Giorgio Nebbia, La terra brucia. Per
una critica ecologica al capitalismo, a cura di Lelio De
Michelis, Milano, Jaca Book, 2020.
“Il passato è prologo”, aveva
scritto Giorgio Nebbia, che ci ha lasciato a luglio dello scorso
anno. Il passato è cioè prologo - è nell’etimologia della parola
- del presente e del futuro; e ciò che accade oggi e che accadrà
domani - il cambiamento climatico e la crisi ambientale, strettamente
connessa con quella sociale - hanno un legame indissolubile con
ciò che abbiamo fatto ieri (sfruttare la natura e l’uomo oltre
ogni limite, secondo una razionalità solo
strumentale/calcolante-industriale che ha razionalizzato
l’irrazionale, cioè il sistema capitalistico) e con ciò
che non abbiamo fatto (ad esempio, cogliere la crisi ambientale
esplosa negli anni ’70 del secolo scorso per iniziare subito a
uscire da questa irrazionalità sistemica ed egemonica - e anche il
Club di Roma ci ammoniva a ricordare che ci sono dei limiti alla
crescita infinita).
Ricordiamoci dunque che il passato è
prologo dell’oggi e soprattutto del domani: era l’invito -
scientifico ma soprattutto umanistico - di Giorgio Nebbia. Che ce lo
ricorda anche in questo suo ultimo libro, anche se postumo, La
Terra brucia, appena uscito per Jaca Book nella Collana
Dissidenze, con testi editi e inediti di Nebbia (tra cui un
interessantissimo intervento al congresso del Pci del 1983), una
Introduzione scritta da Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti,
una Biografia curata da Luigi Piccioni (che ha raccolto anche
un Carteggio tra Nebbia e Dario Paccino) e una Postfazione di
Lelio Demichelis, che cura la Collana. Un testo voluto per ricordare
(e per ringraziare) doverosamente Nebbia, ma anche - attraverso
Nebbia - il suo pensiero, le sue riflessioni, la sua azione nel campo
dell’ambientalismo, per ricordarci di non dimenticare che la
crisi ambientale di oggi ha, appunto, una storia antica, come l’hanno
l’ecologia e l’ecologismo. Un testo - infine - che chi ha voluto
questo libro offre anche o soprattutto come vademecum o come
livre de chevet ai giovani del movimento che si rifà a Greta
Thunberg. Per non dimenticare, appunto. E soprattutto per
ricordarsi di non dimenticare.
Ma noi invece dimentichiamo in fretta
il passato (e la pandemia rischia di farci dimenticare la crisi
climatica, aggravando la crisi sociale), siamo portati a
semplificare, siamo infantilmente affascinati dal nuovo o da
ciò che il sistema delle merci ci offre e ci fa credere come nuovo
per sostenere la sua irrazionalità fatta di
produzione-consumo-produzione-consumo … secondo quel principio
di riproduzione ben analizzato da un filosofo della tecnica come
Günther Anders, per cui il sistema deve produrre merci per il
proprio profitto, ma poi deve produrre consumatori che le
consumino, senza sosta e sempre di più (sempre per il proprio
profitto).
E in questi ultimi quarant’anni siamo
stati catturati dal fascino del nuovo e dal feticismo
per il nuovo (nuove tecnologie, nuove forme di
lavoro, nuova economia, i social invece del sociale…), anche
quando in realtà erano solo una fase solo apparentemente nuova di
qualcosa che è vecchio: il capitalismo, il taylorismo anche
se oggi diventato nuovo affiancandoci l’aggettivo di
digitale, pur restando vecchio nella sua essenza;
Amazon che è il vecchio Postal Market con un algoritmo; lo
smart/home-working che è il vecchio lavoro a domicilio, ma con il
pc; il lavoro in rete che è l’estensione del pluslavoro marxiano.
Siamo stati affascinati e quindi catturati da una realtà
virtuale e da una realtà artificiale che poteva addirittura essere
aumentata a piacimento grazie alla tecnica, mentre negli
stessi anni - nonostante molte cose buone fatte - abbiamo prodotto
soprattutto una realtà naturale sempre più diminuita (nel
senso di ulteriormente compromessa) che sfocia ora appunto nella
crisi climatica e in quella ambientale.
E ci siamo anche dimenticati,
conseguentemente, di pensare al futuro e di essere
responsabili verso il futuro e le prossime generazioni (e le
prossime generazioni non sono qualcosa di astratto e lontano, ma sono
i nostri figli e nipoti): tutti presi da una istantaneità e da
una accelerazione dei tempi ciclo di lavoro - ma anche del
dover vivere - funzionale solo al funzionamento del
sistema capitalistico, però del tutto disfunzionale rispetto
all’equilibrio naturale. Incapaci di pensare a una economia diversa
e a una tecnica diversa (ad esempio una neotecnica, come
scriveva Nebbia richiamandosi a Lewis Mumford).
Affascinati da una innovazione
tecnologica e delle merci che però non controlliamo, ma alla quale
il sistema ci impone di adattarci incessantemente. Ma
adattarsi a qualcosa che non si controlla a monte,
prima che dispieghi i suoi effetti a valle è la negazione
dell’umano, della libertà, dell’individualità/soggettività,
dell’autonomia, della responsabilità. Della democrazia. Significa
passività e non responsabilità. Significa diventare oggetti
dell’innovazione e del sistema delle merci, rinunciando ad esserne
i soggetti. Significa essere alienati da se stessi quanto più
si viene sussunti e quanto più ci identifichiamo/integriamo
con il sistema capitalistico.
Non solo. Il sistema - questo
sistema; e il sottotitolo al libro è esplicito e ben definisce
il ruolo e il pensiero di Nebbia: Per una critica ecologica al
capitalismo (ripreso da un suo precedente libro del 2002) -
questo sistema produce violenza. Verso gli uomini e verso
l’ambiente. Scriveva Nebbia: “La violenza all’ambiente deriva
dalle scelte sbagliate che vengono fatte nelle materie prime, nei
processi produttivi, nella qualità dei manufatti, nell’uso del
territorio. Errori non occasionali - si badi bene - ma motivati dalle
‘regole’ della società capitalistica che impone di estrarre
sempre di più risorse, di sfruttare sempre di più la natura, di
sbarazzarsi dei rifiuti al minimo costo possibile. Una società che
misura tutto solo in ‘unità monetarie’ ma nei cui calcoli non
entrano i beni che non hanno prezzo: la salute, l’aria e l’acqua
pulita, la bellezza”.
E aggiungeva, nel 1983 e parlando del
movimento ambientalista di allora: “Ma insieme all’analisi delle
forme e delle cause della violenza contro la natura, e
pertanto contro l’uomo, violenza pagata più cara dalle classi
più deboli anche quando queste stesse classi non lo sanno,
il movimento ecologico ha elaborato una serie di
proposte, indica un progetto di cambiamento, un suo progetto Ambiente
2000; e comincia col mettere in discussione un tipo
di industrialismo basato soltanto
sulla crescita della quantità di
merci prodotte senza chiedersi a che cosa e per chi servano;
senza chiedersi quali effetti tali merci hanno sul
territorio. Un modello di industrialismo da cui si
lascia tentare ancora una parte della sinistra italiana. Il compagno
Berlinguer su Rinascita, un paio d’anni fa, scriveva
[invece] che è tempo di chiedersi che cosa occorre produrre
e come e dove nel territorio. Ebbene, il movimento
ecologista propone proprio un progetto di cambiamento che
parte da fatti concreti, materiali, naturali, e prevede una diversa
progettazione delle città e dei trasporti, reali cambiamenti nella
produzione e nel consumo dell’energia, la valorizzazione dei beni
culturali (testimonianze delle radici della nostra storia e
attrattive per il turismo), la lotta contro il diboscamento, le frane
e le alluvioni. Il progetto verde chiede nuove leggi,
dall’urbanistica ai consumi, dal recupero delle zone interne alla
difesa del verde e della fauna, dalla lotta contro l’inquinamento
alla sicurezza nella fabbrica, all’uso delle sostanze pericolose.
Propone l’elaborazione di una nuova cultura della città, liberata
dalla morsa del traffico privato, di un’integrazione nel territorio
delle abitazioni, delle fabbriche, dei servizi, delle attività
agricole, in modo che sia ricostruito il ricambio
organico, di cui parla Carlo Marx, come premessa
per condizioni umane di vita e di lavoro (…). A questa
alternativa [per andare] verso una società (…) neotecnica capace
di soddisfare i bisogni umani e di difendere i
propri beni ambientali e culturali in quanto beni
collettivi contro la speculazione e il profitto delle classi
privilegiate si oppongono - e si capisce - gli interessi
economici che verrebbero investiti e travolti da un cambiamento. Da
qui la ridicolizzazione del movimento
ecologico, l’accusa di essere contro il progresso.
E invece, un cambiamento nella programmazione e nel controllo della
produzione e del consumo, nell’uso della natura e delle sue
risorse, è indispensabile proprio per il progresso civile e
democratico del Paese, per ridare fiducia tanto ai lavoratori quanto
ai giovani, per colpire la corruzione e la mafia, figlie e madri
della speculazione edilizia e delle scelte produttive e clientelari
sbagliate; e la violenza e la droga, figlie e madri della delusione
giovanile e del vuoto di speranza”.
Un programma da rilanciare soprattutto
oggi. Per questo le parole di Nebbia non ci devono abbandonare, ma
accompagnare di nuovo. Perché proprio il pensiero di Nebbia - amico
di tutti noi di altronovecento - deve essere prologo
per il nostro riflettere sull’oggi, tornando a fare quella cosa
che abbiamo dimenticato di fare e che invece incessantemente Nebbia
faceva: immaginare il futuro e immaginarlo, soprattutto,
diverso dal futuro cui il sistema ci chiede solo di adattarci.
La Terra brucia, questo vuole
essere. Non il testamento politico di Nebbia, ma il suo
programma per il futuro. Provando noi, di nuovo, a costruirlo.
Indice del volume
Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti,
Introduzione
Luigi Piccioni, Giorgio Nebbia e
l’ecologia. Un profilo biografico
I. Saggi e interventi
II. Persone e biografie
III. Carteggio Nebbia-Paccino 1971-72
IV. Pensare il futuro
Lelio De
Michelis, Postfazione