Presentazione
di
Enzo Ferrara
“Noi affermiamo che la magnificenza
del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della
velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi
tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo ... un automobile
ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della
Vittoria di Samotracia.” – è il quarto punto del
manifesto del Futurismo, fondato da Tommaso Marinetti nel 1909. Non è
l’unico passaggio di questo documento, gonfio di un linguaggio
stupidamente violento, in cui si cita la velocità. Al punto nove si
afferma: “Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già
creata l’eterna velocità onnipresente” e poi più avanti:
“Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono
alcuna stanchezza, poiché sono nutriti di fuoco, di odio e di
velocità! ... Ve ne stupite?”
Pochi altri testi hanno saputo e osato
mettere assieme così tanti aggettivi antisociali per accompagnare la
velocità, che è fondamentalmente una grandezza fisica definita dal
rapporto fra una distanza (o lunghezza) e il tempo impiegato per
percorrerla ma che ha assunto significato e perfino valore per quanto
sottintende di potenza e supremazia sulla natura e all’interno
delle comunità umane. Anche per questo, riflettendo sulla
insostenibilità sociale ed ambientale delle tecnologie ad alta
velocità – dalle centinaia di chilometri/ora delle linee
ferroviarie ai miliardi di byte/secondo delle tecnologie informatiche
e della telecomunicazione, fino ai circa 332 metri/secondo (il numero
di Mach, 1200 km/h) della velocità del suono usata per gli aerei
supersonici – ci sono spesso tornati in mente, in contrasto alle
futili affermazioni futuriste, i tre saggi del 1996 qui raccolti,
scritti quando il filosofo e studioso di pedagogia austriaco Ivan
Illich accettò di intervenire alla conferenza Doors of Perception
che l’associazione olandese di arte contemporanea (Netherlands
Design Institute) organizzava ad Amsterdam quell’anno sul tema
della “velocità”. La conferenza si tenne l’8 novembre. Illich
sorprese i suoi ospiti perché si presentò con il biologo
naturalista Sebastian Trapp e con il musicologo Matthias Rieger, due
suoi amici di Brema la città in cui abitava, che avevano riflettuto
con lui su quel tema. Così Illich spiegò poi come era nata questa
vicenda:
“Eravamo seduti nel grande salotto in
casa di Barbara Duden a chiacchierare con davanti una tazza di thè,
quando arrivò una lettera dall’Olanda. Era un invito a una
conferenza del Netherlands Design Institute. Si poteva leggere che:
‘Il tema della quarta conferenza Doors of Perception è la
velocità. Che ci sia un senso oppure no, viviamo in un mondo
dominato dalla velocità — dai TGV alla CNN. La velocità definisce
i nostri prodotti, i nostri luoghi, il nostro stile di vita e la
nostra immaginazione’. Oppure no? Ci guardammo l’un l’altro. Da
dove potevano trarre ispirazione sulla ‘velocità’ un biologo
naturalista, un musicologo e un filosofo? La nostra immaginazione
incespicava sulla presunta dominanza del tema. Poteva essere così
scontata come il programma suggeriva? Per trovare una risposta, siamo
tornati indietro nella storia, per distanziare noi stessi dalle
certezze moderne e per capire se da lì potevamo guardare alla
velocità anche oltre la nostra visione sociale accelerata”.
Gli interventi originali furono
trascritti poco dopo. Quello di Ivan Illich fu tradotto dalla rivista
Libertaria (ottobre-dicembre
2001), gli altri due sono invece rimasti
disponibili a lungo solo in inglese. Il testo di Sebastian Trapp uscì
poi su Medicina Democratica (maggio/agosto 2017), quello di
Matthias Rieger è stato proposto per la prima volta in italiano sul
numero 78/79 (agosto/settembre 2020) della rivista Gli Asini (Critica
della Velocità di Sebastian Trapp, Matthias Rieger, Ivan Illich,
p. 139).
Sono passati più di vent’anni dalla
loro stesura, ma le riflessioni raccolte in queste pagine restano
coinvolgenti e utili e, benché leggere, efficaci per svelare
l’assurdità dei modi di pensare il rapporto fra società, natura e
tecnologia in modo univoco, basato su pretese di potenza e controllo.
“L’onnipresente ed eterna velocità”, che si accompagna a fuoco
e odio, non ha alcun riscontro nel mondo naturale se non in
riferimento ai fenomeni astronomici: la velocità orbitale media
della Terra intorno al sole è di circa 30 km/s (108mila km/h), ma
nemmeno ce ne accorgiamo. Non esistono tecnologie o connotati sociali
che abbiano valore in assoluto; occorre sempre considerare i costi in
termini sociali e ambientali di qualunque scelta e decidere cosa è
il meglio a seconda delle situazioni. Perfino le azioni di cura,
sosteneva Illich, portate oltre certi limiti possono rivelarsi
contro-produttive. È sembrato questo un momento opportuno per
rimettere questi tre testi insieme e coglierne il valore in
profondità: se non si mettono l’uomo e la sua esigenza di
relazione interpersonale e con la natura al centro del discorso,
qualunque apporto tecnologico si rivela di dubbia utilità e le sue
pretese capacità aggiuntive superflue e risibili, se non dannose.
***
Federico II e la
velocità del falco
di Sebastian Trapp
La mattina presto del 18 febbraio 1248
i cittadini di Parma attaccarono il nemico che li stava assediando.
Si riversarono fuori della proprie mura e distrussero Victoria, la
città che l’esercito nemico aveva costruito e chiamato in modo
così sprezzante. Sapevano che l’imperatore che li aveva aggrediti
e i suoi più uomini più fidati non erano lì.
Per diversi mesi gli assediati avevano
osservato la vita quotidiana nel campo del loro odiato avversario e
sapevano, perciò, che il momento giusto per contrattaccare sarebbe
stato quello in cui l’imperatore lasciava il campo di battaglia per
andare a caccia con i suoi falconi.
I parmigiani ebbero il sopravvento e
non sconfissero soltanto il re nemico, ma lo spogliarono di quasi
tutto. Gli presero la corona che sfoggiava nelle giornate di
cerimonia, un capolavoro lavorato meravigliosamente, ornato di
diamanti e “grande quanto una pentola” – come ricordava
un suo contemporaneo. Inoltre, cadde nelle loro mani il sigillo del
Regno di Sicilia, cosa che costrinse poi l’imperatore a emanare
numerosi editti per evitare che i suoi oppositori ne facessero abuso.
Il Carroccio di Cremona, un cocchio pomposamente decorato con
bandiere, fu il trofeo più famoso. I nemici della città di Cremona
che si era alleata con l’imperatore non poterono resistere alla
tentazione di prendersi dei souvenir; pochissimo tempo dopo la
vittoria, non ne era rimasto altro che le ruote.
Ma il solo e veramente unico bottino
non rimpiazzabile di quel colpo di mano non è elencato nelle
cronistorie. Si trattava di un manoscritto, preparato espressamente
per il re, con una custodia in cuoio, ornato di oro e argento e con
il testo impreziosito da disegni e miniature. Fu visto per l’ultima
volta vent’anni dopo la battaglia di Victoria – lo si menziona in
una lettera scritta nel 1265 – poi non fu mai più ritrovato.
È il libro De arte venandi cum
avibus (Sull’arte della caccia con gli uccelli), scritto
dall’assediante di Parma stesso – Federico II, Re di Sicilia e di
Gerusalemme e Imperatore del Sacro Romano Impero. Grazie ad altre
copie minori lo si trova ancora in stampa oggi.
Federico II fu un personaggio con
grandi doti. A causa della sua amicizia con studiosi arabi e del suo
pensiero privo di dogmi – come dimostrava il suo interesse per la
filosofia e le scienze naturali – il clero gli fu decisamente
ostile. Fu scomunicato da Papa Gregorio IX come personificazione
dell’Anticristo. Il biografo di questo Papa scrisse che “egli
(Federico) aveva trasformato il titolo di maestà in
una carica relativa alla caccia, si circondava non d’arme e leggi
bensì di cani e di uccelli vocianti, e ancor peggio, aveva
dimenticato d’imporre la giusta vendetta sui suoi nemici,
preferendo sguinzagliare le sue aquile trionfali nella caccia con gli
uccelli”.
Solo in pochi poterono apprezzare
quell’opera scritta da Federico sulla vita dei volatili da caccia,
che per molti aspetti rimane di valore ancora oggi. È rimarchevole
perché si basa non su testimonianze riportate o sulla narrazione, ma
su un’osservazione fatta da un esperto e su una descrizione
dettagliata di quanto osservato.
Uno dei suoi contemporanei scrisse:
“Grazie alla sua straordinaria capacità di elaborazione mentale,
che si concentrava principalmente sulla cognizione della natura,
l’imperatore compose un’opera sulla vita naturale e
sull’allevamento degli uccelli con la quale dimostrò quanto fosse
intimamente dedito ad analisi approfondite”.
Leggendo il libro è difficile non
restare profondamente impressionati dall’ampiezza delle conoscenze
che Federico II aveva raccolto, non soltanto sulla cura e
l’allevamento dei falconi che usava per la caccia, ma anche sulla
loro anatomia e sulle loro malattie. Tuttavia l’intenzione di
questo grande libro è molto più ampia: non si occupa soltanto di
uccelli da preda ma della vita di tutti i generi di uccelli, con
osservazioni dettagliate dei loro cicli di vita, dei loro territori
preferiti, delle loro abitudini incluse le migrazioni autunnali e
invernali, e ancora molto, molto di più. Nel linguaggio moderno
diremmo che diede una dettagliata descrizione dell’anatomia, del
comportamento e dell’etologia degli uccelli con inclusa una
tassonomia.
Nel quarto volume di questa sua opera
Federico descrive le differenti modalità con le quali i falconi
attaccano una gru a terra. Esprime la sua opinione sulle ragioni per
queste differenti tattiche:
“Di questi falconi uno si getta contro
le gru sul terreno, alcuni volano in alto, altri in basso e altri
ancora ad altezza media. [...] Quelli che volano alti, rapidi e
diretti, lo fanno per arrivare più in fretta addosso alla gru che
hanno scelto e per essere in grado di colpirla con maggiore impeto”.
“Quelli che volano compiendo un arco
rapido, lo fanno per sfruttare meglio la direzione del vento, se non
gli si gettano direttamente contro”.
“Quelli che volano compiendo un arco
lento, lo fanno sia per sfruttare il vento, sia per fare alzare la
gru in volo non osando attaccarla direttamente sul terreno”.
“I falconi che volano a mezza altezza e
lentamente lo fanno per far alzare in volo la gru, quelli che volano
ad altezza moderata ma rapidi, lo fanno per raggiungere la preda nel
più breve tempo possibile, cioè prima che questa riesca a volare
via e a sfuggirgli”.
Forse ora cominciate ad avere idea del
perché io stia parlando di questo libro antico e quasi sconosciuto.
Dopo tutto, questo è un incontro sulla velocità, non sui possibili
libri antenati delle moderne scienze naturali, per quanto essi siano
affascinanti. Ma Federico II può servire come punto di partenza per
un ragionamento che vorrei fare con voi.
Per questo ragionamento è importante
considerare che, per quanto sia vissuto molto tempo fa, Federico II
era sotto molti aspetti un uomo moderno. Era moderno perché non
credeva ingenuamente a ciò che non aveva visto di persona. Era
moderno per la sua attenzione ai dettagli e per il suo tentativo di
comprendere ciò che aveva osservato mettendolo in relazione con il
contesto corretto: l’ambiente nel quale l’osservazione era stata
fatta. Per altri versi, tuttavia, era davvero un uomo di vecchie
maniere: non parlava mai di velocità.
La descrizione che ho citato, sui modi
in cui i falconi si avvicinano alla preda, lo dimostra chiaramente.
Per descrivere i movimenti dei falconi usa le parole “lento”
e “rapido”, ma solo in questo senso e anche quando valuta
i movimenti dei suoi falchi, parla sempre soltanto dei loro
differenti modi di volare verso la preda: “il volo in alto è
più lodevole e pregevole perché per questi falconi è la maniera
più facile di piombare direttamente sulla preda [...] se anche la
gru li intravede in distanza, i falconi che volano in alto possono
comunque raggiungerla rapidamente proprio perché piombano da
un’altezza elevata”.
Federico sta usando queste parole, ma
non parla mai né pensa in termini di velocità come facciamo noi. E
non confronta mai la velocità di un falcone con quella di un altro,
né la velocità del falcone rispetto a quella della sua preda.
Oggi è più semplice. Nei libri di
scuola si legge che il falco pellegrino raggiunge una velocità di
200 km all’ora, molto più veloce di tutti gli altri uccelli che
attacca. Ma questa dote – essere più veloce di tutti gli altri –
non è la vera ragione per la quale i falconi sono abili cacciatori.
Federico, che dedicò gran parte della sua vita alla caccia con gli
uccelli – molti diranno anche troppo tempo passato a cacciare –
conosceva bene la vera ragione. Infatti non gli sarebbe mai passato
per la mente che il successo dei suoi rapaci stesse nella loro
straordinaria velocità.
Le ragioni sono di due ordini: la prima
sta nella nostra cultura. Il concetto di “velocità” per
come lo conosciamo noi è nato molto di recente, è un concetto
decisamente moderno. I dizionari possono ricordarci significati più
antichi del concetto di velocità, che potrebbero sembrarci strani e
alieni: abbondanza, successo, fortuna, copiosità, sostegno,
protezione.
Oggi, se qualcuno parlasse di
“velocità” noi la intenderemmo come caratteristica di un
processo, un movimento nella maggior parte dei casi, in funzione del
tempo, che – almeno in principio – può essere misurato da uno
strumento, da un dispositivo tecnico e perciò può essere comparato.
Questa nozione del tempo – che si esprime in unità di misura come
i km/h o i giri al minuto – connota un movimento uniforme, perché
stiamo parlando della velocità meccanica.
La velocità meccanica è stata
inventata insieme alle ferrovie. Prima di allora le persone
viaggiavano con le carrozze. Non soltanto si rendevano conto di
quanto fosse faticoso per i cavalli tirare la carrozza, ma essi
stessi venivano sballottati su e giù, tanto che alla fine del
viaggio erano esausti tanto gli animali quanto i passeggeri. Il
movimento era davvero molto irregolare; a ogni curva, a ogni
ostacolo, la carrozza rallentava, inoltre dopo poco tempo i cavalli
si stancavano e si andava più piano.
Questa irregolarità del movimento
divenne palese quando furono inventate le ferrovie. Nel 1826 un
promotore delle reti ferroviarie descrisse il movimento del cavallo
come zoppicante e irregolare e lo confrontò con quello della
locomotiva che si muove “con una modalità uniforme e rapida
sulle rotaie, affatto condizionata dalla velocità del movimento”.
Non ci volle molto perché la percezione dei viaggiatori cambiasse e
il movimento rapido e uniforme della locomotiva venisse avvertito
come naturale, mentre la natura dei cavalli da tiro cominciava ad
apparire pericolosamente incontrollata.
Perciò, non è sorprendente che già
nel 1825 si scriveva che “presto anche l’uomo più ansioso quando
troverà posto su un vagone tirato da una locomotiva si sentirà
molto più sicuro di quanto non gli accadeva nel tempo in cui doveva
viaggiare in una carrozza tirata da quattro cavalli, ognuno dei quali
differiva in potenza e velocità, e poteva imbizzarrirsi, diventare
incontrollabile oltre che soggetto a tutte le debolezze della carne”.
Per questo il tipo di velocità di cui
parliamo oggi – quella di cui stiamo parlando in questa conferenza
– è qualcosa che ha cominciato a esistere più di mezzo millennio
dopo la morte di Federico. Lui non poteva parlare della velocità nel
modo in cui ne parliamo noi.
La seconda ragione è perfino più
importante secondo me. Sta nella natura del falcone, nella natura
della sua preda e nella natura della natura. Parlare della velocità
del falcone è un’astrazione, un presupposto che può assumere un
significato solo per alcuni obiettivi. È tuttavia anche una
distrazione.
Ci distrae dal modo in cui il falcone
sta in realtà cacciando. Il confronto fra la velocità del falcone e
la velocità della sua preda ci porta inevitabilmente a immaginare
una gara, il cui esito finale è che il falcone raggiunga l’altro
uccello e infine lo catturi.
L’obiettivo del falcone non è però
quello di poter – o voler – battere la sua preda in una gara.
Federico – che vivendo nel Medioevo non poteva farsi ingannare
dalla moderna nozione di velocità – lo vedeva chiaramente.
Lui sapeva che ci sono uccelli (e offre
l’esempio del tarabuso) i quali, quando vengono incalzati da rapaci
che li inseguono per cacciarli, gettano loro addosso i propri
escrementi. Considerando quanto caustiche siano queste sostanze, si
tratta di un rischio grave che qualunque predatore vorrebbe evitare.
Per questo Federico non ha mai
immaginato la caccia con gli uccelli come una forma di gara. E le
frasi che ho citato sono chiare a questo proposito: egli descrive
sempre il comportamento del falcone – come si lancia dal pugno
guantato, come si avvicina alla preda, che cosa ha in mente quando
sceglie un certo percorso per arrivare alla gru. Prende in
considerazione dove stanno le gru, quello che stanno facendo e quale
metodo di attacco sarebbe il migliore per il falcone, il più
“lodevole”, come egli sottolinea.
In tutto questo volare, curvare, e
volteggiare, battere le ali per prender quota ed esitare prima di
piombare giù, in tutto questo, non c’è spazio per la nostra
nozione di velocità.
Quando io dico che “il falco
pellegrino raggiunge una velocità di 200 km orari”, in realtà
sto parlando di un momento brevissimo, poco più di un battito di
ciglia, quello in cui il falcone si avvicina maggiormente a qualcosa
che sia compatibile con la nostra idea di velocità – cioè, la
velocità meccanica, – il momento in cui sfreccia verso l’altro
uccello, con le ali compresse contro il proprio corpo, incapace di
qualunque sterzata e perciò costretto a muoversi in linea retta.
Questo è l’unico momento in cui la
nostra idea di velocità è davvero applicabile ed è solo in questo
momento che possiamo riconoscerla in quel testo. Un secondo più
tardi – quando gli artigli del falcone colpiscono l’altro
uccello, quello cade e lui lo afferra cercando di riprender quota –
“velocità” è di nuovo un concetto senza alcuna
importanza pratica, nemmeno per l’osservatore umano. Questo vale
anche per gli umani, almeno in principio. Ma la tecnologia ha
prolungato enormemente i tempi in cui noi viviamo esperienze di
velocità meccanica. Siamo abituati a stare seduti in treno, a
prendere un aeroplano, a guidare in autostrada dentro un’auto. Ci
siamo così tanto abituati all’esperienza uniforme della velocità
meccanica che per noi ha senso parlare della “velocità”
perfino di chi si muove a piedi, anche se in realtà si ferma tutti i
momenti, parla con altre persone o guarda le vetrine di un negozio.
Per un oggetto che si muove in modo
così irregolare come un pedone sul marciapiede, ce la caviamo
parlando di “velocità media”. I primi passeggeri delle
ferrovie restavano confusi e sorpresi dal movimento uniforme del
treno, non erano abituati alle sensazioni della velocità dentro una
macchina che irrideva i loro ritmi abituali. Ci volle un po’ di
tempo prima che le persone cominciassero ad abituarsi a vedere i
luoghi che conoscevano scorrere davanti ai loro occhi come paesaggi,
impressioni che ormai ci sono così familiari che non le consideriamo
nemmeno più. Noi – che siamo trasportati tutto il tempo – siamo
così abituati a questo tipo di velocità prodotta dalle macchine che
per noi “velocità” è un termine che ha un senso
perfettamente compiuto.
Guardando un falcone alto nel cielo o
un bambino che giocherella girovagando nella strada, io dubito
profondamente che questa nozione di velocità, portata avanti dalle
macchine che gli uomini hanno inventato, sia l’idea che dobbiamo
avere in mente quando parliamo esattamente degli umani, di noi
stessi. Non fa davvero nessuna differenza se noi vogliamo che la
“velocità della società umana” sia accelerata o
rallentata – finché guarderemo gli umani con in mente la
“velocità”, non riusciremo a vederli umanamente.
***
La velocità e un percussionista di danza del ventre
di Matthias Rieger
Mentre stavo preparandomi per questa
conferenza sulla velocità, a un certo punto mi è sembrato di non
avere argomenti da proporre a persone che sarebbero arrivate da tutte
le parti del mondo con automobili, treni o aeroplani. Questo evento –
così avevo letto nel programma – dovrebbe dare agli scienziati,
agli ingegneri e ai filosofi un’opportunità per chiarirsi le idee.
Così, dopo un po’ ho pensato di chiedere aiuto al mio insegnante
di percussioni, Muhammad. È un caro amico ed è anche un musicista
esperto. Da due anni sta lavorando sodo per insegnarmi l’arte delle
percussioni per la danza del ventre. Al termine di una lezione
settimanale di musica gli ho detto che ero stato invitato dal
Netherlands Design Institute per parlare della velocità nella
musica e che stavo preparando un discorso sull’introduzione del
concetto di velocità nella società. Volevo usare l’esempio del
metronomo per spiegare in quale modo la velocità fosse entrata anche
nel mondo della musica.
Questo strumento fu inventato nel 1812
dal tecnico olandese Nicolaus Winkler che viveva ad Amsterdam, forse
proprio in un posto qui vicino. L’idea di quel piccolo
marchingegno, progettato per dare il ritmo giusto alle sonate,
gli fu rubata da un tecnico tedesco, Nepomuk Maelzel, che lo brevettò
a Parigi e a Londra e lo mise in commercio nel 1816.
Il metronomo è un dispositivo tecnico che emette un suono periodico
a una velocità che si può cambiare, dettando così al musicista il
ritmo da seguire. Il suo funzionamento si basa sul principio del
doppio pendolo, cioè sul movimento di una sbarra che oscilla, con un
peso su entrambe le estremità. Il peso più in alto si può spostare
lungo una scala graduata. Un meccanismo a molla alimenta il movimento
della sbarra e fornisce quel ticchettio che ogni aspirante musicista
conosce bene. Se si sposta il peso mobile lungo la sbarra, il ritmo
del pendolo cambia e si può rallentare o accelerare il ticchettio.
Sugli spartiti, per esempio, si può trovare l’indicazione che un
certo brano dev’essere suonato a MM (Metronomo di Maelzel) = 80.
Significa che il pendolo deve oscillare dall’uno all’altro lato
(ed emettere un suono) ottanta volte al minuto e che le note intere
(o semibrevi) corrispondenti devono essere suonate alla velocità di
ottanta al minuto.
“Molto interessante – ha risposto
Mohammed. – Ma a cosa pensi possa servire discutere di velocità in
musica? Di cosa vogliono sentir parlare quelle persone?”
“Guarda – ho detto – se ho
compreso bene, vogliono capire se si può rallentare la velocità di
una società con progetti e architetture per andare più lenti.
Immagino significhi qualcosa come ridurre la velocità in autostrada
da 120 a 90 chilometri all’ora, o la musica da 98 battiti al minuto
a 60”.
Ho spiegato a Mohammed che avrei
provato a commentare il senso della velocità prendendo come esempio
la discussione che si fa in musicologia parlando della fedeltà alla
“pratica artistica storica”. Questo dibattito cominciò
all’inizio del ventesimo secolo, sulla musica rinascimentale,
barocca e classica. Da allora, ci si è scontrati su come
interpretare e usare le indicazioni sul metronomo fornite dal
compositore. Da una parte di questa controversia ci sono quelli che
pensano che suoniamo la musica classica troppo velocemente.
Sostengono che questo accade a causa della generale accelerazione di
tutti gli aspetti della vita moderna dopo l’invenzione delle
ferrovie. Dicono che si dovrebbe ridurre della metà la velocità
indicata sugli spartiti, da 120 a 60 battiti a minuto, per esempio.
Lasciate che costoro io li chiami ‘slobbies’, usando un
termine che gli economisti hanno creato per indicare persone che
vanno piano ma con efficacia.
Dall’altra parte ci sono quelli che
difendono le interpretazioni musicali eseguite seguendo esattamente
il ‘tempo’ indicato sullo partito; questo è secondo loro l’unico
modo per riprodurre la melodia originale.
“Ah – mi ha interrotto Mohammed –
ho capito: guidatori di una Porsche o di un maggiolone che discutono
di musica”.
Uno dei primi compositori che fornì
indicazioni per il metronomo fu Ludwig van Beethoven. Era amico di
Maelzel e favorì l’introduzione del metronomo in Germania. Ma
Beethoven rimase sconcertato quando ascoltò le prime interpretazioni
delle sue musiche fatte seguendo le frequenze di un metronomo. Le
indicazioni MM non andavano bene. Dovette così cambiarle più volte
finché non arrivò a concludere che l’uso del tempo ‘misurato’
non ha alcun senso in musica, e non fu l’unico compositore che la
pensava così.
“Però – chiesi – non abbiamo
anche noi due usato il metronomo per i nostri primi esercizi di danza
del ventre? A me sembrava il modo migliore per tenere bene il ritmo
della danzatrice”.
“In realtà, – disse Mohammed –
allora non avevi quasi nessuna esperienza. Altrimenti non avresti mai
accettato di seguire un dispositivo meccanico invece del tuo istinto
per tenere il ritmo giusto, appropriato e armonioso. Questa certezza
l’acquisisci solo grazie al confronto fra le sensazioni della
danzatrice e le tue”.
Come potete immaginare, rimasi colpito
dalle osservazioni di Mohammed. Decisi non solo di continuare le mie
due ore di pratica musicale quotidiana ma volevo anche capire come
hanno fatto i musicisti a trovare il tempo giusto per le loro
esibizioni nella storia della musica occidentale.
Una settimana più tardi ho invitato
Mohammed a prendere una tazza di thè per continuare la nostra
conversazione. Era entusiasta e mi promise che sarebbe venuto con
un’amica di nome Abla, una danzatrice del ventre che faceva
spettacoli con Mohammed da molto tempo.
Quando arrivarono preparai del buon
thè, aggiunsi dei dolcetti e cominciammo a chiacchierare.
“Guarda Mohammed, mi hai veramente
fatto riflettere con le tue osservazioni sul metronomo e la musica. –
dissi – Ho cercato informazioni sulla storia della musica
occidentale perché volevo capire cosa pensavano i musicisti del
passato sul tempo musicale. Puoi immaginarti la mia sorpresa quando
ho trovato che fino al diciannovesimo secolo il tempo della musica è
sempre stato determinato dall’ambiente in cui quella doveva essere
rappresentata: un evento speciale, un luogo, un posto di lavoro o di
azione.
Per esempio, i canti del lavoro si
adattavano al ritmo dell’attività svolta, il tempo di una musica
da ballo dipendeva dall’acustica del teatro e, certamente, anche
dall’umore dei ballerini e dei musicisti. L’esigenza di avere
indicazioni sul tempo si cominciò a sentire solo all’inizio del
diciottesimo secolo quando i compositori iniziarono a usare parole
italiane per lo scorrere del tempo, come adagio, allegro, o presto.
Tuttavia, questi termini legati al tempo non si riferivano a una sua
misura che ne permettesse l’espressione in unità al minuto. Erano
insieme indicazioni per l’umore e per lo spirito o il carattere a
cui si ispirava il brano.
Carl Philipp Emanuel Bach a metà del diciottesimo secolo nel suo
‘Studio sulla vera arte di suonare il vlavicembalo’
(Versuch, über die wahre Art das Clavier zu spielen) aveva
scritto: “Il tempo di una pièce, che è usualmente indicato
da una varietà di termini italiani familiari, dipende dal suo
carattere generale e dalle note e i passaggi più veloci che include.
L’attenzione appropriata a queste considerazioni eviterà di fare
fretta a un Allegro o di trascinare un Adagio”.
Poi ho dato un’occhiata agli scritti
sulle danze e, nuovamente, ho trovato che non ha senso confrontarne i
tempi fra tipi differenti. Una sarabanda non è più veloce o più
lenta di un minuetto o un valzer. È semplicemente una sarabanda e
bisogna suonarla come deve essere suonata una sarabanda. Tutte le
danze hanno un proprio carattere che non si può semplicemente
ridurre a un tempo indicato meccanicamente.
La prima macchina per la misura del tempo musicale fu inventata nel
1698, molto dopo che il primo orologio a pendolo era stato costruito
in Francia. Questo strumento, chiamato ‘cronometro’, fu ideato
dal filosofo musicale francese Etienne Loulie ed era ancora famoso
nel secolo successivo. Costava molto ed era alto quasi due metri. Fu
usato più da teorici e scienziati della musica che da musicisti.
Perfino dopo che Winkler ne aveva realizzato la versione molto più
piccola e maneggevole, l’uso del metronomo fu di scarsa utilità
per la maggior parte dei musicisti. Fu solo più tardi, con la
commercializzazione del metronomo di Maelzel e il sostegno di
compositori famosi come Beethoven, che quell’oggetto divenne lo
strumento per la misura del tempo musicale.
Anche se l’uso del metronomo divenne
comune solo dall’inizio del diciannovesimo secolo, altre modalità
non tecnologiche venivano usate per tenere il tempo. Una era l’uso
del battito cardiaco. Ho trovato questo metodo menzionato per la
prima volta nel sedicesimo secolo da un monaco italiano chiamato
Ludovico Zacconi, che fornì una breve descrizione pratica di come
misurare il tempo con le pulsazioni nel suo trattato “Prattica
di Musica”.
L’allora
famoso flautista Johann Joachim Quantz scrisse nella sua opera
‘Studio di un modo per suonare il flauto traverso’
(Versuch einer Anweisung die Flötetraverse zu spielen) questa
bellissima frase: ‘Bisognerebbe assicurarsi di fare questo:
prendere come base il polso di una persona allegra e sana con un
carattere caloroso e spontaneo oppure, se è permesso dire così, di
una persona di temperamento collerico, dopo cena, verso sera. Solo
allora si potrà dire di avere scelto la pulsazione giusta. Se si
prende come base una persona depressa, triste, insensibile o pigra il
tempo del brano dev’essere un po’ più sostenuto del suo
battito”.
Tutti questi metodi di misura del
tempo, comunque, erano usati soprattutto dagli studenti di musica o
dai dilettanti, persone con scarse esperienze, come i percussionisti
principianti della danza del ventre oggi. Erano appigli per darsi
un’idea del tempo appropriata. Quantz, che descrisse il metodo di
misura delle pulsazioni, scrisse anche: “Se si fa pratica di questo
per un po’ di tempo, allora gradualmente la mente familiarizza con
i diversi tempi e non sarà più necessario affidarsi al polso”.
E Leopold Mozart, in quello stesso
periodo, andò perfino più in là. Per lui, riconoscere il tempo
appropriato in base all’esperienza, e non con l’uso di un
dispositivo tecnico, era il segno distintivo di un vero musicista.
“Questo è molto interessante –
disse Mohammed con un sorriso malizioso. – Vieni, prendi il tuo
tamburo e proviamo a riflettere sul concetto di velocità con l’aiuto
di Abla. Tu suoni un ritmo semplice e lei proverà a danzare. Guarda
però se riesci a tenere il tempo con l’aiuto del metronomo”.
Così ho aggiustato il ritmo del metronomo su 60 minime al minuto e
ho iniziato a suonare. Mi sono accorto subito che qualcosa non
funzionava. Abla danzava, ma non era a suo agio. Aveva difficoltà a
seguire i miei tambureggiamenti. Il suono e la danzatrice non si
armonizzavano.
“Stop. – Mohammed gridava – Stai
sbagliando”.
“Sì, – gli risposi — lo so”.
Avevo paura che Abla stesse cominciando a odiarmi. “Devo suonare
più lento o più veloce?”
“No, – disse Mohammed – non devi
suonare più lentamente o più rapidamente, devi suonare bene.
Lo so che seguire quell’attrezzo è il modo di suonare con
precisione, ma è anche il modo per sbagliare sempre. Non può
esserci accordo fra te e Abla finché ti rapporti con lei dal punto
di vista del metronomo. Se ho compreso bene, Matthias, è proprio
questo ciò che hanno in mente le persone della conferenza di
Amsterdam quando ragionano sulla velocità della società. Prova di
nuovo senza il metronomo e concentrati solo su Abla”.
Così ho di nuovo preso il mio tamburo
e ho cominciato a suonare. Non è stato facile, ma dopo un po’ e
con l’aiuto di Abla ho trovato il solco giusto e il tempo
appropriato; funzionava.
“Penso di avercela fatta” – ho
detto a Mohammed con un po’ di orgoglio nella voce.
“Sì, – ha detto lui – se
continui a fare esercizio impegnandoti per altri dieci o dodici anni,
potresti farcela davvero”.
Stava diventando tardi e Abla e
Mohammed dovevano andarsene.
“Mohammed, – dissi – devo ancora
capire cosa raccontare a quelle persone ad Amsterdam”.
“Bene, – disse Mohammed – prova a
parlare loro della velocità dal punto di vista di un percussionista
di danza del ventre”.
***
Prigionieri della
velocità
di Ivan Illich
La storia della velocità è un
argomento trascurato. Quando il poeta inglese John Milton augurava
“Che iddio renda veloci te e i tuoi cari!” (God speed
thee and thy close!), “to speed” significava
“prosperare” e non “andare veloce”. Oggi siamo imprigionati
nell’era della velocità. Il nostro senso comune ci dice che una
qualche idea dello “spazio nel tempo” e, più generalmente, del
“processo correlato con il tempo” fa parte di tutte le culture.
Mi accollo quindi il compito di scuotere il senso comune. Che l’idea
della velocità fosse importante per Aristotele, Archimede o Alberto
il Grande è soltanto un pregiudizio, una distorsione proiettata sul
passato. Fino al diciassettesimo secolo, infatti, il commercio, la
medicina o l’architettura prosperavano senza alcuna preoccupazione
per la velocità. E così la musica, la caccia o la pesca. La
velocità è un fenomeno specifico della nostra epoca.
Il concetto di velocità è sicuramente
storico. La riflessione sul tema è iniziata soltanto nel tardo
medioevo anche se poi, poco a poco, è arrivata a contribuire in
maniera decisiva all’era delle macchine e dei motori. Tuttavia,
oggi l’epoca storica della velocità giace dietro di noi. In questo
periodo l’homo technologicus è stato ossessionato
dall’esperienza della velocità: dalla casa alla fabbrica,
attraverso le scuole e i mestieri, dal lavoro alla vacanza, soffrendo
sempre di mancanza di tempo con orari stretti scanditi dall’orologio.
La differente fretta modella il nostro carattere.
Avere ancora fretta, oggi, è un
marchio di privilegio, il segno che non siamo ancora stati costretti
a passare dalla cultura della scarsità del tempo alla nuova era
dell’elettronica e della disoccupazione. I battiti per minuto e la
forza lavoro sono stati eclissati dai bit. Le trasformazioni del modo
di produrre, che si è trasferito dagli impiegati ai computer,
dall’aula a internet, dagli impiegati di banca alle carte di
credito, non ci hanno preparato a questa nuova cultura, l’età del
megahertz basata sulla velocità della luce. Nella nuova epoca, che è
anche quella della ‘c’ costante, i processi in tempo reale
simulano l’onnipresenza globale e sul serio ci portano
elettronicamente da qui a lì. Ma la pratica dell’intermediazione,
quella che aveva nutrito la dipendenza da velocità dell’uomo
moderno, è sparita.
Ecco la mia convinzione. Chiamatela
intuizione o preconcetto, oppure prendetela come la semplice ipotesi
di un estraneo: l’età della velocità ha avuto un inizio, ma ora
ne parliamo come storia perché siamo testimoni della sua fine. Reso
outsider da questa convinzione, parlo a un’assemblea di
professionisti che cercano metodi per incorporare la velocità nelle
dimensioni cruciali del design. In questo sontuoso teatro, assisto a
una conversazione sulla velocità desiderabile per l’esistenza
umana; a una profonda ricerca sulle richieste morali indirizzate ai
designer da parte di autoproclamati “slobbies” (slow is
better, lento è meglio), i quali invocano un progetto di
decelerazione; pianificatori che discutono su velocità alta e bassa,
rapida e lenta, sopportabile e distruttiva. Tutti professionisti
autoimprigionati nella certezza che la velocità avvolga tutto, e che
necessiti soltanto di essere controllata. È la velocità che conta
per loro, che conta quanto la durata della pena per il carcerato.
Il
messaggio del Gulag
Mentre ruminavo su questa fissazione,
mi sono ricordato di una conferenza a Oslo l’anno scorso,
organizzata dal criminologo Nils Christie (quello che scrive sui
gulag di stile occidentale) alla Northern Academy of Science.
In tutte le giurisdizioni politiche, oggi, il gulag cresce a un ritmo
più veloce di altre istituzioni di welfare. A quell’incontro
parteciparono i capi dei sistemi penitenziari di 14 paesi, dal
generale che gestisce le carceri russe al Federal Commissioner of
Corrections degli Stati Uniti. Tema: i freni che bisogna mettere
a questa crescita. Ascoltai per tre giorni le relazioni da ciascun
paese, e infine condussi la tavola rotonda finale.
Fui impressionato dall’unanimità fra
questi guardiani capi. Ogni relazione sottolineava che le prigioni
non realizzano alcuno dei loro scopi: non prevengono i reati, non
correggono le tendenze o il comportamento, e neanche puniscono, per
la soddisfazione delle vittime dei prigionieri. Tutti i capi delle
prigioni erano d’accordo sull’inutilità delle stesse e
ciononostante tutti chiedevano più fondi per migliorare il loro
lavoro.
Il mio compito era riassumere. Christie
voleva che collocassi questo enigma in un quadro storico. Per caso
conosco i libri medievali sui doveri dei signori. Ai principi
cristiani era proibito punire confinando i prigionieri nelle torri
dei loro castelli: e allora le usavano per custodirli fino alla
pubblica esecuzione, alla tortura o alla mutilazione. Ma come
spiegarsi che tutte le società moderne effettuano costosi
investimenti per prigioni la cui inefficacia è stata provata
riguardo a tutti gli scopi ad esse assegnate? Come spiegarsi la
disponibilità di criminologi, politici e contribuenti a finanziare
il costoso lavoro dei secondini? Come comprendere la ragione
dell’irragionevole certezza che i gulag devono continuare a
esistere?
Per rispondere a queste domande,
bisogna prima determinare gli effetti del gulag. Il gulag è
controproducente, se lo si giudica rispetto agli scopi ufficiali
della prigionia. È evidente che quest’istituzione ha il risultato
opposto rispetto a quello desiderato. Ma esaminiamo che cosa dice il
gulag, considerandolo non come un mezzo ma come un segno: un segno
più per quelli disposti a pagarne i costi, che per coloro i quali
sono rinchiusi lì dentro: prigionieri e guardiani. Bisogna scoprire
ciò che il gulag dice a quelli che lo finanziano, scoprire perché
sono bloccati dal bisogno di perpetuarlo. Ogni notizia in arrivo dal
gulag dice loro: siete liberi! Contrariamente a quelli che sono
dentro per scontare una pena, voi siete fuori, e dovete assaporare la
libertà! Siete liberi, anche se dovete alzarvi al suono della
sveglia e combattere costantemente contro l’orologio. Stando fuori
di prigione, potete usufruire di più ampie opportunità, potete
scegliere fra molte offerte, ma solo se tramutate la sete in
desiderio di una Coca cola… o di una Pepsi. Dimenticatevi l’acqua,
perché quella del rubinetto fa male. Insomma, si gode della scelta
fra un assortimento di alternative molto più ampio di quello dei
carcerati. Il gulag vi dice: “Scegli ciò che preferisci!”
A Oslo avevo di fronte fornitori di
prigioni, al tempo stesso consci della controproduttività del gulag
ma anche amministratori dedicati al suo sviluppo quantitativo e al
miglioramento qualitativo. A quale tipo di assemblea potevo
paragonarli? Li definii cardinali, ma in realtà pensavo a sciamani
durante una danza della pioggia. Lo sciamano prepara la danza annuale
che dev’essere celebrata nel villaggio, ma possiede anche
l’autorità di spiegare perché la pioggia non arriva, nonostante
la cerimonia. Non piove perché qualcuno non si è impegnato al
massimo durante la danza.
I sociologi utilizzano la danza della
pioggia come termine tecnico per un rito che crea il mito, un evento
mitopoietico che genera una credenza e conferma un dogma sociale. Max
Gluckman parla di queste cerimonie come di un modello sociale che
acceca tutti i partecipanti (sia sacerdoti sia fedeli) nella
contraddizione fra l’obiettivo asserito del rito e i suoi effetti.
La liturgia dovrebbe produrre pioggia, ma in realtà produce soltanto
il bisogno della danza.
Per anni ho esaminato le grandi
istituzioni di servizio delle società moderne, non solo per ciò che
fanno, ma anche per ciò che dicono; non come agenzie produttive, ma
come riti produttori di miti. Sono ostile alla scuola obbligatoria,
per esempio, perché la vedo come una danza della pioggia celebrata
in nome dell’uguaglianza, ma che in realtà fornisce alla società
soltanto la certezza che la scuola deve esistere. Analizzandone i
risultati concreti, infatti, si individua soltanto la selezione di
dodici livelli di bocciati, uno all’anno. Similarmente, i
criminologi moderni sostengono le carceri, e perfino la pena
capitale, sostengono la sovranità dello Stato basata sul bisogno di
un’agenzia che definisca i crimini e punisca i criminali. Oggi
desidero sottolineare la funzione rituale, di cerimonia creatrice di
miti, del design.
I
designer come sciamani
I designer sono un tipo assai speciale
di sciamano. Non celebrano la liturgia: la disegnano. Non governano
le enclave, ma consigliano coloro che le costituiscono. Non
sono la progenie di calzolai e muratori, ma i discendenti di un
frutto del genio rinascimentale: il disegno. Sono esperti
nell’integrazione deliberata e riflessa di artefatti vari; sorgenti
di una nuova composizione che distingue il barocco dal gotico.
Tuttavia, i designer non forniscono
soltanto la forma dell’integrazione, ma inevitabilmente diffondono
i principi guida ai quali devono sottomettersi gli elementi di un
tutto. Sia la carrozzeria di un’automobile che l’umile maniglia
di una porta impongono ergonomia: stuzzicano e attraggono il vostro
sedere e la vostra mano. Per mezzo secolo l’ergonomia (oggetti
disegnati per adattarsi al corpo) è stato un imperativo imposto dai
designer. Ma il nuovo dato messo all’ordine del giorno, la
velocità, ha il potere di liberare dal corpo: disincarna la
percezione del falco esattamente come una sonata di Ludwig Van
Beethoven.
Per decadi il design ha fatto
propaganda alla velocità, il più delle volte in modo surrettizio e
acritico. Più veloce sembrava meglio. Adesso volete inaugurare una
nuova era con lo slogan che l’andatura lenta può essere bella, e
quella appropriata ottima. Volete aprire un’epoca di profonda
consapevolezza della velocità, e promuoverla per mezzo del design.
Desiderate un design che inneggi agli “slobbies”
postmoderni: persone “slower but better working” che
proteggono puntigliosamente il loro ritmo tranquillo.
Nel ventesimo secolo la ricerca
dell’alta velocità privilegia una minoranza e consuma il tempo
della maggioranza. Il “Fly & Drive” non è certo alla
portata di tutti, ma tutti devono affrontare le distanze create dai
veicoli veloci. È dal 1970 che ci vendono modelli industriali di
sedie o di caffettiere dalla forma aerodinamica. La suggestione delle
velocità significava trovarsi al passo con i tempi, e l’alta
velocità sembrava seducente quanto l’ultima moda femminile. Ma
quel che ora proponete va perfino oltre: voi date per scontato che
tutto trasudi velocità, la velocità che volete controllare. E ciò
non può che confermare l’onnipresenza e l’onnipotenza di questa
droga che assuefà.
Sì, è un nuovo tipo di droga, una
chimera sconosciuta prima di Galileo Galilei, e alla quale era
difficile credere anche un secolo dopo la sua morte: l’idea di s/t,
spazio/tempo. Nessuno all’epoca afferrava questa fusione di spazio
e tempo. Quella mozione del movimento non faceva parte del loro
mondo: un mondo centrato su ogni singola persona e disteso di fronte
a ciascuno, pronto a essere percorso passo dopo passo. Un mondo in
cui gli alberghi erano collocati alla distanza di un giorno di
viaggio l’uno dall’atro, in cui dodici ore dovevano trascorrere
dalla mattina alla sera, in inverno come in estate, e in cui l’unità
di misura era il piede. L’allargamento dell’esperienza non poteva
stare in una frazione sopra il tempo vissuto.
I primi uomini che viaggiarono in treno
furono terrorizzati dalla velocità. Capirono che il treno,
accelerando nel mondo, aveva bisogno di una nuova parola: così
adottarono il termine “landscape” (paesaggio) per definire
i posti che vedevano scorrere dal finestrino dello scompartimento,
senza posarci il piede. Gli orari dei treni hanno introdotto il
minuto nella società, scandendo il tempo dei passeggeri con il
rumore del motore. La velocità ha sostituito il ritmo con un rumore
cadenzato. Voi ora volete attenuare questo trasferimento. Io invece
esploro le zone di esperienza trascurate e senza velocità. Non
cerchiamo una fuga dalla prigione dell’alta velocità verso un
mondo di repressioni meno seccanti; domandiamo se e dove l’ombra
della velocità può essere evitata del tutto.
Quando cantiamo o suoniamo musica dal
vivo, la velocità si attenua. Non ci stringe nella sua presa, e noi
non sentiamo il bisogno di controllarla. È il ritmo a prendere il
sopravvento. Quando leggo gli esametri entro nella loro cadenza,
perché so bene che il ritmo è stato imposto alla poesia antica
soltanto dopo il 1630 da studiosi zelanti. La velocità è in
conflitto con la vita.
Per gente come noi, la velocità è un
crudo esempio di congerie storica gratuitamente attribuita
alla natura. Viene fuori da una brama senza corpo che giace più in
profondità rispetto alle principali fondamenta del mondo moderno: il
bisogno di un adeguato trattamento istituzionale per il crimine,
l’istruzione, la corsa alla ricchezza, le assicurazioni.
L’odierno Pantheon è abitato da
questi dei, che governano il mondo moderno. Ma la velocità si trova
in una zona oscura al di sotto di essi, dove i greci mettevano i
titani, creature potenti che facevano nascere le divinità.
Per quanto riguarda la velocità, mi sento nichilista. Quando Galileo
propose di studiare l’attrazione gravitazionale su un piano
inclinato, e Keplero la applicò per calcolare il movimento delle
sfere celesti su traiettorie ellittiche, rivoluzionarono la fisica.
Meravigliarono i loro contemporanei proprio come è capitato ai
fisici quantistici 300 anni più tardi. Dovevano liberare il
ticchettio del tempo dal flusso della temporalità, e staccare lo
spazio astratto dal qui e ora, mentre noi cerchiamo soltanto di
goderci la vita con i nostri amici. Ho cercato di vivere come un
pellegrino, facendo un passo dopo l’altro, entrando nel mio tempo,
vivendo all’interno del mio orizzonte, che spero di raggiungere
sempre con il passo, il sorprendente passo, che si compie per morire.