Giorgio Nebbia era tanto entusiasta
dell’innovazione tecnologica se orientata secondo giustizia, quanto
ironicamente disincantato nello sviscerare i lati oscuri, gli
imbrogli di quelle che lui chiamava “trappole tecnologiche”. E in
queste trappole, temo, si possa incappare sulla via dell’economia
circolare.
Non ci si deve illudere che essa possa
annullare l’estrazione di risorse ed energia dalla natura e
l’immissione nella stessa di scarti, gas tossici, rifiuti, e che
sia risolutiva dell’attuale crisi ecologica. Il grafico dei flussi
di materia in mille miliardi di tonnellate per l’anno 2016 nell’Ue
rende bene quanto poco incida l’economia circolare, nonostante gli
sforzi di decenni per il contenimento e il riciclo dei rifiuti (vedi
grafico nella pagina a fianco).
L’economia circolare potrebbe ridurre
il carico distruttivo dell’attuale sistema termoindustriale solo se
la quantità netta di materia/energia che ogni anno si ricicla in più
nel sistema produttivo fosse superiore agli incrementi totali di
energia/materia impiegata dal sistema economico in quell’anno.
Altrimenti ci si illude di esser virtuosi, ma i prelievi dalla natura
e le immissioni inquinanti continuerebbero ad aumentare, ed è
esattamente quanto avvenuto fino ad oggi.
Se guardiamo ai decenni che l’umanità
ha sprecato dopo la “primavera ecologica” di inizio anni ‘70,
non c’è da stare tranquilli: il sistema economico dominante si è
adattato con operazioni di cosmesi di facciata, il green washing, per
cui tutte le produzioni più inquinanti si sono impossessate di
prefissi o suffissi, eco, green, e ha coniato le formule “sviluppo
sostenibile”, green economy al fine di cambiare tutto perché nulla
cambi.
Emblematica fu la “svolta” dello
sviluppo sostenibile patrocinata alla Conferenza Onu di Rio ‘92, da
Stefhan Schmidheiny, magnate svizzero di Eternit, responsabile della
devastazione ambientale del cemento-amianto in mezzo mondo,
principale ispiratore di quel summit mondiale sull’ambiente, e che
di lì a poco darà vita alla Fondazione che avrebbe dovuto guidare
gli imprenditori in questo percorso virtuoso, il World Business
Council for Sustainable Development, diventando così un leader verde
rispettato dalla comunità internazionale.
In questa prospettiva il sistema oggi
può far rientrare nell’economia circolare persino la produzione
delle armi, per cui nella “Futura Exa” di Brescia, patria della
Beretta, “in linea con la tradizione territoriale, anche il
comparto armiero avrà la sua rappresentazione con focus sulle
pratiche venatorie e i concetti di selvatico-naturale-spontaneo
osservati dall’inedita prospettiva culturale per cui l’uomo
assume il ruolo di custode della natura, osservatore diretto e
privilegiato di questioni critiche e cambiamenti relativi alle specie
animali e del paesaggio” (F. Pacella, Brescia capitale
dell’economia circolare, in “Il Giorno”, 29 ottobre 2019).
Dunque occorre raddrizzare al massimo
le antenne perché l’economia circolare non abbia gli esiti delle
precedenti formule coniate dal sistema, come sviluppo sostenibile e
green economy.
La prima trappola da evitare è
l’illusione che questa formula abbia la proprietà magica di
mantenere intatto l’attuale flusso di prelievo di materia ed
energia non rinnovabile e di successiva dispersione di inquinanti
nell’ambiente. Poiché la natura non offre pasti gratis non c’è
modo di sfuggire alla fondamentale scelta che consigliava Giorgio
Nebbia, se si vuole lasciare qualcosa all’umanità futura: occorre
passare dall’economia dell’abbondanza a quella dell’abbastanza,
ovvero l’unica merce o energia sostenibile per l’ambiente è
quella che non consumiamo. Dopodiché c’è il “piccolo”
problema di un sistema capitalistico di mercato che vive sull’aumento
dei consumi all’infinito!
La seconda trappola è illudersi che vi
possano essere soluzioni tecnologiche mirabolanti, finalmente
risolutive della crisi ecologica. Vale la pena accennare a qualche
esempio. I veicoli elettrici, per certi aspetti meno inquinanti nelle
aree urbane, presentano notevoli problemi di impatto ambientale nel
loro ciclo di vita. Le fasi di produzione richiedono una vasta gamma
di materie prime a confronto di quelle necessarie per la produzione
di un veicolo termico.
Per la realizzazione delle batterie
occorrono ad esempio grandi quantità di metalli tra cui il rame
(circa 4 volte superiori ad un veicolo tradizionale), allumino ed
acciaio oltre a materie critiche così classificate per importanza
economica e per il rischio di approvvigionamento come ad esempio il
tungsteno, il cobalto, il litio, la grafite, oltre alle terre rare. I
giacimenti di estrazione delle materie critiche e terre rare sono
principalmente in Africa e Asia, dove sono deboli o del tutto assenti
le garanzie per la salute dei lavoratori a cui si aggiunge una scarsa
o nulla attenzione nei processi di estrazione, lavorazione e
raffinazione. Ciò comporta nei siti la contaminazione delle acque,
causando inquinamento delle sorgenti di acqua potabile delle comunità
locali, aumentandone l’esposizione ai rischi di radioattività e
alle malattie delle vie respiratorie. Senza contare le energie, di
fatto fossili, necessarie alla loro estrazione con macchinari,
bulldozer e camion e quelle, di nuovo fossili, oggi indispensabili a
produrre l’energia elettrica necessaria.
Ma immaginiamo di applicare la
transizione elettrica ai miliardi di veicoli oggi in funzione: dove
trovare materie critiche e terre, appunto, rare a sufficienza? Ecco
allora la soluzione: l’idrogeno e le celle combustibili offrono
energia elettrica pulita, con innocue emissioni di vapore acqueo.
L’idrogeno funzionerebbe come accumulatore di energia in
alternativa alle batterie. Già, ma l’idrogeno non è presente in
natura se non associato in molecole più complesse, come nel caso
dell’acqua o del metano. Non consideriamo quest’ultimo in quanto
fossile, ma per ricavarlo dall’acqua con le celle elettrolitiche
occorre una grande quantità di energia elettrica, che a sua volta va
prodotta. Con i combustibili fossili? Saremmo da capo. Con il solare,
che, però, è sì abbondante ma disperso sulla superficie terrestre,
difficile da catturare, trasportare e concentrare in grandi quantità
nelle attuali strutture produttive progettate per i combustibili
fossili. Insomma il percorso è davvero impegnativo.