La Laudato si’
è indubbiamente una delle encicliche più innovative, dopo la
stagione dei due papi conciliari, Giovanni XXIII e Paolo VI.
Celebrata dal variegato e (almeno in Italia) disperso movimento
ecologista, sostanzialmente ignorata dagli intellettuali, dai
politici, dai manager, dagli organi di informazione del sistema
dominante, dopo cinque anni è indubbiamente utile riprenderla in
mano. Ci stimolano a questo proposito due pubblicazioni che, pur
nella diversa matrice, l’una espressione diretta della Chiesa
cattolica e l’altra del mondo laico “critico”, si pongono lo
stesso obiettivo: rilanciare la portata rivoluzionaria
dell’enciclica, in occasione del quinquennio della sua edizione,
cercando di tradurre il suo messaggio in obiettivi concreti e
dettagliati, in piattaforme e linee guida per l’agire individuale e
collettivo (Tavolo interdicasteriale della Santa Sede sull’ecologia
integrale, In cammino per la cura della casa comune a cinque anni
dalla Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2020; Associazione Laudato si’. Un’alleanza per
il clima, la Terra e la giustizia sociale, Niente di questo mondo
ci risulta indifferente, Interno4 Edizioni, Firenze 2020).
Prima di darne conto,
seppur sommariamente, trattandosi di materiali densi di contenuti, è
forse necessario un breve excursus storico del non sempre
lineare rapporto della Chiesa cattolica con la questione ecologica.
Il
ritardo della Chiesa cattolica nell’elaborare una propria visione
della crisi ecologica è comunque evidente: se si escludono alcuni
riferimenti in discorsi ed encicliche dell’ultima parte del
pontificato di Woytila e di quello di Ratzinger tesi ad avviare una
riflessione sulla questione ambientale e sul rapporto tra fede e
protezione della natura, nonchè intuizioni profetiche di singoli
esponenti della teologia della liberazione, come Leonardo Boff ed il
suo Grido della terra, grido dei poveri. Per una ecologia cosmica
(Cittadella 1996), occorre risalire ai primi anni Settanta per
rintracciare un interesse esplicito e diretto della Chiesa cattolica
al tema, in occasione della prima Conferenza dell’Onu sull’ambiente
tenuta a Stoccolma nel 1972. Come ricostruisce puntualmente con
dovizia di documenti Luigi Piccioni (L. Piccioni, Chiesa ed
ecologia 1970-1972: un dialogo interrotto in “I quaderni di
Altronovecento” n. 10, Fondazione Micheletti, 2018.
http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/Default.aspx?id_articolo=38)
fu quella una straordinaria occasione per la Chiesa cattolica di
incrociare positivamente la “primavera ecologica” che proprio in
quegli anni stava sbocciando nel mondo grazie all’opera
pionieristica di alcuni scienziati e movimenti. Un’occasione però,
in gran parte sprecata. Eppure, si trattava all’epoca della Chiesa
erede del Concilio Vaticano II, che si era aperta al mondo con il
discorso all’Onu (1965) di papa Paolo VI, autore dell’enciclica
Populorum progressio (1967) e che, attenta a leggere “i
segni dei tempi”, si rivolgeva a “tutti gli uomini di buona
volontà”. Quindi, quando l’Onu decise di organizzare la prima
conferenza mondiale sull’ambiente, a fine 1970 si rivolse al
Vaticano invitandolo ufficialmente a parteciparvi.
Per la Chiesa si trattò
di una sollecitazione imprevista, che la trovava poco o per nulla
attrezzata ad affrontare una tematica del tutto inusitata. I grandi
temi della società contemporanea oggetto di dibattito nel Concilio e
di elaborazione in particolare nella costituzione Gaudium et spes
e successivamente nella stessa enciclica Populorum progressio
erano quelli dello sviluppo ineguale tra Primo e Terzo mondo, della
necessità di una distribuzione più equa della ricchezza tra i
popoli come condizione per una pace duratura, temi sociali a tutto
tondo che non contemplavano nel proprio orizzonte il versante del
rapporto critico dell’economia umana con l’ambiente naturale.
Fu dunque una corsa
contro il tempo, quella ingaggiata dal Vaticano per organizzare una
propria partecipazione consapevole e propositiva alla Conferenza
dell’Onu. Una corsa che vide protagoniste due figure di
prim’ordine, l’una, da parte ecclesiastica, in qualità di
intellettuale di punta e sociologo, il gesuita Bartolomeo Sorge,
l’altra, da parte sempre cattolica, ma laica, in qualità di
scienziato ecologista, Giorgio Nebbia. A questo livello il dialogo fu
estremamente produttivo e l’elaborazione di grande rilevanza: tutti
i temi della crisi ecologica e dell’intreccio della stessa con la
crisi sociale erano puntualmente delineati, anche quelli più aspri,
come la critica alla tecnica e alla crescita illimitata. Documenti
che potrebbero essere letti ancora oggi per comprendere in profondità
la questione ambientale. Ma tutto questa elaborazione fu in gran
parte ignorata sia nella presentazione ufficiale della posizione del
Vaticano alla Conferenza sia nel breve messaggio di Paolo VI. La
preoccupazione prevalente del Vaticano fu, da un canto, di farsi
carico delle resistenze delle nazioni del Terzo Mondo rispetto ad un
ecologismo “egoistico” dei Paesi ricchi che sembrava nei fatti
ostacolare il loro sviluppo, dall’altro, di ribadire con forza ogni
contrarietà al controllo delle nascite come strumento per contenere
l’esplosione demografica, allora problema di grande attualità
anche all’interno del mondo ecologista.
Sta di fatto che la
tematica ecologica negli anni successivi è stata rapidamente
archiviata dalla Chiesa cattolica. “Alla metà degli anni Settanta,
insomma, l’inserimento della questione ambientale nell’agenda di
Iustitia et pax era sostanzialmente fallito: pace, sviluppo
economico della parte più povera dell’umanità, diritti umani e
giustizia sociale erano le grandi questioni su cui la commissione era
nata per volontà della maggioranza conciliare e di Paolo VI e
rimanevano quelle su cui essa continuava a misurarsi in larga
prevalenza. Non a caso al momento del rinnovo dei membri della
commissione, nel 1976, la presenza di Giorgio Nebbia non venne
ritenuta più strategica. Il tentativo di presa in carico della
questione ambientale da parte della Chiesa cattolica si esaurì
dunque già nel corso del 1972, rapidamente come si era affermato tra
l’autunno del 1970 e i mesi successivi alla conferenza di
Stoccolma” (L. Piccioni, op. cit., p. 46).
Come rileva Piccioni,
in questa rimozione, giocò una cultura teologica di lungo periodo,
quella di una visione antropocentrica della Genesi, rafforzata
dalla peculiarità propria del Cristianesimo centrato sulla figura di
Cristo, di un Dio che si fa uomo e che nel contempo induce l’uomo
in qualche modo a condividerne la divinità (De imitatione
Christi). E per quanto concerne l’atteggiamento della Chiesa
nei confronti della tecnica moderna, rimaneva all’epoca come
costante, per nulla scalfita dal rinnovamento conciliare, la visione
inaugurata da Leone XIII, alla fine dell’Ottocento, in particolare
con la Rerum novarum (1891), la celebrata prima
enciclica sociale della Chiesa, troppo fraintesa e poco studiata
criticamente. Quello leonino fu un pontificato
straordinariamente forte, come poteva lasciar presagire il nome che
scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come riconoscono tutti
gli studiosi di storia della Chiesa: la sua impronta definì per
quasi un secolo la posizione della Chiesa nei confronti della
modernità, rimasta sostanzialmente immutata fino a Papa Giovanni
XXIII ed al Concilio Vaticano II. Un pontificato molto politico,
esplicitamente e convintamente interventista nelle vicende terrene
contemporanee. Fu questo il vero tratto innovatore rispetto al
predecessore Pio IX, il quale di fronte alla modernità, da un canto
ne ribadì l’assoluta e totale condanna con il Sillabo,
dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte,
in una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile.
Questo indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da
Leone XIII che quindi si impegnò per ricollocarla al centro della
scena internazionale: dunque la guerra contro la modernità, perché
fosse efficace e vincente per la Chiesa, doveva essere ingaggiata in
campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti economici e sociali
in corso, in una contesa aspra, militante, con le società liberali.
Inoltre
Leone XIII comprese che alcuni aspetti della modernità,
l’industrializzazione e la tecnologia, ovvero la civiltà
termo-industriale che si stava convulsamente sviluppando con la
scoperta dei fossili, era un fiume in piena impetuoso che era
impossibile sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse
mantenuto un atteggiamento di totale rifiuto del nuovo, espresso
icasticamente da Gregorio XVI, quando bollò come un “satana su
rotaia” il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839 ansimò
sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici.
Leone
XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e
sociali, a dispetto della “scomunica” pontificia, si stavano
affermando, e che andavano coinvolgendo sempre più estese masse di
popolazione, le quali rischiavano di essere scristianizzate dalle
ideologie che quel processo assecondavano, liberalismo e socialismo
innanzitutto. Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in
campo, accettando la sfida della modernità proprio sul terreno
economico e sociale, con l’obiettivo di cristianizzare la modernità
stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e laiciste che si
erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente
paradossale, era quello di affermare una sorta di “teocrazia della
modernità”, ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa,
di impronta medievale, nel mondo nuovo delle innovazioni
tecnologiche, della produzione industriale e delle conseguenti
trasformazioni sociali, le “cose nuove” per l’appunto: la
Cristianità che torna a governare anche il mondo moderno,
reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione del
mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle
cose modellato dal disegno soprannaturale divino, guidata dal
tomismo, diventato dottrina ufficiale della Chiesa leonina. La
“sensibilità sociale” di Leone XIII ha oscurato il tratto
profondamente reazionario ed antisemita del suo pontificato, che ad
una lettura superficiale potrebbe sembrare incomprensibile. Ma, in
qualche modo papa Pecci anticipava, così, un’evoluzione del
pensiero reazionario che, in particolare nei primi decenni del
Novecento, permetterà ai partiti fascisti di conquistare il potere
in alcuni Paesi europei e di ambire all’egemonia ed al dominio sul
mondo. Come è stato acutamente analizzato, i fascismi si affermarono
proprio perché seppero realizzare un connubio apparentemente
innaturale tra pensiero reazionario e tecnica moderna, definito
“modernismo reazionario” o “modernità totalitaria”.
Dunque,
se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici
nell’agone politico e sociale, dall’altro si preoccupò con
grande energia di restaurare una rigida ortodossia teologica, il
tomismo, e di ribadire la più ferma condanna delle ideologie che
avevano ispirato la modernità: il liberalismo, il socialismo e
l’ebraismo che in gran parte le avrebbe ispirate. Ed anche il lato
sociale presente nella Rerum Novarum è
un dato in verità ricorrente nel pensiero politico reazionario tra
Ottocento e Novecento. Lo si vedrà, in particolare, con il fascismo
italiano, nel programma del 1919 ripreso poi con la Carta di Verona
della Repubblica sociale; lo si vedrà nel movimento politico
costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito
nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso,
colore intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e
socialista. Almeno nei programmi, il pensiero reazionario e
antimoderno spesso adottò accenti anticapitalisti, essendo anche il
capitalismo in certo modo filiazione del liberalismo, e si cimentò
sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre le masse
operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più
pericoloso e temibile dello stesso liberalismo. Ma ai fini della
riflessione che andiamo facendo, ciò che conta, è che le “cose
nuove”, innovazione tecnologica e società industriale con Leoni
XIII ricevono una sorta di “benedizione” dalla Chiesa cattolica,
gli scienziati e gli industriali si sentono legittimati come
continuatori dell’opera creatrice divina. E il concilio Vaticano
II, se ha liberato la Chiesa dal progetto reazionario di costruire
una sorta di teocrazia della modernità e ha finalmente intessuto un
dialogo con le culture contemporanee democratiche e socialiste, si è
mosso, invece, in sostanziale continuità con la svolta leonina
nell’atteggiamento verso le “cose nuove”, di per sé positive e
buone.
A
questo proposito mi verrebbe di azzardare una considerazione, sulla
base del lavoro di studio e ricerca sui territori sottoposti a
maggior stress ambientale da parte di un’industrializzazione per
nulla accorta. Nel panorama nazionale spiccano alcuni territori
particolarmente degradati: la provincia di Brescia (disastroso
inquinamento del capoluogo da diossine e PCB Caffaro, capolinea
nazionale di rifiuti speciali e pericolosi, acque e aria molto
contaminate…) e il Veneto (il “caso” di Porto Marghera e della
laguna veneta, l’estesa contaminazione delle falde di diverse
province da Pfas…). Territori con una radicata cultura cattolica,
veicolata sul piano politico, un tempo, dalla democrazia cristiana e,
oggi, in parte dal PD e dalla Lega. Quanto ha giocato in questi
territori la convinzione che fare industria era anche un modo per
cooperare all’opera creatrice divina? E quanto avrebbe potuto
influire, in senso opposto, la proposta “ingenua” di Giorgio
Nebbia nel 1971 alla sua Chiesa di dichiarare ufficialmente peccati
lo spreco di risorse naturali e l’inquinamento da parte degli
industriali?
Questa
lunga premessa potrebbe apparire di scarsa utilità. Ma non fare i
conti con i cinquant’anni in gran parte perduti dopo la preziosa
occasione della prima conferenza sull’ambiente dell’Onu, potrebbe
rappresentare un fardello ingombrante nella fase nuova aperta cinque
anni fa dalla Laudato Si’.
E
una prima osservazione a questo proposito va avanzata: sia nei
materiali del Vaticano, sia in quelli dell’associazionismo laico,
non si trova un’approfondita analisi critica di come siano andate
le cose in questi cinque anni. Il lavoro dell’Associazione Laudato
si’, in verità, non può non
constatare che “a quasi cinque anni dalla pubblicazione
dell’enciclica, non si è prodotta l’auspicata diffusione del
grido della Terra nelle coscienze […]. Tantomeno sembra esserne
stata risvegliata la politica” (Associazione Laudato si’, op.
cit., p. 33), ma, poi, non procede alla necessaria riflessione
sulle cause di questa mancata risposta dei popoli e dei governi
all’appello urgente del Papa.
Quindi i due testi in
esame confidano in un possibile rilancio dei temi posti
dall’enciclica papale attraverso una dettagliata articolazione di
“piste operative”, nel lessico cattolico, o “obiettivi
concreti, iniziative, proposte da articolare a livello territoriale,
nazionale e globale”, nel lessico dei movimenti. Ambedue citano in
apertura la stessa espressione di Francesco in piena emergenza Covid
19: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca,
tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e
necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di
confortarci a vicenda […] ci siamo accorti che non possiamo andare
avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme” (Francesco,
Meditazione durante il momento straordinario di preghiera in tempo
di epidemia, 27 marzo 2020). Un’analoga ispirazione, dunque,
rafforzata dalla consapevolezza che la crisi
pandemica ha riproposto con rinnovata urgenza la necessità di un
profondo ripensamento del rapporto tra uomo e ambiente e tra tecnica
e natura. Chi ha vissuto e vive con comprensibile preoccupazione
questi strani tempi emergenziali può trovare, quindi, in questi due
testi esaurienti percorsi di riflessione, di ricerca e di
elaborazione per comprendere in profondità che cosa sta accadendo
all’umanità, le cause della crisi attuale e come “insieme”
potrebbe essere possibile uscirne.
Alcuni
dei titoli dei capitoli in cui si articolano le “piste” e le
“proposte” non possono che essere comuni ai due testi, toccando
questioni centrali e di particolare emergenza: clima, lavoro, salute.
I
materiali prodotti dal Vaticano sono nel complesso più attenti agli
aspetti formativi ed etici e alla catechesi, argomenti che occupano
il primo capitolo Educazione e conversione ecologica,
mentre nel secondo capitolo Ecologia
integrale e sviluppo umano integrale articolano più nel
dettaglio percorsi che raccolgono in particolare la pluridecennale
esperienza di movimenti ecclesiali di base e di associazioni
cattoliche in diverse parti del mondo impegnati nei cosiddetti “nuovi
stili di vita”, “consumo critico”, “gruppi di acquisto
solidale”, “finanza etica”… Proposte che si declinano nei
vari campi, oltre ai tre citati, dall’alimentazione, appunto,
all’energia, dalla tutela dell’acqua e dei mari alla salvaguardia
della biodiversità, dall’economia circolare alla finanza,
dall’urbanizzazione alle istituzioni, giustizia e amministrazione
pubblica. Tantissime sono le pratiche virtuose che vengono suggerite
e che sarebbe importante si diffondessero come una sorta di condivisa
“cittadinanza ecologica”, ma non vi è qui lo spazio per
ricordarle in dettaglio per cui mi limito a raccomandarne la lettura
e ancor più la messa in pratica. Mi sento in dovere, però di
segnalare alcune criticità che sembrano emergere laddove si toccano
alcuni temi particolarmente caldi e di interesse per settori
dell’economia. In questi casi, a volte, l’approccio è molto
prudente e persino ambiguo o per lo meno discutibile cosicché sembra
attenuarsi quella radicalità che pervade giustamente l’enciclica.
Cito, ad esempio, il caso controverso degli OGM per i quali si dice
solo: “Promuovere luoghi di dibattito inclusivi di tutte le parti
in causa sul tema delle innovazioni agroalimentari derivanti dalla
ricerca in ambito genetico (OGM – organismi geneticamente
modificati) e finanziare diverse linee di ricerca autonoma e
interdisciplinare che possano apportare nuova luce” (Tavolo
interdicasteriale della Santa Sede sull’ecologia integrale, op.
cit., p. 122). Tenendo conto delle forti pressioni che alcune
multinazionali esercitano sul tema, forse era utile ribadire che, in
forza del principio di precauzione, in attesa che si faccia piena
“luce”, gli OGM vanno banditi dalle produzioni alimentari. Così
pure, data la gravità dell’emergenza climatica, non sembra
sufficiente richiedere provvedimenti tesi ad attenuare l’impatto
dell’estrazione dei fossili, auspicandone il superamento:
“Monitorare severamente le attività di esplorazione e di
estrazione negli ecosistemi più fragili e nelle attività offshore,
in particolare nei Paesi in via di sviluppo, per evitare che i
diritti umani vengano calpestati, che l’acqua, il suolo e l’aria
vengano inquinati negligentemente o consapevolmente, coinvolgendo le
popolazioni interessate. Ridurre e se possibile abbandonare la
combustione di gas naturale in eccesso nei siti di estrazione di
idrocarburi (flaring), sviluppando alternative sicure per
l’ambiente, per la popolazione e per gli stessi impianti”
(Ibidem, pp. 139-140 ) “Promuovere il processo volto a
riformare le sovvenzioni ai combustibili fossili e a tassare le
emissioni di diossido di carbonio (CO2)” (Ibidem,
p. 164). Un altro tema controverso è quello dell’economia
circolare, molto caro in particolare alle grandi multiutility che di
fatto detengono il monopolio della gestione dei rifiuti, su cui
lucrano soprattutto con il cosiddetto recupero energetico, attraverso
gli inceneritori: “Promuovere il riuso e il riciclo delle risorse
naturali già nel circuito economico, incoraggiare il riuso dei vari
rifiuti organici (bioenergia, biocarburanti, compost, …),
evitare la produzione di oggetti, materiali e sostanze
particolarmente complicati da riciclare (come alcune plastiche
multi-strato) e incentivare la ricerca per materiali alternativi. […]
Puntare all’adozione di imballaggi facilmente riciclabili o
biodegradabili. […] Stimolare il settore privato a “liberare”
l’innovazione e a far avanzare la trasparenza della catena di
approvvigionamento attraverso regolamenti e incentivi che promuovano
il passaggio a un’economia più circolare e a basse emissioni di
gas serra” (Ibidem, p. 164). Innanzitutto, decenni di
pratiche di incentivi al settore privato insegnano che non è questa
la strada per la rivoluzione ecologica che auspichiamo. Inoltre non
si può definire “riuso dei vari rifiuti organici” la produzione
di “bioenergia” attraverso l’incenerimento e neppure di
biocarburanti, e soprattutto queste pratiche non hanno nulla a che
vedere con l’“economia circolare”, come ha esplicitamente
sancito l’Unione europea. Inoltre, la vera priorità nella gestione
dei rifiuti non è il riciclaggio e neppure “imballaggi facilmente
riciclabili”, bensì la riduzione drastica a monte della produzione
di rifiuti e dell’uso di imballaggi. Una priorità che rinvia alla
tematica da sempre cara a Giorgio Nebbia, fin da quel lontano 1972, e
che non ricorre con quella centralità che dovrebbe avere nei
materiali del Vaticano, ovvero la priorità di porre limiti allo
sviluppo e di ridurre i consumi nella prospettiva, come avrebbe detto
in anni più recenti lo stesso Nebbia, di una transizione dalla
società dell’abbondanza alla società dell’abbastanza.
Concludeva Giorgio Nebbia il suo Rapporto alla Commissione
Iustitia et pax sulla conferenza di Stoccolma con un
icastico punto 15: “Teologia e lode della continenza. La necessità
di limitare lo sviluppo produttivo e il possesso di merci per non
compromettere le risorse limitate del pianeta comporta una nuova
teologia e lode della continenza attraverso la proposta di nuovi
valori, come il rispetto del prossimo, delle altre creature della
terra, della natura e dell’ambiente” (L. Piccioni, op. cit.,
p. 244) , riprendendo una riflessione già avanzata in un materiale
preparatorio alla stessa Conferenza: “Assumono così nuovo
significato le parole di Paolo nella prima lettera a Timoteo 6, 6-7:
‘La pietà è infatti una fonte di grande guadagno accompagnata dal
contentarsi di ciò che si ha, perché nulla abbiamo portato nel
mondo e nulla, senza dubbio, possiamo portare via’, col loro invito
alla continenza nel possesso, continenza che, anche se impopolare,
pure è così squisitamente cristiana e che costituisce la vera guida
per una nuova saggezza ecologica (Ibidem, p. 108).
I materiali prodotti
dall’Associazione Laudato Si’ hanno indubbiamente un
carattere più direttamente politico. Questa pubblicazione nasce da
un percorso avviato da Mario Agostinelli, ingegnere dell’Enea e poi
al Cnr di Ispra, diventato negli anni Settanta dirigente sindacalista
della Cgil, quindi consigliere alla Regione Lombardia, più
recentemente animatore dell’associazione Energia felice, autore di
diverse pubblicazioni sui temi energetici e ambientali. Si tratta,
anche in questo caso, di una elaborazione collettiva come viene
puntualmente ricostruito nella nota introduttiva:
“I semi che hanno
condotto al libro sono stati gettati nel corso di un Forum promosso
dall’associazione Laudato si’ nel gennaio 2019, dal titolo
Un’alleanza per il clima, la Terra e la
giustizia sociale,
quando, al termine di una giornata densa di interventi e
testimonianze, i convenuti – credenti e non credenti, espressione
di diversi e talvolta distanti ambiti di militanza e partecipazione –
decisero di prendere a comune riferimento l’enciclica,
riconoscendola come un percorso pienamente politico, capace di tenere
in un medesimo orizzonte tradizioni spirituali, concezioni
ecologiche, cosmogonie dei nativi, lotte dei movimenti popolari di
tutto il mondo. Nel suo essere così esplicitamente rivolta alla
giustizia sociale, alla cura della casa comune, a una pratica di
resistenza culturale, educativa e comunicativa, la Laudato si’
venne interpretata come un ponte, un territorio condiviso da cui
partire per rimarginare frammentazioni e gettare nuove fondamenta per
un cambiamento radicale che esige come prima cosa di guardare in
faccia le conseguenze e le cause di un dominio che calpesta esseri
umani, territori ed ecosistemi, lasciando dietro di sé solo scarti.
In quella sede venne
deciso di redigere un testo da mettere a disposizione della società
civile, della cittadinanza e delle istituzioni, così da contribuire
a colmare il vuoto di elaborazione teorica e politica nel quale, da
anni, sembra erodersi il principio democratico della rappresentanza.
Nel giugno 2019 venne
stampato e distribuito un documento programmatico che assumeva come
progetto politico la giustizia sociale, ambientale e climatica, la
cura del vivente, il diritto alla bellezza, la mitezza dei linguaggi,
con una traduzione in obiettivi concreti, iniziative, campagne
territoriali, nazionali e globali. Quel testo iniziale, frutto di una
pluralità di esperienze e linguaggi che, nella loro ricchezza, non
potevano essere stretti nella reductio ad unum, è stato
successivamente arricchito e precisato in incontri e seminari –
un’esperienza che già di per sé ha costituito una pratica
politica – e infine ampliato, corredato di dati statistici,
documenti e fonti, così che la realtà potesse parlare nel modo il
più possibile distaccato e scevro da ideologia” (Associazione
Laudato si’, op. cit., pp. 27-28).
Si tratta, quindi,
anche e innanzitutto di un’opera di pregevole divulgazione, ricca
di contenuti e di informazioni, scritta con un linguaggio non
specialistico ma nel contempo rigoroso. Il lettore vi trova il
condensato di sapere essenziale per comprendere le cause dell’attuale
crisi ecologica e sociale e per intravvederne le possibili vie
d’uscita, declinate nei singoli temi che titolano i diciotto
capitoli: clima; depredazione ambientale; migranti e profughi;
accoglienza, cittadinanza, democrazia; una comunità
euro-afro-mediterranea; povertà ed economia dello scarto; finanza,
debito, stato di diritto; conversione ecologica; beni comuni,
territori e luoghi; vivente; ecofemminismo; lavoro; stili di vita;
tutelare la salute; la «guerra mondiale a pezzi»; la minaccia
nucleare; umano, virtuale e artificiale; per una nuova pedagogia
degli oppressi. Diciotto capitoli sono già molti, tuttavia mi
permetto di segnalare due temi che meriterebbero una specifica
trattazione. Il primo ha a che fare con quanto Giorgio Nebbia con
caparbietà, riprendendo una felice formulazione di Lewis Mumford, ci
ha sempre spiegato, ovvero che per il cambio di paradigma richiesto
dalla crisi ecologica, occorre fuoriuscire dalla paleotecnica del
sistema termoindustriale basato sui fossili ed inaugurare una
neotecnica, in gran parte da inventare e costruire con una ricerca
scientifica innovativa ad esse finalizzata. Ma questa neotecnica non
può venire dall’iniziativa privata di un sistema economico piegato
al massimo e immediato profitto, ma neppure dal basso dalle
cosiddette pratiche virtuose o stili di vita. Dunque è ineludibile,
a mio parere, un massiccio intervento pubblico nella ricerca
scientifica, nell’innovazione tecnologica e nell’economia,
finalizzato appunto alla rivoluzione ecologica “neotecnica”, ma
anche alla giustizia sociale. Il secondo tema è quello caro a
Salvatore Settis e a Tomaso Montanari, tra gli altri, che fa
riferimento alla straordinaria intuizione dei padri costituenti che
hanno inserito nello stesso articolo 9 la tutela sia della natura che
dell’arte: di certo non avevano contezza della crisi ecologica che
sarebbe sopravvenuta, ma tuttavia vollero statuire questo profondo
legame tra bellezza degli artefatti artistici e culturali e la
bellezza del paesaggio naturale e del loro valore fondante per una
nazione, per un popolo, per l’umanità. In effetti l’arte
potrebbe insegnare molto all’umanità nel ridefinire il suo
rapporto con la natura. Il patrimonio monumentale ed artistico è un
prodotto artificiale dell’attività umana, un pezzo della
tecnosfera sovrapposta alla biosfera, e quindi soggetto anch’esso
alla legge dell’entropia, come ci ha insegnato Georgescu-Roegen.
Però in misura molto limitata, in certi casi quasi nulla: se curato
e accudito non solo si oppone al destino di tutti gli altri prodotti
dell’uomo, diventare rifiuti, ma, anzi, col tempo acquista sempre
più valore culturale, perché ci permette di dialogare con civiltà
del passato, anche remote, di sentirne e condividerne le peculiarità
originali, emozionarci per le diverse forme della creatività e del
genio umano: si potrebbe dire che l’opera d’arte, dal punto di
vista ecologico, è esattamente l’opposto degli oggetti “usa e
getta”, l’unica che si potrebbe definire davvero “sostenibile”,
“durevole”, ovviamente se sottratta alle logiche del mercato
capitalistico e tutelata dalla collettività. Si potrebbe allora
pensare ad un’alleanza tra tutti coloro che hanno davvero a cuore
la tutela del patrimonio storico ed artistico, in quanto fonte di
spiriti liberi e critici, e coloro che testardamente pensano
inaccettabile, perché distruttivo dell’ambiente e degli umani, un
sistema economico regolato dal mercato e dal profitto e pretendono
una società le cui priorità siano la tutela della natura e la
giustizia sociale, l’unica prospettiva capace di futuro.
Tornando ai materiali
pubblicati dall’Associazione Laudato si’, occorre
precisare che, ovviamente, non si tratta di un programma politico
riconducibile ad una possibile formazione partitica: l’orizzonte è
giustamente senza limiti di spazio e di tempo, vi si prefigura
un’altra visione del mondo possibile, ma tutta da costruire in un
futuro che, se richiede urgenza, ha bisogno anche di profondi
cambiamenti culturali e di sommovimenti sociali di notevole portata.
Con grande onestà gli estensori circoscrivono gli scopi della
pubblicazione: “Una grande presa di
coscienza di uomini e donne, perché non è dalle concentrazioni del
potere che possiamo aspettarci una via d’uscita, ma dalla forza con
cui organizzazioni, società civile, sindacati e movimenti
prenderanno la strada dell’autoeducazione, dell’autoformazione,
della responsabilità” (Ibidem, p. 25). “Dire la verità,
agire adesso, convocare assemblee di cittadini: sono i tre punti
indicati dagli attivisti che nel mondo si mobilitano contro la
prospettiva dell’estinzione” (Ibidem, p. 36). Un compito
comunque di grande rilevanza, precondizione per la necessaria
rivoluzione ecologica. Perché questa si realizzi, a parere dello
scrivente, non si può prescindere dall’attivazione di importanti
movimenti di massa e di un’estesa e potente conflittualità per
piegare quell’economia capitalista che per cinquant’anni ha
saputo contrastare con grande efficacia le istanze della “primavera
ecologica” perpetuando e, anzi, accentuando un sistema predatorio e
distruttivo dell’ambiente e iniquo nei confronti della maggioranza
dell’umanità. Ma quella conflittualità di massa per esprimersi
deve essere anche “sapiente” e per questo sono preziosi i due
testi che ci vengono offerti in occasione dei cinque anni dalla
Laudato si’.