Per la prima
volta nella storia, la specie umana si trova a un punto di non
ritorno, che può essere avvicinato o allontanato a seconda del
comportamento economico, politico e sociale dei singoli, delle
comunità, dei governi, degli attori politici ed economici. L’umanità
è a un bivio e deve assumersi la responsabilità della propria
salvezza o perdita. Riconoscere il valore ecosistemico delle risorse
e dei beni ambientali – senza mai mercificare la natura né
confondere economia del denaro ed economia della natura – è
decisivo.
Nell’emergenza che si va creando, tre
parole sono venute alla ribalta in tutta la loro potenza evocativa,
ma anche nella loro ambiguità: resilienza, sostenibilità, economia
circolare; una “tripletta vaga” che si stende ancora una volta a
copertura di un conflitto di classe rinnovato, entro il quale il
capitale non si trova in opposizione solo al lavoro, ma all’intera
biosfera.
Scardinare l’attuale
sistema economico
È sorprendente come la cultura in
generale (e con essa l’opinione pubblica) sia rimasta distratta di
fronte alla crescita contemporanea, a partire dalla metà del secolo
scorso, di una scienza che, da una parte, metteva al centro la
chiusura dei cicli naturali (l’economia della natura) e,
dall’altra, lo sbilanciamento tra radiazione solare e assorbimento
di calore da parte dei gas climalteranti (effetto serra). L’enorme
conoscenza accumulata nei due campi veniva completamente rimossa
dall’attenzione spasmodica alla crescita, che ha dominato tutta la
seconda metà del Novecento, fino a proiettarsi sul nuovo millennio.
Eppure, le ricerche di Mumford, Carson, Marcuse, Georgescu-Roegen e
Nebbia, da una parte, e quelle di Arrhenius, Schroedinger, Callendar,
Kaplan e Randall, dall’altra, chiarivano già come fossero
l’entropia e l’assorbimento quantico a caratterizzare il
comportamento della natura a dispetto della pretesa di dominio del
genere umano. Ma il negazionismo dei governanti e il rifiuto degli
economisti a riconoscere l’autonomia della natura hanno ostacolato
la verità e forgiato concetti solo allusivi della crisi ambientale,
così da marginalizzare il concetto che papa Francesco ha definito
“ecologia integrale”.
Proverò a configurare quella che
dovrebbe e potrebbe essere un’economia circolare, sfatando alcune
illusioni e sottolineando alcune prerogative. Esaminerò poi in
particolare il percorso per la “fuoriuscita dai combustibili
fossili”, limitandomi al loro impiego come fonti di combustione.
Si tratta di scardinare dalle
fondamenta l’attuale sistema economico termoindustriale, basato
sulla disponibilità di grandi stock di energia termica e materia
utilizzabili in modo concentrato dove sono necessarie, per plasmare
un’economia che si affida esclusivamente all’energia di origine
solare, teoricamente abbondante, ma dispersa sulla superficie
terrestre e difficilmente accumulabile. Un conflitto aperto, che non
prevede compromessi.
Un’economia “circolare”
Secondo la Ellen McArthur Foundation
l’economia circolare (che non esiste in natura) è “un termine
generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da
sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due
tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella
biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza
entrare nella biosfera”. In pratica, sarebbe un’economia a
rifiuti zero, dove qualsiasi prodotto viene consumato e smaltito
senza lasciar traccia. Ovviamente, nell’economia circolare hanno
molta importanza le energie rinnovabili e la modularità e
versatilità degli oggetti, che possono e devono essere utilizzati in
vari contesti per poter durare il più a lungo possibile.
Per non trarci in inganno, l'economia
circolare a cui dobbiamo tendere va intesa come una combinazione di
attività di riduzione, riutilizzo e riciclo, a cui si deve
accompagnare un cambiamento sistemico, con collegamenti espliciti al
concetto di sostenibilità e giustizia sociale. Questo non avviene in
realtà: l'obiettivo principale dell'economia circolare è
normalmente considerato la prosperità economica, seguita da una
buona qualità ambientale, che non mette in discussione drasticamente
modi e rapporti di produzione.
Per aderire a concetti di sostenibilità
e circolarità, si deve rispondere ai principi della termodinamica e
reggere su base globale, non solo locale. La peculiarità di quella
che oggi, quasi mezzo secolo dopo i lavori di Commoner e Nebbia,
verrebbe riscoperta come economia circolare sta nella constatazione
che, come i cicli biologici sono chiusi e alimentati dal sole senza
depauperamento né inquinamento della biosfera, così anche i
processi dell’economia umana non dovrebbero produrre scarti, al
contrario della società basata sui fossili, che incardina cicli
lineari, aperti, sia in entrata con il prelievo irreversibile di
risorse, sia in uscita con la dispersione irreversibile di rifiuti
che inquinano l’ambiente. “Chiudere il cerchio” significa
cercare di imitare i cicli della natura e avviare processi economici
tendenzialmente circolari, meno predatori di risorse e meno
produttori di scarti. Ma tra le dichiarazioni e la realtà corre una
differenza misurata da un incontenibile aumento di entropia.
Ogni creatura vivente – afferma
Russell – si comporta come un imperialista che cerca di
appropriarsi della maggior parte possibile dell’ambiente a
vantaggio proprio e della propria discendenza. Qualsiasi economia che
organizzi la società umana, per prosperare, metabolizza risorse ed
energia libera, creando disordine (aumento di entropia) nell’ambiente
naturale circostante. Utilizza cioè questi input per produrre
l’ordine economico e sociale locale e infine li espelle come calore
e rifiuti. Anche l’organizzazione economica più efficiente (che
produce una “riduzione” relativa e locale dell’entropia), ha un
impatto sull'ambiente, che può essere misurato in base ad una
ridotta, ma mai nulla, intensità energetica, che comporta un aumento
della temperatura locale. Il contenimento dell’aumento della
temperatura può essere effettuato ricorrendo ad “azioni economiche
circolari” che rendono più efficiente lo scambio di energia,
risorse e rifiuti con l'ambiente. Mai comunque ad impatto zero.
In termini economici, le azioni sopra
accennate portano, ad esempio, a realizzare prodotti più durevoli
con maggiori possibilità di aumentare i loro tempi di utilizzo
grazie a una migliore capacità di manutenzione nella progettazione e
ad un migliore tipo di servizio in funzione. Lo stesso riciclo dei
rifiuti può contribuire a ridurre la velocità di trasferimento e
degrado delle risorse primarie dall'ambiente.
Ritardare l'esaurimento
delle risorse
In natura, gli scarti di ogni specie
sono alimento per altre, in un rapporto circolare che costituisce
l’essenza di un ecosistema. Gli esseri umani hanno invece
cominciato a produrre rifiuti, cioè scarti non direttamente
utilizzati da altre specie, fin dall’avvento dei primi insediamenti
urbani, provocando, tra l’altro, gran parte delle malattie che
hanno flagellato l’umanità. Tuttavia, la maggior parte di quegli
scarti era costituita, fino all’entrata in gioco delle fonti
fossili, da sostanze inerti oppure organiche (biodegradabili), che la
natura era in grado di inserire in un nuovo ciclo biologico. Con
l’avvento della rivoluzione industriale, l’aumento della
popolazione e della produttività hanno incrementato enormemente la
quantità di materiali di scarto e hanno portato all’introduzione
dei materiali sintetici e della civiltà dell’usa-e-getta, mettendo
all’ordine del giorno la questione dello smaltimento. Per molto
tempo si è affidato il compito della liberazione dai rifiuti ai
quattro elementi empedoclei: terra, acqua, fuoco e aria. Senza tener
conto dei limiti e della compromissione dello spazio vitale.
L’economia dello scarto, in tempi di
scarsità delle risorse, cerca ora di imporre una razionalità al
consumo e degrado di materia e energia, ma lo fa operando
prevalentemente a valle, non a monte dei processi e, quindi
scostandosi ulteriormente dalla “naturalità”.
Gli sforzi in atto sono assai più
compatibili con bilanci finanziari che con il mantenimento e la cura
della terra e dell’intero vivente. Al più si preserva e migliora
il capitale naturale controllando le scorte finite e bilanciando i
flussi di risorse rinnovabili; si ottimizzano i rendimenti facendo
circolare prodotti, componenti e materiali con la massima fruibilità
in ogni momento, sia nei cicli tecnici che biologici; si promuove
l'efficacia del sistema rivelando e riprogettando esternalità
negative. Ma non si arriva mai a un’effettiva chiusura dei cicli e
a cessare di trattare l'ambiente come insieme di risorse illimitato.
L’economia circolare, attenendosi al principio di una continua
espansione dell’economia, in definitiva non rompe con il business
as usual, né modifica alla radice il modello di vita, né i livelli
di consumo.
Occorrerebbe invece sia abbinare i
prodotti di scarto agli input senza sostanziali interventi energetici
necessari per chiudere il loop, sia far coesistere un tasso di
crescita annuale del consumo di materie prime inferiore all'1 per
cento con un tasso di riciclo molto elevato (oltre il 60-80 per
cento) al fine di ritardare in modo significativo il tasso di
esaurimento delle risorse.
Fuoriuscita dalle fonti
fossili
Provo ora a validare concetti di minimo
impatto e di “chiusura del cerchio” all’imperativo della
fuoriuscita dalle fonti fossili energetiche: combustibili che si sono
formati in un periodo di diverse centinaia di milioni di anni e che
stiamo usando da alcuni secoli, vale a dire a una velocità circa un
milione di volte superiore a quella con cui si sono formati.
Per mantenere l’aumento della
temperatura globale al di sotto di 1,5°C sono richiesti profondi
tagli delle emissioni (in Italia almeno il 55 per cento di CO2
entro il 2030 e, nel mondo, tra il 50 e l’85 per cento di tutti i
gas climalteranti, raggiungendo la neutralità delle emissioni di
carbonio entro il 2050). Un passo importante in questa direzione
verrebbe dalla chiusura delle centrali a carbone. Questo obiettivo,
già fissato in Italia al 2025 grazie alle battaglie ambientaliste, è
stato inserito tra gli “obiettivi cardine” della Strategia
energetica nazionale (Pniec), subordinandolo però alla realizzazione
di centrali sostitutive ed elettrodotti. Una condizione che porta ad
un boom di utilizzo del gas naturale per la generazione elettrica,
che potrebbe frenare l’espansione di solare ed eolico, essi sì
componenti privilegiati di un’economia circolare. Proprio la
rinuncia a rendere più inserita nei cicli naturali la produzione
elettrica, porta alla previsione di riduzione di CO2 al
2030 solo al 37 per cento, togliendo così rilevanza al phase-out dal
carbone.
Il carbone è, tra le fonti fossili per
la produzione di energia elettrica, quella che presenta maggiori
emissioni di CO2. Per ogni kilowatt prodotto dalle
centrali a carbone italiane, vengono emessi 857,3 grammi di CO2,
contro le emissioni quasi zero delle centrali solari, eoliche ed
idroelettriche, nonché i rilasci ridotti di geotermiche e biomasse.
Solo nel 2012, in Italia, le centrali a carbone hanno contribuito al
35 per cento alle emissioni di CO2, con un peso del 16 per
cento sulla produzione energetica complessiva.
Il risanamento non riguarda solo il
carbone: la maggior parte delle riserve di combustibili fossili,
compreso il gas, deve rimanere incombusta sottoterra. Ma proprio il
gas viene sostenuto e incentivato per interessi geopolitici, allo
scopo di mantenere centralizzato e lineare il sistema energetico e
impedire che la sufficienza energetica venga sostanzialmente
raggiunta con fonti rinnovabili gestite su reti territoriali, che non
inquinano, non emettono gas a effetto serra, non presentano rischi di
trasporto, sono inesauribili perché si rigenerano alla stessa
velocità con cui vengono consumate, sono diffuse e intrinsecamente a
disposizione di tutti.
Lo sviluppo di impianti da fonti
rinnovabili si inserisce in un'economia circolare e riduce la
dipendenza dai paesi produttori di petrolio, non genera disastri
ecologici o rifiuti pericolosi, non dissesta il manto terrestre e le
profondità marine con trivellazioni, piattaforme, oleodotti e
condutture. Il passaggio all’energia pulita può avvenire con la
sostituzione degli impianti produttivi oppure con la loro
riconversione, programmando in anticipo soluzioni territoriali tra
loro integrate sulla base del minimo consumo di energia e definite
con la partecipazione di tutti i soggetti che condividono le risorse
nei territori che abitano.
La questione ancora irrisolta è quella
di rendere "circolari” la costruzione e le dismissioni delle
pale eoliche e dei pannelli fotovoltaici, mentre il ciclo di vita
delle batterie elettriche presenta tutt’ora problemi irrisolti e
aspetti di pesante insalubrità e sfruttamento in miniera.
Per trasformare il sistema energetico è
anche necessario un ripensamento radicale del modo di viaggiare e di
spostare le merci. Il trasporto collettivo alimentato da fonti di
energia rinnovabile è la chiave di volta per riprogettare la
mobilità. È necessario velocizzare il passaggio all’elettrico per
tutti gli autoveicoli, privati e pubblici, in un quadro di drastica
riduzione dell’uso dell’automobile di proprietà individuale a
favore di sistemi di trasporto collettivo. Non va incoraggiato l’uso
del metano per autotrazione.
La carbon tax per
un’economia circolare
Occorre trasferire gli incentivi dalle
fonti fossili ai sistemi di produzione e risparmio energetico che
realizzano progetti cooperativi e tendenzialmente “circolari”.
Per interrompere bruscamente la combustione innaturale di petrolio,
gas e carbone, va istituita la tassa sugli idrocarburi o sulle
emissioni di CO2, con lo scopo di contenere e
disincentivare le emissioni di carbonio prodotte dalle compagnie che
operano nel settore. I paesi che nel mondo hanno già applicato
misure di carbon pricing sono 56, dei quali 10 in Europa.
In Svezia, dove la carbon tax è stata
introdotta nel 1991 con un aggravio fiscale distribuito su tutte le
tipologie di combustibili fossili (benzina, diesel, gasolio per il
riscaldamento), le emissioni di gas serra sono state ridotte del 26
per cento, mentre il Pil aumentava del 78 per cento; perché
l’inevitabile aumento del prezzo dell’energia non si riversasse
sulle persone più fragili, è stato inserito un meccanismo di
compensazione fiscale sui redditi da lavoro più bassi.
Da ultimo vorrei ricordare che vanno combattuti i “crediti di
carbonio”, certificati negoziabili che permettono alle imprese e
alle nazioni industrializzate di realizzare progetti di riduzione
della CO2 nei paesi in via di sviluppo senza vincoli di
emissione. La loro commercializzazione non intacca il volume delle
emissioni e contribuisce ad una pericolosa mistificazione: assumendo
il cinismo delle borse e dei mercati globali, l’inquinamento è
infatti diventato un capitale investibile, che vede broker senza
scrupoli speculare su prezzi e volumi, e perfino la criminalità
organizzata emettere crediti falsi o illegittimi.