Il 23 settembre 2019 Edoardo Salzano ci
ha lasciato.
Ha passato il testimone a noi, sue e
suoi allievi, amici e compagni, lettori e collaboratori. Tocca a noi,
ora, proseguire sulla strada che ci ha indicato: combattere, con
l’arma della critica, impietosa e sapiente, la privatizzazione del
governo delle città e dei territori; elaborare e raccogliere
proposte per uscire dalla crisi ambientale, sociale e politica;
analizzare e comunicare, con chiarezza e liberi da vincoli, le
distorsioni del sistema estrattivo e distruttivo che mette a
repentaglio i beni comuni e la vita sul pianeta; accogliere le
istanze degli ultimi nelle opulente città europee.
Per ricordarlo pubblichiamo il saggio
che apre il libro di critica collettiva Consumo di luogo.
Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna
(2017, a cura di Ilaria Agostini). Il saggio è una brillante sintesi
di sette decenni di urbanistica raccontati attraverso alcune tappe
fondamentali, dalla vocazione sociale della disciplina, fino alla
capitolazione del controllo pubblico sulle trasformazioni urbane e
territoriali.
Coraggio Eddy, noi ci siamo!
***
I grandi tornanti della
storia dell’urbanistica italiana
Edoardo Salzano
A differenza che negli altri settori il
fascismo non aveva lasciato una cattiva eredità in materia
urbanistica. Nel 1942 era stata approvata la prima legge urbanistica
italiana (legge Gorla). La pianificazione del territorio era
univocamente affidata alla mano pubblica, alla quale era addirittura
affidata la possibilità di trasferire dal privato al pubblico le
aree d’espansione previste dai piani mediante esproprio (art. 18).
L’attenzione era polarizzata sulle aree urbane e la loro
espansione, ma c’erano già qualche norma e qualche esperienza
della possibilità di affrontare problemi di area vasta
I primi anni della Repubblica,
trovarono i governanti di fronte a due problemi: la ricostruzione
delle opere distrutte dalla guerra e la trasformazione dell’economia
e della società, da prevalentemente agricole a prevalentemente
industriali. Ciò avrebbe richiesto il massimo ricorso a una visione
e a un governo fortemente programmato delle trasformazioni –
soprattutto di quelle territoriali – come era proposto dalla CGIL
guidata da Giuseppe Di Vittorio.
Invece si fece la scelta opposta. La
prevalenza degli interessi espressi dall’alleanza delle forze
moderate (DC e PLI) e degli USA (il piano Marshall) spinsero a
lasciare il massimo spazio allo spontaneismo negli interventi, e a
utilizzare lo sviluppo sfrenato (senza freni) dell’attività
edilizia come molla dello sviluppo. Conseguenza immediata, quel tanto
di pianificazione che la legge del 1942 prescriveva fu accantonato:
l’efficacia della legge fu sospesa ope legis.
I danni di questa scelta divennero
presto evidenti: l’abbandono delle zone interne e collinari e il
sovraffollamento (di persone e di volumi edilizi) di quelle costiere
e pianeggianti; congestione crescente ed espansione sgovernata delle
città maggiori e delle aree scelte dalle industrie private;
asservimento clientelare ai giochi di potere dell’industria di
Stato.
La crescita del disagio urbano e la
riduzione dell’efficienza dello stesso sistema produttivo incisero
sempre più profondamente. Le componenti più “moderne” e
lungimiranti del ceto politico (da Ugo La Malfa a Ezio Vanoni a
Giacomo Mancini) e dello stesso mondo industriale (da Gianni e
Umberto Agnelli ad Adriano Olivetti) ne assunsero consapevolezza.
Nello schieramento politico nacque il centro-sinistra. E fu dal cuore
stesso del moderatismo (la DC) che nacque la più avanzata proposta
di legge urbanistica che sia stata prodotta (la proposta Sullo del
1962), che prevedeva l’estensione a tutto il territorio
urbanizzabile quell’esproprio che la legge Gorla aveva introdotto e
nel periodo successivo era stato applicato in Italia da due soli
comuni.
Contro una legge così avanzata la
proprietà immobiliare scatenò una virulenta campagna di stampa. Lo
stesso partito di cui Sullo era stato un fondatore sconfessò la
proposta, e di riforma urbanistica non si parlò più per molti anni.
Ma il territorio, maltrattato, si
ribella. Una serie di disastri si manifestò. I più drammatici ed
evidenti accaddero nel 1966. Il primo fu il crollo di un intero
quartiere ad Agrigento nel luglio; poi l’alluvione a Firenze e a
Venezia nel novembre, eccezionalmente piovoso. Ad Agrigento una frana
improvvisa, causata da un carico edilizio spropositato (e, si scoprì
dopo, largamente illegittimo) accumulato in pochi anni su un terreno
notoriamente fragile fece crollare a valle l’intera parte
occidentale della città. A Firenze l’esondazione dell’Arno e a
Venezia il congiunto effetto dell’alluvione prodotta dai fiumi e
dell’irruzione dell’acqua dal mare alla Laguna minacciò di
travolgere le intere parti antiche delle due città. Enorme fu la
reazione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e delle
istituzioni.
Riprese il dibattito sulla riforma
urbanistica. Ma non c’era tempo di aspettarne l’esito. Un
intelligente ministro ai lavori pubblici, Giacomo Mancini, presentò
e fece approvare dal Parlamento una legge urbanistica “ponte”,
per rimettere nelle mani di istituzioni consapevoli la pianificazione
del territorio. La legge, approvata il 6 agosto 1967, stabiliva
l’obbligatorietà della pianificazione comunale generale, nuove
regole per la pianificazione attuativa – particolarmente rigorosa
per quella d’iniziativa privata – e l’introduzione dell’obbligo
di vincolare nei piani adeguate dotazioni di spazi pubblici per le
attrezzature d’interesse collettivo (standard urbanistici),
demandando la loro specificazione a un successivo decreto
ministeriale.
La società e le istituzioni più
avvedute non erano rimasti inerti negli anni della vittoria dello
spontaneismo e dello scatenarsi del boom edilizio. Due eventi
meritano di essere ricordati, l’uno sul versante sociale l’altro
su quello istituzionale
L’ingresso massiccio delle donne nel
mondo del lavoro extra casalingo aveva fatto maturare la necessità
di sopperire con istituzioni collettive a una parte delle attività
svolte nelle mura domestiche. In questo quadro l’UDI-Unione Donne
Italiane promosse una campagna per l’inserimento di spazi e servizi
pubblici nella pianificazione urbanistica.
In molti comuni del centro nord
(soprattutto, ma non solo, nelle “regioni rosse”) si adottarono
correttamente gli strumenti della pianificazione urbanistica.
Esemplare il caso dell’Emilia-Romagna. In quest’area, prima
ancora che fossero istituite le Regioni si concretò un coordinamento
volontario dei comuni, mediante la costituzione della “Consulta
urbanistica dell’ER”. I comuni in cui prevalevano maggioranze di
sinistra uniformavano i loro piani alle regole dettate dalla Consulta
(massimo contenimento delle espansioni, ampia dotazione di standard
urbanistici).
Nel 1968 fu approvato il decreto che
prescriveva la quantità e le caratteristiche degli spazi che,
previsti nei piani urbanistici, dovevano essere acquisiti alla
proprietà pubblica per essere utilizzati per gli spazi e
attrezzature collettive necessari per le diverse esigenze degli
abitanti: dalla salute allo sport, dalla formazione alla ricreazione,
dalla cultura all’amministrazione. Nella discussione nelle diverse
sedi tecniche e politiche furono decisivi gli esempi forniti
dall’Emilia-Romagna.
Regresso e progresso furono le due
spinte opposte che si manifestarono negli anni successivi. Alcune
sentenze costituzionali e un grande sciopero generale nazionale per
la casa, i trasporti e la riforma urbanistica (novembre 1969) furono
i primi eventi. A essi seguirono le bombe a Roma, Milano, Brescia
(dicembre 1969) e l’avvio della “strategia della tensione”.
Nuove positive leggi furono emanate su aspetti rilevanti ma parziali
della questione, ma il segno dominante di quegli anni fu un lento
decadimento di quel tanto di buongoverno del territorio che si era
raggiunto.
Gli interessi minacciati dalla spinta
al progresso avevano trovato gli strumenti per aggirarne i risultati.
La decadenza culturale e morale della politica fu all’origine di
una nuova procedura delle decisioni sulle trasformazioni del
territorio: la contrattazione tra decisori politico-amministrativi e
interessi immobiliari. Questa procedura, che venne definita
“urbanistica contrattata”, fu svelata (tra le altre forme e modi
criminosi adottati dal sistema dei partiti) dalla benemerita indagine
“Mani pulite”. Tangentopoli fu svelata, ma non colpita. La
sostituzione ai poteri pubblici dei poteri privati del mondo
dell’immobiliarismo e della finanza proseguirono in forme via via
più raffinate e devastanti. Il culmine fu la Legge Lupi. Questa
aveva avuto la sua anticipazione in un’iniziativa milanese: il
documento Costruire la grande Milano (2002) nel quale si proponeva di
sostituire ai classici strumenti di pianificazione un procedimento
basato sulla contrattazione da parte dell’amministrazione di
progetti immobiliari presentati dai diretti interessati. Padrino
della proposta era Maurizio Lupi, più tardi autore della legge che
costituì (fino al disegno di legge emiliano-romagnolo) il punto più
chiaro (e indecente) dell’abbandono della pianificazione
urbanistica come strumento essenziale del governo pubblico del
territorio.
Della legge Lupi mi limito a ricordare
due elementi: la sostituzione degli «atti autoritativi», e cioè
della normale attività pubblica di pianificazione, con «atti
negoziali con i soggetti interessati». Un diritto collettivo
verrebbe dunque sostituito con la sommatoria di interessi
particolari: prevalenti, quelli immobiliari; la soppressione
dell’obbligo di riservare determinate quantità di aree alle
esigenze di verde, servizi collettivi e spazi di vita comuni per i
cittadini. Gli standard urbanistici sarebbero infatti sostituiti
dalla raccomandazione di «garantire comunque un livello minimo» di
attrezzature e servizi, «anche con il concorso di soggetti privati».
La legge Lupi fu presentata nel 2003,
approvata dalla Camera dei Deputati nel 2005, pesantemente criticata
in tutte le sedi qualificate, felicemente insabbiata al Senato, e non
ottenne mai l’approvazione definitiva. Riemerge adesso – nella
pienezza dei suoi contenuti, e con la mascheratura retorica della
lotta al consumo di suolo – grazie al tradimento degli eredi del
buongoverno urbanistico. E nasce non solo come strumento di
scriteriato governo del territorio di questa regione, ma come modello
per tutte le regioni italiane, o per una futura legge nazionale.
Riflettendo sul passato possiamo dire in conclusione che si tratta di
un ritorno non solo alla legge Lupi o al terreno melmoso di
Tangentopoli, ma addirittura alle logiche dello spontaneismo e delle
briglie sciolte sul collo degli interessi immobiliari, che
devastarono l’Italia quasi un secolo fa.