Nelle scorse settimane è stato
pubblicato il libro: “Imbottigliata e venduta: la storia che sta
dietro la nostra ossessione per l’acqua in bottiglia” (per quanto
ne so non ancora tradotto in italiano), dello scrittore americano
Peter Gleick, uno specialista di problemi dell’acqua e di
giornalismo d’inchiesta.
Se il consumo di acqua in bottiglie è
una ossessione negli Stati Uniti, dove tale consumo si aggira ad
“appena” 115 litri all’anno per persona, figurarsi che cosa è
in Italia dove tale consumo arriva a 200 litri di acqua in bottiglia
all’anno per persona, dodici miliardi di litri all’anno per un
fatturato di oltre tre miliardi di euro all’anno. Per avere una
idea di queste cifre si pensi che ogni essere umano per sopravvivere
ha bisogno di circa due litri di acqua al giorno: circa 700 litri
all’anno, occorrenti per diluire il cibo e per eliminare, sotto
forma di escrementi, le scorie della vita. E’ dovere delle autorità
pubbliche far sì che l’acqua potabile arrivi in quantità
sufficiente e di buona qualità nelle case di tutti i cittadini. Per
legge tale acqua non deve contenere elementi nocivi, residui di
pesticidi, troppi sali, e così via e comunque prima di arrivare al
rubinetto delle nostre case viene depurata e analizzata dalle società
o enti che gestiscono gli acquedotti. Da tempo è in corso una
sottile campagna contro l’acqua potabile distribuita nelle case,
accusata di avere sapore sgradevole, di “sapere di cloro”, di
essere poca; in alternativa ecco disponibili nei negozi diecine di
marche di acqua in bottiglia, in formati e di prezzi diversissimi.
Da trent’anni a questa parte grossi
gruppi finanziari hanno capito che ci si poteva arricchire prendendo,
per pochi soldi, la concessione dell’uso dell’acqua delle
sorgenti che viene imbottigliata e venduta, ad un prezzo fra 0,20 e 1
euro al litro, da duecento a mille volte superiore al prezzo pagato
dai cittadini per l’acqua distribuita dagli acquedotti la cui
tariffa si aggira fra 0,5 e 1 euro per ogni mille
litri. Il dibattito sull’acqua in bottiglia, che è stato oggetto
in Italia di libri del giornalista Giuseppe Altamore come “Qualcuno
vuol darcela a bere” e “I predoni dell’acqua”, è uno degli
aspetti di un più vasto dibattito intorno alla conquista, da parte
di imprese private, di tutti interi i servizi di raccolta e
distribuzione dell’acqua, il “bene” più irrinunciabile per la
vita, che la legge italiana dichiara a chiare lettere “un bene
pubblico”, di proprietà di tutti i cittadini. Se è di tutti i
cittadini come può diventare un bene commerciato dai privati? Come
molti lettori sanno, è in corso la raccolta di firme per tre
referendum che propongono l’abrogazione di alcuni articoli di
recenti leggi che autorizzano, anzi impongono, la vendita a società
private delle aziende che distribuiscono, fra l’altro l’acqua
potabile, aziende che originariamente erano in gran parte, e ancora
oggi sono in parte, municipali o regionali o comunque pubbliche. Chi
contesta tali leggi fa notare che “per principio” un imprenditore
privato che “vende” acqua potabile e servizi di depurazione delle
acque usate, “deve” assicurarsi un profitto; i proponenti dei
referendum abrogativi sostengono quindi che la privatizzazione di
questi servizi comporta, se non altro, un aumento delle tariffe
dell’acqua pagata dai cittadini.
Quello che ormai si chiama il movimento
“per l’acqua pubblica” è un interessante segno di una
rinnovata attenzione per la politica dei beni collettivi, dei beni
pubblici come sono l’acqua, le spiagge, le rive dei fiumi. Con il
movimento per conservare in mani pubbliche il servizio della
distribuzione e della depurazione dell’acqua si intreccia l’altro
problema, a cui peraltro si presta troppo poca attenzione, della
inaccettabile differenza delle tariffe dell’acqua potabile
distribuita nelle varie città italiane. Ci sono dei costi per la
captazione dell’acqua dalle sorgenti o dai fiumi o dal sottosuolo o
dai laghi naturali o artificiali, per la filtrazione e purificazione
dell’acqua in modo che raggiungano quegli elevati standard igienici
richiesti dalla legge per l’acqua potabile, e poi per il trasporto
e la distribuzione dell’acqua potabile nelle singole case, e le
aziende acquedottistiche, anche quando sono pubbliche, devono coprire
tali costi con le tariffe; dove l’acqua pura è abbondante e vicino
alle città l’acqua costa di meno; dove le sorgenti di acqua dolce
sono scarse e l’acqua deve essere trasportata con costosi
acquedotti da grandi distanze o deve essere purificata, e questo
avviene principalmente nel Mezzogiorno, i cittadini pagano di più
l’acqua potabile, con differenze anche di quattro volte fra le
varie città. Un’altra delle forme di discriminazione fra Nord e
Sud che rende disagevole la vita urbana e tarpa le ali al turismo. In
questo terreno affonda le radici la speculazione delle acque in
bottiglia, quei dodici miliardi di litri di acqua che ogni anno
vengono venduti per dissetare a caro prezzo persone che avrebbero il
diritto di avere la stessa acqua a basso prezzo a casa propria. Senza
contare che questa grande quantità di acqua viaggia dalle Alpi alla
Sicilia, dal Piemonte alla Puglia, contribuendo, per la maggior
gloria degli imbottigliatori, ad aumentare il consumo di energia,
l’effetto serra, e la massa, circa un milione di tonnellate
all’anno di bottiglie di vetro o plastica, materiale che in parte
finisce nelle discariche e negli inceneritori dei rifiuti.
L’acqua in bottiglia, rispetto
all’acqua del rubinetto, ha la stessa qualità igienica e talvolta
qualità chimica peggiore; soltanto pochissime acque in commercio
contengono sostanze inorganiche (“minerali”) a cui si possa
attribuire qualche virtù medicamentosa; la principale virtù
biologica è la proprietà diuretica (la capacità di far fare,
scusate il termine, la pipì) e che è proprio caratteristica di
qualsiasi acqua potabile del pianeta. Addirittura le acque in
bottiglia “leggere” sono particolarmente povere di sali di
calcio, un elemento essenziale di cui occorrono ogni giorno 800
milligrammi nella dieta; da 100 a 300 milligrammi al giorno sono già
forniti dall’uso normale dell’acqua di rubinetto, senza bisogno
di integratori. Pensate a tutto questo quando andate a fare la spesa.
Articolo
pubblicato per la prima volta in “La Gazzetta del Mezzogiorno”,
1.6.2010.