Lo scorso anno l’irrompere sulla
scena mondiale di Greta Thunberg e del movimento Fridays For Future
ha riproposto all’attenzione di tutti gli abitanti del pianeta il
tema della crisi ecologica. I media l’hanno poi rilanciato con un
martellamento quotidiano fatto di denunce e di esempi virtuosi di
soluzioni a portata di mano. I milioni di giovani che hanno riempito
le piazze e che ci hanno tanto emozionato per il loro genuino
entusiasmo potrebbero sentirsi più che soddisfatti di questi
risultati. Ma il loro cammino è solo all’inizio e l’impresa di
una conversione ecologica della società umana è molto impegnativa.
Ci permettiamo, dunque, di offrire questi contributi da intendersi
come possibili strumenti di lavoro per attrezzarsi al meglio in
questa impresa. Utile ci sembra ripartire dalla “primavera
ecologica” di mezzo secolo fa, quando scienziati e ricercatori
avveduti resero evidenti all’umanità distratta la profondità
della sofferenza ambientale e la necessità di porvi rimedio per
tutelare la vita delle generazioni future. Ora è di gran moda l’idea
dell’economia circolare spesso presentata come la soluzione del
problema. Ne analizziamo, quindi, criticamente le possibili
applicazioni, considerando alcuni casi esemplari, la questione della
fuoriuscita dai fossili, la gestione dei rifiuti e di un bene simbolo
della contemporaneità, l’automobile quando viene rottamata. Il
tutto con una cornice di riflessioni che cercano di andare in
profondità: il messaggio delle recenti encicliche di papa Francesco
e l’interrogativo se l’attuale società capitalistica di mercato
sia davvero in grado di riconciliarsi con la natura.
I giovani Fridays for future (Fff)
pretendono che si agisca subito per abbandonare i combustibili
fossili e contrastare il riscaldamento globale. E la risposta
coerente è straordinariamente impegnativa: si tratta di scardinare
dalle fondamenta l’attuale sistema economico termoindustriale,
basato sulla disponibilità di grandi stock di energia termica e
materia utilizzabili in modo concentrato dove è necessaria, per
un’economia che si affidi esclusivamente all’energia solare,
teoricamente abbondante, ma dispersa sulla superficie terrestre e
difficilmente accumulabile nonché trasportabile, e alla produttività
naturale del terreno via fotosintesi clorofilliana, al netto di
quanto abbiamo cementificato, limitando nel contempo il prelievo di
minerali e metalli, solo parzialmente rinnovabili.
Un’impresa che fa
tremare i polsi
Si tratta di spazzar via, per
intenderci, tutta la megamacchina di impianti di perforazione e
prelievo di petrolio, metano, su terra o in mare, nonché di miniere
di carbone, di infrastrutture per il trasporto nei luoghi di utilizzo
(gasdotti, oleodotti, petroliere, gasiere, carri ferroviari ecc.,
che, invece, si continuano a progettare e costruire), di impianti
industriali da queste risorse dipendenti (raffinerie, petrolchimica,
buona parte dell’industria farmaceutica, metallurgia primaria ecc.)
e si tratta, ad esempio, di cancellare la “rivoluzione verde” in
agricoltura, quella che ha permesso un salto di produttività e la
crescita della popolazione, grazie ai concimi sintetici, agli
agrofarmaci e alla meccanizzazione (ovvero alla droga dei fossili) e
tornare a un’agricoltura naturale; si tratta di ridurre
drasticamente l’uso dei materiali plastici e delle fibre
sintetiche, che, sebbene bio, soffrono il limite della disponibilità
di materia vegetale, che non può essere sottratta ad altre priorità,
come l’alimentazione, l’abbigliamento e le calzature,
necessariamente solo naturali, le costruzioni civili, l’energia
ecc.; si tratta di deglobalizzare drasticamente il sistema attuale
che funziona grazie ai grandi mezzi di trasporto aereo e navale, che
non possono più essere alimentati dai fossili (il combustibile
ipotizzato per la sostituzione, l’idrogeno, non è una fonte
energetica, ma semplicemente un vettore di energia, come
l’elettricità, che dunque va prodotto, attraverso, ad esempio
l’elettrolisi dell’acqua, utilizzando dunque l’elettricità,
che però a sua volta va prodotta ecc.).
Un po’ di storia
Se ci affidiamo ai mass media, sembra
che solo ora, grazie alla denuncia di Greta, si sia scoperto che il
sistema attuale non abbia futuro e che finalmente vi sia un fiorire
di progetti eco, green, “a impatto o emissioni zero”, nature
friendly, infine che la soluzione sia vicina grazie alla nuova
formula magica dell’“economia circolare”.
È utile, allora, ripercorrere in breve
la storia della ricerca scientifica che ha evidenziato le cause
profonde della crisi ecologica, ponendo all’ordine del giorno
dell’umanità l’urgenza di fuoriuscire dal sistema
termoindustriale basato sui fossili. Si tratta di quella che il
compianto Giorgio Nebbia chiamava “primavera ecologica”, che lui
stesso ha vissuto intensamente e con un entusiasmo, mai del tutto
sopito, per il possibile cambiamento, di un periodo di straordinaria
effervescenza, iniziato circa mezzo secolo fa, e che ha avuto il suo
apice tra il 1971 e il 1972.
Nel 1971 Nicolas Georgescu-Roegen,
pubblica The entropy law and the economic process, fondando la
cosiddetta bioeconomia: la produzione industriale e l’aumento della
ricchezza monetaria sono accompagnati da un impoverimento delle
risorse naturali perché dipendono da un continuo flusso di energia:
ogni volta che l’energia passa attraverso un processo “economico”
di produzione o consumo – e ci passa sempre – la sua quantità
non cambia (per il primo principio della termodinamica), ma
inevitabilmente e irreversibilmente peggiora la sua “qualità”.
Quindi, per il secondo principio della termodinamica, per la legge
dell’entropia, l’energia che attraversa i processi economici, a
differenza di quella che attraversa i processi biologici, diventa
sempre meno disponibile in futuro, non è più in grado di fornire un
servizio uguale a quello che avrebbe potuto fornire all’inizio del
processo. Insomma, ogni volta che produciamo una Ford, o una Fiat, o
una Volkswagen, o qualsiasi altro strumento “esosomatico”, ovvero
esterno alla biosfera, con cui aumentare il nostro potere sul mondo
circostante, noi distruggiamo irrevocabilmente una quota di natura
disponibile per l’uomo e contribuiamo a peggiorare le condizioni di
vita attuali e addirittura a diminuire il numero di vite umane del
futuro: lo sviluppo economico ottenuto grazie all’abbondanza di
beni materiali e merci può essere utile per noi, ma, a lungo andare,
è contro l’interesse della specie umana nel suo complesso.
Giorgio Nebbia e il Club
di Roma
Nel 1971, Giorgio Nebbia, dalla cui
immensa opera di divulgazione scientifica ho attinto per questa nota,
all’Università di Bari, nella Facoltà di economia, istituisce il
primo corso in Italia di Ecologia.
Poco dopo, nel 1972, viene reso
pubblico dal Club di Roma, animato da Aurelio Peccei, il rapporto
commissionato al System dynamics group del Massachutess Institute of
Technology (Mit), I limiti dello sviluppo. Un rapporto per il
progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità. I ricercatori
del Mit, incaricati da Peccei, posero per la prima volta in maniera
chiara e documentata il problema dei limiti della crescita
esponenziale dell’economia mondiale sul versante sia delle risorse
naturali non rinnovabili, sia dell’inquinamento indotto
nell’ambiente. L’umanità veniva richiamata con forza alla realtà
di un “mondo finito” con cui doveva prima o poi fare i conti e
cercare di ricostruire uno “stato di equilibrio globale” con il
pianeta che l’ospitava.
In quello stesso anno, 1972, davvero
cruciale per l’affermarsi di una cultura ecologica, il 6 giugno si
realizza a Stoccolma la 1a Conferenza sull’ambiente delle Nazioni
Unite, in cui i governi di tutti i paesi furono invitati a definire
una nuova politica capace di soddisfare i bisogni umani nel rispetto
delle leggi della natura.
Il cerchio da chiudere
Nel 1972 viene pubblicata in Italia la
riflessione sviluppata l’anno prima dal biologo americano Barry
Commoner, Il Cerchio da chiudere, che metteva in rilievo come le
scelte produttive e di consumo della minoranza che abitava i paesi
industrializzati spezzassero i cicli chiusi in equilibrio della
natura: sia sottraendo quantità eccessive di risorse che la natura
non era in grado di ricostituire, sia turbando quegli equilibri
immettendo in ambiente inquinanti che la natura stessa non riusciva a
“digerire” e degradare. Dunque potremmo considerare quest’opera
la base teorica di quella che oggi, quasi mezzo secolo dopo, verrebbe
riscoperta come “economia circolare”. In sostanza Commoner
constatava che i cicli biologici erano chiusi, alimentati dal sole,
senza depauperare né inquinare con rifiuti la biosfera, mentre i
processi dell’economia umana della società termoindustriale,
basata sui fossili, erano lineari, aperti, sia in entrata con il
prelievo irreversibile di risorse, sia in uscita con la dispersione
irreversibile di rifiuti inquinanti in ambiente. “Chiudere il
cerchio” significava cercare di imitare i cicli della natura e
avviare processi economici circolari, meno depredatori di risorse e
meno inquinanti. Commoner, inoltre, formulava 4 leggi fondamentali
dell’ecologia: 1) ogni cosa è connessa con qualsiasi altra; 2)
ogni cosa deve finire da qualche parte; 3) la natura è l'unica a
sapere il fatto suo; 4) non si distribuiscono pasti gratuiti. “In
ecologia, come in economia, non c’è guadagno che possa essere
ottenuto senza un certo costo. In pratica, questa quarta legge non fa
che sintetizzare le tre precedenti”.
Da tutto ciò si ricava che non vi è
attività economica umana a “impatto zero”, ma semmai a maggior o
minor impatto, e che risulta evidente la “contraddizione fra le
leggi dell’ecologia, che vietano una crescita all’infinito degli
individui e delle cose in un ambiente di dimensioni limitate, e
quelle dell’economia le quali prescrivono che gli indicatori del
benessere, il principale dei quali è il Pil, devono crescere
continuamente, di tanto percento all’anno” (Nebbia 2007).
Mezzo secolo dopo l’Ue
Mezzo secolo dopo, l’Ue, riprendendo
il messaggio di Commoner (v. box a fianco), ha lanciato la strategia
dell’economia circolare, assunta sul piano globale dal Ghota
dell’economia a Davos tre anni fa. Un pacchetto di proposte che
vorrebbe “chiudere il cerchio del ciclo di vita del prodotto
attraverso il maggiore utilizzo del riciclaggio e del riuso, a
vantaggio dell'ambiente e dell'economia. L'obiettivo è sfruttare al
massimo tutte le materie prime, i prodotti e i rifiuti per prelevarvi
risorse al meglio, risparmiare energia e ridurre le emissioni di gas
serra” (Ue 2015).
Le intenzioni sembrano buone, ma, come vedremo, non sempre le
pratiche sono coerenti con i propositi dichiarati.