano
messi alla prova.
Se ritenuti validi e quindi approvati,
da questi principi si può consapevolmente dar forma ad un
progetto che li realizzi, che sia coerente al suo interno. Progetto
che non può essere ulteriormente trasformato nella fase di
implementazione, non rispettando i principi costruttivi stessi (anche
in questa fase, si rende indispensabile una sorveglianza).
La riforma, insomma, deve nascere da
una sorta di progetto architettonico. Deve far in modo che si
possano realizzare le funzioni che consentono di attuare i
principi costituzionali di tutela della salute. Non tutte le proposte
di riforma realizzano pienamente i principi costituzionali e non è
sempre facile comprendere quali siano le proposte che davvero li
realizzano. Ci sono modelli di SSR che facilitano la privatizzazione,
modelli che la contengono, modelli che tendono ad escluderla. Per
esempio, la privatizzazione del Servizio, con un ruolo istituzionale
del pubblico debole, realizza o contrasta i principi
costituzionali? Una volta inteso quali finalità e
quali principi cardine del modello si intendano sostenere,
si può procedere alla definizione di dettaglio del
progetto/proposta.
Nel
passato della Lombardia, quali riforme da Formigoni in poi e quali
ricadute per l’oggi
La sanità in Lombardia oggi soffre
soprattutto degli esiti di lungo periodo dell’impianto e degli
interventi realizzati dai governi Formigoni (4 mandati, uno
interrotto prima della scadenza naturale per motivi giudiziari).
Brevemente tento di riassumerli qui, rimandando gli approfondimenti
ad altri successivi contributi:
istituzione del quasi-mercato della
sanità.
A posteriori il quasi-mercato appare come una realizzazione costosa e
forzata che si basa sulla idea – sbagliata, in quanto nella
sostanza impraticabile – di una parità di diritti e doveri e di
trattamento da parte di un ente regolatore pubblico riferiti a
soggetti organizzati, pubblici e privati, che erogano servizi per il
SSR;
centralismo regionale che, ad una
analisi approfondita degli interventi realizzati nei 18 anni
ininterrotti di governo, si è scoperto che è servito a perseguire
al meglio il depotenziamento degli erogatori pubblici e il
potenziamento e la legittimazione degli erogatori privati;
un eccesso di logica economicistica
portata alle estreme conseguenze, avara con il pubblico e
sperperante con il privato;
un discutibile gioco “io vinco/tu
perdi” fra erogatori (win/lose) che ha fortemente ridimensionato
la necessaria attenzione all’epidemiologia e, con
essa, ha svuotato le funzioni di programmazione e di
prevenzione in senso lato, mantenendole solo in parte,
e consegnato interi ambiti della sanità ai soli privati
(insieme alla odontoiatria, tanti altri servizi sono stati del tutto
privatizzati in misura assolutamente non paragonabile a quella di
altri governi regionali della sanità);
la desertificazione della
infrastruttura pubblica territoriale;
il non ripristino della compagine dei
Medici di medicina generale - che, ai tempi, era già noto
si stesse via via impoverendo - e il connesso avvio del progetto
di aziendalizzazione e privatizzazione della medicina di base
tramite le sperimentazioni CReG (Chronic Related Group) riferite
ai pazienti cronici. Tali sperimentazioni sono state possibili
ricorrendo alla consolidata collaborazione con le cooperative dei
MMG, viste come sostitutive del singolo professionista della medicina
generale. Le cooperative di MMG nelle vesti di gestori della PIC, o
di gestori delle articolazioni territoriali delle ASST, sono cosa
diversa dalle strutture dell’associazionismo fra medici di base,
oggetto della normativa nazionale e la loro analisi richiederebbe uno
specifico approfondimento.
Non si può criticare la politica dei
governi di Formigoni per una incoerenza complessiva del suo progetto
di riforma, anche se alcuni aspetti del disegno non sono del tutto
congruenti. Pur trattandosi di un progetto, dal mio punto di vista,
non condivisibile nelle finalità, non posso non ammettere una
lucidità strategica ed operativa da parte di un gruppo di politici,
funzionari, accademici nel trasformare il Servizio Sanitario
Regionale. Ma, al di là degli slogan pronunciati dagli ideatori del
modello, e delle apparenze che potrebbero distoglierci da un’indagine
mirata su ciò che non veniva messo in evidenza nella comunicazione
ma era di maggior rilevanza (è questo che intendo quando dico che
serve esplicitare!), la domanda che ci si dovrebbe fare è la
seguente: quanto quei lunghi anni di governo ininterrotto hanno
spostato l’attenzione dell’Ente Regione (e non di un
singolo protagonista apicale) dall’utente del SSR (il
cittadino) a specifiche categorie di portatori di interesse: i
soggetti erogatori della sanità privata soprattutto profit e le
cooperative della medicina di base (privato non profit)?
Quel modello rispondeva a paradigmi
nuovi (sussidiarietà orizzontale), ad una strategia/finalità
ben delineata (di privatizzazione del servizio), a principi
costruttivi specifici che realizzavano quella finalità, quindi
coerenti con essa e di grande impatto nel modificare il modello
(separazione delle funzioni di erogazione dei servizi dalle altre
funzioni, per far entrare massicciamente nel settore gli erogatori
privati; svuotamento della territorialità e della funzione dei
distretti con il trasferimento presso gli ospedali di alcuni dei
servizi territoriali; innovazione dei servizi in modalità che
consentissero di classificare come territoriali servizi che venivano
comunque erogati negli ospedali; sviluppo di nuove aree di servizio
esclusivamente affidate ai privati).
Posto che la coerenza delle finalità
del progetto con i passaggi che lo realizzano passo dopo passo non è
sufficiente a fare di una riforma un buon modello di SSR, serve in
ogni caso ribadire l’importanza di tale coerenza per due ragioni
fra loro collegate.
In generale, perché la coerenza
serve a perseguire e a raggiungere gli obiettivi. Se non c’è
coerenza/congruenza, qualsiasi siano le finalità del modello,
difficilmente questo riuscirà a raggiungere gli obiettivi per cui è
stato realizzato. E quindi, ad una eventuale inaccettabilità dei
fini di uno specifico modello di sanità proposto, si aggiungerebbe
anche il caos derivante da comportamenti disfunzionali che
derivano dalla incoerenza del modello stesso. La seconda ragione
è che la mancata coerenza del modello – di cui sono
disponibili esempi al limite del paradosso - è dannosa di per sé,
in quanto non fa funzionare bene il modello, nemmeno in periodi di
ordinaria amministrazione. Le proposte di riforma vanno quindi
rifiutate sia quando non perseguono un certo tipo di fini che
si ritengono assolutamente da perseguire (costituzionali, in primis),
sia quando sono intrinsecamente incoerenti nel modello e per
questa ragione producono confusione e paradosso.
Il modello realizzato dopo i governi
Formigoni, da Maroni in poi, non solo non ha cambiato
l’orientamento di fondo precedente (ha mantenuto il quasi-mercato
in versione privatizzante), segnando così una continuità con i
governi precedenti, ma ha anche mostrato ampiamente l’incoerenza
dei suoi principi costruttivi. Presenta infatti criteri
costruttivi disomogenei e incompatibili, che sono il frutto di
logiche contrapposte, alcuni dei quali forse inclusi in sede di
discussione politica nel Consiglio regionale, in forma di emendamenti
alla proposta presentata alla discussione dalla maggioranza di
governo o da una delle sue componenti. In ogni caso, nel passato,
nessuno ha rilevato che costituissero qualcosa di incompatibile con
qualche altro elemento o aspetto già deciso del SSR.
Esempi
di incongruenze dell’attuale modello di SSR
Riporto qui, fra gli altri che potrei
esporre, un esempio di incongruenza/paradosso nell’impianto attuale
di SSR lombardo.
Da un lato, mantenere il modello di
quasi-mercato per la funzione di erogazione dei servizi, laddove
sono in concorrenza gli erogatori pubblici con gli erogatori privati
su un supposto piano di parità (realizzando la negazione del
principio della sovra-ordinazione del pubblico sul privato: che detto
in altri termini, significa che si nega che il pubblico resti
l’attore più importante, quello che ha l’ultima parola).
Dall’altro, attribuire all’erogatore pubblico dei servizi
(ospedalieri e territoriali), le Aziende Socio-Sanitarie
Territoriali, le ASST, il coordinamento della rete di erogazione del
loro territorio, costituita dagli erogatori pubblici (che sono sue
articolazioni) e costituita anche da tutti gli erogatori privati,
soggetti di fatto del tutto autonomi, anche se posti formalmente su
un piano di parità con le ASST, in quanto esse stesse strutture
erogatrici. Insomma, stando alle regole del quasi-mercato, le ASST
dovrebbero coordinare i soggetti con cui sono chiamate a competere.
Un altro esempio ci fa entrare in un
problema organizzativo di macro divisione del lavoro incongrua: la
politica della presa in carico dei cronici (PIC), già ampiamente
impostata in precedenza da Formigoni pensando in primis ad un ruolo
forte delle cooperative dei Medici di Medicina Generale (istituzione
dei CREG), realizza in una certa misura la aziendalizzazione della
medicina di base già ipotizzata, ma in una modalità diversa
rispetto al passato, burocratizzando e ridimensionando (soprattutto
nelle sue prime intenzioni, in parte corrette per la protesta dei
medici di base stessi) il ruolo del medico di base. La politica va
nel senso di cedere a nuovi soggetti privati, non sempre già
accreditati, la facoltà di prendere in carico pazienti cronici e/o
fragili e di obbligare i pazienti a sottoscrivere un contratto
privatistico con loro (anche quando si tratta di ASST, quindi in
ambito pubblico): il cosiddetto “patto di cura”. La fonte di
incongruenza, in questo caso, è che i Medici di medicina generale
della Lombardia devono instaurare rapporti con le ASST, gestori
pubblici della PIC, e con i numerosi gestori privati della PIC, per
la gestione dei propri assistiti malati cronici e con la ATS per la
regolazione dei rapporti amministrativi burocratici e gestionali
riferiti a tutti i loro pazienti. Troppi interlocutori, a quanto
pare.
La riforma Maroni, in senso lato, ha
aggiunto logiche, finalità, principi incompatibili con il SSN
tradizionalmente inteso e anche inefficaci di per sé, nella
inconsapevolezza – pare- di ciò che questo fatto avrebbe potuto
produrre: improvvisazione e ingestibilità.
Nel formulare e verificare le proposte
di riforma del SSR della Lombardia – che cominciano embrionalmente
già in questi giorni a fioccare sui media – dovranno entrare in
campo per la verifica della completezza, proponibilità,
sostenibilità e tenuta del modello coloro che sono in grado
di analizzare i problemi di coerenza interna dei macro modelli
organizzativi. I medici e gli operatori sanitari dovranno fare lo
sforzo di occuparsi a 360 gradi del SSR (non solo di un circoscritto
spaccato, il loro), tenendo conto della finalità ultima del
modello decisa con il contributo indispensabile dei cittadini e
portata avanti dai politici che li rappresentano.
A
carte scoperte, per i cittadini
Ci si deve preparare a formulare solo
proposte coerenti, che tengano anche conto del
contesto (senza dover per forza co-progettare con gli stakeholder,
soprattutto se i cittadini intendono appoggiare proposte che si
prefiggano il contenimento degli stakeholder più ingombranti). È il
cittadino che deve essere sentito e non gli erogatori privati che
sono stati chiamati a servirlo. Altrimenti dove sta la tanto
declamata centralità dell’utente? Ci si deve anche preparare a
contrastare con efficacia le proposte di partiti,
gruppi politici e stakeholder, anche per il tramite di studiosi o
accademici, che non rispettino ciò che si ritiene irrinunciabile
per un SSN.
Proposte che – come si
diceva – possono essere non accettabili in toto per le
finalità che perseguono (frammentazione e disaggregazione del
Servizio, difficoltà di controllo, privatizzazione presupposta,
orientamento a far crescere le disuguaglianze fra territori) e/o
per incoerenza interna (affermazione di principi che
risultano incompatibili all’interno dello stesso modello;
incompletezza del disegno con riferimento alle funzioni; non raccordo
fra le parti del Servizio, difficoltà di funzionamento,
delimitazione dei confini dei territori disfunzionali in quanto
rendono meno possibile il controllo).
Ecco i quattro ambiti da analizzare
delle proposte che verranno messe in campo: finalità
ultime, principi costruttivi su cui si basano,
configurazione strutturale macro del modello (complessità e
modularità), dettagli di implementazione del modello (da
prefigurare e poi controllare, verificando la coerenza con i principi
affermati).
Nelle precedenti proposte di riforma, il confronto, ammesso si sia
davvero svolto nelle modalità opportune, è stato su singoli aspetti
del macro-modello, presi singolarmente. Per esempio, numero delle
articolazioni organizzative del Servizio, modalità di fusione fra
unità operative, denominazione delle unità operative. Ma non è
questo il punto.
i
Le ATS nel territorio delle quali lavorano gli ospedali pubblici in
prima linea sono 7 sulle 8 totali: ATS della Città metropolitana di
Milano, ATS della Val padana, ATS della Brianza, ATS di Pavia, ATS
di Brescia, ATS della Insubria. Nell’elenco manca l’ATS della
Montagna. Si tratta di strutture che in altre regioni potrebbero
essere associate alle ASL, in quanto delle ASL svolgono le funzioni
di prevenzione medica e veterinaria, le funzioni di convenzione e
organizzazione della medicina di base e delle farmacie e, oltre a
ciò, svolgono in buona parte le funzioni connesse
all’autorizzazione all’esercizio e all’accreditamento delle
strutture sanitarie, e le funzioni di committenza dei servizi da
acquistare presso gli erogatori pubblici e privati a contratto con
il SSR, di negoziazione delle condizioni del contratto, e di
controllo sia della permanenza nel tempo dei requisiti autorizzativi
e di accreditamento sia di controllo del regolare svolgimento delle
attività delle strutture a contratto, quindi parte del SSR.