Da decenni gli scienziati avvertono che
le attività antropiche stanno avendo un impatto distruttivo sugli
ecosistemi. È in atto “una devastazione dello spazio vitale”,
denunciò nel lontano 1974 Konrand Lorenz (Gli otto peccati capitali
della nostra civiltà). I cambiamenti climatici sono solo uno dei
sintomi di stress della biosfera. Nemmeno il più grave. Johan
Rockstrom, direttore dello Stockholm Resilience Centre, ha
individuato nove principali indicatori dei “servizi ecosistemici”
che reggono i cicli vitali del pianeta. I più compromessi sono la
biodiversità, i cicli del fosforo e dell’azoto per la fertilità
dei terreni, l’uso del suolo, l’acidificazione degli oceani (cfr.
Planetary Boundaries. Exploring the Safe Operating
Space for Humanity: www.ecologyandsociety.org/vol14 /iss2/art32/). Ma
non è il caso di stabilire gerarchie e priorità. È noto che in
natura tutto si tiene, è correlato, interdipendente. L’enciclica
Laudato si’ di papa Francesco fornisce in modo esemplare le prove
di questa realtà: “Per il buon funzionamento degli ecosistemi sono
necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i
rettili e l’innumerevole varietà di microrganismi” (LS 34).
Poiché “Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del
pianeta” (LS 2).
La green economy:
un’illusione?
Non è la prima volta che il mondo
scopre la crisi ecologica. È almeno dal 1972 (Conferenza Onu di
Stoccolma, con la Dichiarazione sull’ambiente umano) che viene
introdotto il concetto di eco-sviluppo, poi trasformato in sviluppo
sostenibile.
Alla base del nuovo credo c’è la
convinzione che lo sviluppo (misurato in termini monetari con il Pil)
possa continuare ad avere un andamento positivo mentre si riducono
gli impatti negativi sugli ecosistemi. La parola magica che usano
economisti e tecnocrati è decoupling. Il miracolo del
disaccoppiamento avverrebbe grazie alle nuove tecnologie (digitali e
green) capaci di dematerializzare il Pil, diminuire l’impronta
ecologica delle attività umane. Ma le risposte fin qui date sono
negative. Il bilancio globale di materia ed energia impegnate nei
cicli produttivi continua a crescere.
Il decoupling è un’illusione se non
un vero e proprio inganno. Ad affermarlo – da ultimo – è una
fonte non sospetta, l’European Environmental Bureau (composto da
143 organizzazioni di 30 paesi) con il rapporto Decoupling Debunked.
Evidence and arguments against green growth as
sole strategy for sustainability, luglio 2019
(https://eeb.org/decoupling-debunked1/).
Già nel titolo l’ipotesi decoupling viene, letteralmente,
“smascherata”. A seguito di una rigorosa indagine sulle premesse
teoriche e sugli effetti pratici del decoupling, gli autori del
rapporto giungono alla conclusione che “non ci sono prove empiriche
evidenti a sostegno dell'esistenza di un disaccoppiamento della
crescita economica dalle pressioni ambientali”, almeno in scala, in
un arco temporale e nelle dimensioni richieste per fermare il degrado
ambientale in atto. Ciò non significa che non siano utili le
strategie volte ad aumentare l'efficienza dei processi economici,
diminuire gli sprechi, riciclare, recuperare materie ecc., ma rimane
il fatto che il disaccoppiamento da solo, senza “il
ridimensionamento diretto della produzione economica in molti settori
e una riduzione parallela dei consumi […] non è stato e non sarà
sufficiente a ridurre le pressioni ambientali nella misura
necessaria”. È vero che l’“intensità di materia”
incorporata in unità di Pil nei paesi ricchi è migliorata, ma nel
complesso negli ultimi 40 anni le materie prime usate sono triplicate
(circa 9 tonnellate pro-capite l’anno in media). Ciò perché
spesso l’aumento di efficienza dei macchinari si traduce in
un’aggiunta di merci immesse sul mercato (“effetto rimbalzo”,
secondo il paradosso già individuato un secolo e mezzo fa
dall’economista William Stanley Jevons). Altre volte si tratta solo
di uno spostamento dei problemi da una matrice ambientale ad
un’altra, da una materia prima in esaurimento ad un’altra (vedi
la richiesta crescente degli elementi chimici contenuti nelle “terre
rare”, il “nuovo petrolio” necessario per apparati elettronici
sempre più sofisticati (cfr. Guillaume Pitron, La guerra dei metalli
rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, 2019),
da una regione del mondo ad un’altra attraverso la delocalizzazione
delle produzioni più sporche in paesi con minori protezioni
ambientali. Vere e proprie forme di neocolonialismo economico.
La green economy, insomma, sarebbe una
“fantasia distraente”. “Per invertire le crisi climatica e
della biodiversità, bisogna porre in essere un ridimensionamento
diretto della produzione e del consumo nei paesi più ricchi. In
altre parole, invertire le priorità: dall’efficienza alla
sufficienza, con la seconda posta davanti alla prima”. Dello stesso
parere molti altri analisti e commentatori, come George Monbiot
(Green growth is an illusion, in “The Guardian”, 25 aprile 2019).
Riconciliare l’economia
con il pianeta
Nel quadro della catastrofe climatica
in corso, non più ignorabile, la presidente della Commissione
europea Ursula Von der Leyen ha annunciato l’European Green Deal,
per “riconciliare l’economia con il pianeta”. Da tempo non si
contano le dichiarazioni a favore della riconversione degli apparati
energetici, produttivi, infrastrutturali, edilizi e domestici, verso
una loro maggiore sostenibilità ambientale. Sulla scia della grande
preoccupazione che destano i cambiamenti climatici, il motto che
guida governi, presidenti e amministratori delegati delle imprese più
avvedute, economisti che si riuniscono nei circoli più esclusivi a
Davos e altrove, è: The Just Transition. Perfino gli istituti
finanziari (banche, assicurazioni, fondi di pensione), a partire
dalla Banca Europea di Investimenti, sono chiamati a orientare i
flussi monetari (cfr. la guida Initiative for Responsable Investment,
della London School of Economy) per favorire l’entrata dell’umanità
in “un’era ecologica a emissioni di carbonio vicine allo zero”,
per citare l’ultimo libro di Jeremy Rifkin (Un Green New Deal
Globale, 2019), il cantore sommo della green economy. Del resto
sembra che i risparmiatori siano contenti di scegliere prodotti
finanziari tipo Green Bond, privati e ora anche “sovrani”, di
Stato.
Da qui il proliferare di emissioni di
titoli auto-certificati Esg (Environmental Sustenaible Government),
capaci di controllare e misurare l’impatto positivo delle attività
economiche sul cambiamento climatico, sull’inquinamento, sulla
conservazione della biodiversità e delle risorse naturali. Questi
titoli esercitano un grande fascino sul mercato, poiché promettono
di “far bene all’ambiente e al portafoglio”. Sarebbero, cioè,
più redditizi e meno rischiosi di quelli ordinari. Da qui l’attesa
che analisti e tecnocrati dell’Ue definiscano una “tassonomia”
(è questo il termine che usano) ufficiale delle attività
eco-compatibili meritevoli di essere alimentate dalla finanza
sostenibile, per evitare la proliferazione di “bollini” con il
rischio di creare delle bolle speculative o vere e proprie truffe.
Tra mercato e natura: una
contraddizione insuperabile?
Per quale motivo lo sviluppo
sostenibile (nelle sue varie forme e declinazioni: green economy,
economia circolare, green new deal ecc.) non produce i risultati
desiderati, alla scala e nei tempi necessari?
La ragione è che al fondo vi è una
contraddizione logica e strutturale insuperabile tra economia di
mercato e natura. Nessuna green revolution sarà possibile senza una
trasformazione sistemica del contesto socioeconomico del profitto,
dell’accumulazione, della massimizzazione dei rendimenti economici.
La fisiologia dell’economia dei soldi è diversa da quella della
natura. I cicli economici sono diversi dai cicli bio-geo-chimici che
regolano e rigenerano la vita sulla terra. L’equilibrio tra la
conservazione delle funzioni vitali della natura e la redditività
dei capitali investiti non è detto che lo si possa trovare mediando
al centro.
Non sempre esistono soluzioni win-win.
Anche questo è stato scritto con lucida determinazione da Bergoglio:
“Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura
con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il
progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo
ritardo nel disastro” (LS 194). Con buona pace dei sostenitori
della green economy, delle smart cities e degli altri business verdi,
Francesco sferra una spallata definitiva all’ambigua parola
d’ordine della “crescita sostenibile” che tiene banco nelle
agenzie dello sviluppo economico (cfr. LS 194). “Quando si parla di
‘uso sostenibile’ bisogna sempre introdurre una considerazione
sulla capacità di rigenerazione di ogni ecosistema nei suoi diversi
settori e aspetti” (LS 140).
La valutazione degli impatti ambientali va svolta seriamente. Il
principio di precauzione va applicato rigorosamente. Non ci può
essere compromesso tra i valori intrinseci degli esseri viventi
(tutti: piante e animali non umani compresi) e loro valorizzazione
economica, monetaria. Il capitalismo non è nient’altro che un
progetto di progressiva, permanente cattura e dominazione globale da
parte di una piccola élite dell’umanità su ogni forma di vita
esistente. Una vera e propria guerra alla natura e di sottomissione
dei più deboli.