Impatto ambientale
della produzione e del consumo alimentare sulla risorsa idrica
Ogni persona per vivere ha bisogno, in
media, ogni anno di circa 500 chilogrammi di alimenti costituiti
principalmente da carboidrati, come lo zucchero o l’amido dei
cereali o delle patate, da grassi come gli oli e il burro, da
proteine provenienti dagli alimenti vegetali ed animali (le proteine
della carne, delle uova e del latte sono di qualità biologica
migliore di quella delle proteine dei cereali) e da fibre
cellulosiche contenute nelle verdure e nella frutta. Circa la metà
del peso degli alimenti “consumati” ogni anno da una persona è
costituita da acqua; ogni persona inoltre ha bisogno di circa 1000 kg
all’anno di acqua “alimentare”.
Questa massa di materiali viene fornita
da un complesso ciclo di trasformazioni che comincia nei campi e nei
prati in cui l’energia solare, attraverso la fotosintesi, “produce”
la biomassa vegetale; semi, tuberi, frutti, foglie. Di questa solo
una parte diventa alimenti per l’uomo; una parte viene utilizzata
per l’alimentazione degli animali da allevamento da cui si ricavano
proteine pregiate. I prodotti vegetali e animali, prima di diventare
alimenti per le persone passano attraverso operazioni di trattamento,
trasformazione e conservazione: i prodotti risultanti passano poi
attraverso negozi e impianti di distribuzione prima di arrivare al
“consumatore” rappresentato dalle famiglie e dalla ristorazione
collettiva; alla fine i prodotti del metabolismo animale e umano, di
trasformazione, appunto del cibo, tornano la gran parte come residui
ed escrementi nei corpi riceventi naturali, veicolati da un flusso di
acque di rifiuto.
La “storia naturale” del cibo umano
comincia con le attività agricole nelle quali la formazione della
biomassa vegetale avviene col contributo di grandi quantità di acqua
ricavata dal suolo e dalle piogge. Questa acqua viene chiamata
“verde” per distinguerla da quella “blue” fornita
dall’irrigazione. Una parte dell’acqua applicata ai campi viene
perduta per evaporazione dal suolo, una parte è perduta durante il
ciclo vegetativo per evapotraspirazione e torna nell’atmosfera; una
parte resta conglobata all’interno della biomassa vegetale e una
parte viene assorbita dal suolo e raggiunge le falde idriche
sotterranee, spesso trascinando con se una parte delle sostanze
solubili incontrate nel terreno.
La quantità di acqua conglobata nella
biomassa vegetale varia molto, da circa 10 % nei semi fino al 90 %
nelle foglie e nei frutti. Per farla breve, si può calcolare che da
1 tonnellata di biomassa vegetale, ottenuta con l’uso di 100-200
tonnellate di acqua piovana o di irrigazione e contenente
“incorporati” circa 500 kg di acqua, si ricavino circa 500 kg di
prodotti destinati all’alimentazione del bestiame e all’industria
di trasformazione, contenenti a loro volta circa 250 chili di acqua.
Gli alimenti di maggiore valore
biologico sono forniti dall’allevamento di bovini, suini, pollame,
alimentati con parte dei vegetali forniti dall’agricoltura. Il
metabolismo animale comporta l’assorbimento, ogni anno, per ogni
tonnellata di peso vivo, da 2 a 10 tonnellate di biomassa vegetale
(sotto forma di erba e mangimi, contenenti circa la metà del loro
peso di acqua) a cui vanno aggiunti, come acqua alimentare, da 10 a
20 t di acqua da bere.
Questa acqua viene in parte perduta
come vapore nei processi di respirazione e in parte viene eliminata
come escrementi, urine e feci, che contengono una parte dei prodotti
del metabolismo animale. Una parte dell’acqua assorbita viene
incorporata all’interno dell’animale e si ritrova nel “peso
vivo” del corpo destinato alla macellazione; una parte si ritrova
nel latte e nelle uova.
La biomassa vegetale e animale non
viene utilizzata direttamente nell’alimentazione umana. In
agricoltura la parte della biomassa vegetale destinata
all’alimentazione umana si forma insieme ad una massa da due a
cinque volte superiore di materiali, per lo più cellulosici (paglia,
tutuli, pannelli oleosi, polpe, eccetera) che contengono una parte
dell’acqua assorbita durante il ciclo vegetativo e che finiscono
nell’ambiente come scarti o residui. La parte contenente le
sostanze nutritive viene sottoposta a vari processi di trasformazione
per ottenere gli alimenti veri e propri.
I cereali vengono macinati e
trasformati in sfarinati e poi, nel caso del frumento, in pane, pasta
e dolciumi, con una perdita di biomassa sotto forma di cruscami. Lo
zucchero viene separato dalle barbabietole (in Italia e in Europa,
dalla canna nei paesi tropicali) con una resa di circa il 20 %
rispetto al peso delle piante trattate. Gli oli e grassi sono
separati dai frutti o dai semi oleosi mediante processi di estrazione
che lasciano pannelli e residui contenenti anch’essi una parte
dell’acqua assorbita nel ciclo vegetativo. Lo stesso avviene nei
processi di trasformazione e conservazione dei frutti, nella
produzione di conserve, bevande alcoliche, eccetera.
Altre perdite di biomassa e della sua
acqua si hanno nei processi di macellazione: si può stimare che da
circa 1000 kg di “peso vivo” animale, con un contenuto di circa
500 kg di acqua, si ricavino circa 500 kg di “peso morto”
dell’animale (la “perdita” è costituita da pelle, sangue,
interiora, eccetera, il cosiddetto “quinto quarto”). Dai 500 kg
di “peso morto”, contenente anche questo circa la metà del suo
peso di acqua, si ottengono i vari “quarti” che saranno
trasformati in prodotti conservati o avviati al consumo diretto nelle
macellerie.
Ciascuna delle numerose operazioni
dell’industria agroalimentare comporta la richiesta di acqua a
genera sottoprodotti e rifiuti liquidi e solidi. Molto
approssimativamente, si può stimare che, dall’originale tonnellata
di biomassa vegetale, dopo i processi di trasformazione e
conservazione, si possa ottenere un peso secco di circa 100 kg di
alimenti, in media di circa 200 chili di alimenti tali-e-quali, cioè
con il loro contenuto di acqua. Benché approssimativi, questi
calcoli non sono molto lontani dalla realtà; infatti, per esempio, i
circa 30 milioni di tonnellate di prodotti alimentari “consumati”
ogni anno dai 60 milioni di abitanti dell’Italia richiedono un
flusso di circa 40.000 milioni di tonnellate di acqua nei settori
agricoli e zootecnici. Per l’alimentazione dei 7.000 milioni di
abitanti della Terra si stima che vengano sottratti dalle riserve
naturali, ogni anno, circa 3.500 miliardi di tonnellate di acqua;
insomma, per la sola parte agricola, si può stimare che nel mondo,
per sfamare una persona, occorra, molto approssimativamente, in
media, ogni anno, un flusso di circa 500 tonnellate di acqua.
Ma l’acqua occorre anche nelle
successive fasi di distribuzione e soprattutto di uso degli alimenti
nelle famiglie e nella ristorazione. Si è accennato all’inizio che
ogni anno una persona media assorbe circa 250 kg di acqua “contenuta”
negli alimenti e circa 1000 kg di acqua “alimentare”. Anche nel
metabolismo umano, come in quello animale, una parte dell’acqua è
eliminata con la respirazione e traspirazione e una parte con gli
escrementi. In realtà nel processo di uso degli alimenti da parte
degli esseri umani la quantità di acqua necessaria è molto maggiore
e comprende quella necessaria per la cottura, per l’eliminazione
dei residui di cibo, per lo smaltimento degli escrementi, in media
circa 100 tonnellate all’anno per persona, una quantità più di 50
volte superiore a quella minima necessaria per le funzioni vitali.
Una parte dell’acqua impiegata per la
produzione degli alimenti acquistati va a finire, ed è “perduta”,
negli scarti alimentari, nel cibo che non è stato consumato o che è
stato acquistato in eccesso, o che è stato fatto scadere, o
rifiutato dalle famiglie e dai ristoranti; la massa di tali sprechi e
rifiuti si calcola, in Italia, di alcuni milioni di tonnellate
all’anno, metà delle quali costituite da acqua. Nell’insieme in
Italia si può stimare che il flusso di acqua associato al solo
“consumo” degli alimenti ammonti a circa 4.000 milioni di
tonnellate all’anno.
Davanti alle quantità così rilevanti
di una risorsa naturali non illimitata come l’acqua, assorbita per
assicurare l’alimentazione umana, viene spontaneo chiedersi se è
possibile contenere gli sprechi e le irrazionalità, maggiori o
minori nei vari paesi del mondo a seconda del tipo di coltivazioni o
di allevamento, a seconda del clima, e quindi del contributo delle
acque piovane, a seconda delle tecniche di irrigazione e del “costo”
monetario dell’acqua di irrigazione. Negli anni recenti il problema
si è ancora aggravato a causa dei mutamenti climatici in atto,
conseguenti l’immissione nell’atmosfera dei “gas serra”,
alcuni dei quali, come il metano o gli ossidi di azoto, provenienti
dalla stessa agricoltura e zootecnia, e ci sono motivi per ritenere
che la situazione si aggraverà ancora di più col tempo.
Il problema dell’uso dell’acqua in
agricoltura è stato affrontato nel 1991 dalla Commissione
Agricoltura del Senato (Xa Legislatura, Doc. XVII, n. 17, gennaio
1992). Da tale indagine emersero molti dati sugli effettivi
fabbisogni di acqua nelle varie coltivazioni e sulle tecniche che
consentirebbero una diminuzione degli sprechi, su nuove tecniche di
irrigazione e sulle iniziative per difendere le acque sotterranee,
quelle a cui l’agricoltura maggiormente attinge per l’irrigazione,
dagli inquinamenti provocati da un uso eccessivo di concimi azotati,
dai reflui delle attività zootecniche, dell’avanzata delle acqua
saline in seguito all’abbassamento delle falde idriche sotterranee
a causa di un eccessivo prelievo.
Ancora più interessante sarebbe
conoscere esattamente quanta acqua viene utilizzata per “produrre”
una unità di peso di cibo o una unità di peso di sostanze
nutritive. Un capitolo dell’economia ambientale si occupa della
caratterizzazione del “valore” delle merci con altri indicatori,
diversi da quelli monetari, ”fisici”, come il “costo” in
acqua o in energia o l’impatto ambientale. Sono stati pubblicati
molti studi sul “costo in acqua”, talvolta chiamato “impronta”,
degli alimenti, con risultati peraltro contradditori perché
dipendono dalle parti del complesso ciclo di produzione che sono
prese in considerazione.
Ad esempio è stato messo in evidenza
che esiste anche un commercio internazionale di acqua, chiamata
“virtuale”, “contenuta” negli alimenti importati o esportati;
L’esportazione di prodotti agricoli o alimentari contenenti acqua
corrisponde all’esportazione anche di una parte dell’acqua
sottratta dalle riserve del paese esportatore. Per quel che può
valere, alcuni studi hanno indicato che l’acqua “virtuale”
delle esportazioni e importazioni alimentari italiane ammonta,
rispettivamente, a circa 40 e circa 90 miliardi di tonnellate
all’anno.
Il ciclo dell’acqua coinvolta nella
produzione e nell’uso degli alimenti umani continua dopo il
“consumo”. Tutta l’acqua impiegata ritorna nell’ambiente, per
la maggior parte in forma liquida contenente sottoprodotti, scarti e
rifiuti delle varie fasi del ciclo; sono le acque inquinate che
finiscono nel sottosuolo e l’acqua contenuta nei rifiuti solidi,
destinati alle discariche e agli inceneritori, che si “perde”
nelle falde sotterranee o come vapore nell’atmosfera.
Già questo poche considerazioni
mostrano la complessità della storia naturale del cibo umano e
quante incertezze ci siano nella sua conoscenza. Anzi un recente
studio delle Nazioni Unite ha detto che più si approfondiscono le
varie fasi ambientali dell’intero ciclo dell’alimentazione umana,
più si scopre quanto poco se ne sa. Un campo che ci si augura attiri
un crescente impegno di agronomi, merceologi, chimici, economisti,
statistici, ecologi, stimolati anche dalla necessità di minimizzare
l’impatto ambientale se si vuole davvero “nutrire il pianeta”
come si propone il tema della prossima esposizione universale Expo
2015 di Milano.
Impatto della
produzione alimentare sull’atmosfera
Nell’articolo precedente di questa
serie, dedicata agli effetti della produzione alimentare
sull’ambiente circostante, si è accennato al ciclo complesso delle
attività che cominciano dai campi e finiscono nella nostra cucina
per darci il cibo quotidiano. Le sostanze nutritive vegetali prodotte
nei “campi” seguono due diversi cammini: una parte è destinata
all’alimentazione animale e l’altra alla trasformazione in
prodotti commerciali nel complesso di attività dell’industria
agroalimentare; i prodotti della zootecnica a loro volta vengono
assorbiti dall’industria agroalimentare e trasformati nei prodotti
commerciali. Ma anche i prodotti dell’agroindustria, prima di
arrivare nelle nostre case e alla ristorazione collettiva - nel
seguito chiameremo questi due centri di ”consumo” col nome di
“famiglie” - passano attraverso numerose operazioni di trasporto
e di distribuzione, fino al negozio da cui acquistiamo i nostri cibi.
Infine gli alimenti comprati nei negozi raramente vengono “mangiati”
come tali e sono sottoposti quasi sempre a operazioni di
trasformazione e cottura.
In tutti questi passaggi gran parte
della materia entrata in gioco genera dei rifiuti gassosi; il
protagonista di questi cicli complessi è l’elemento carbonio; anzi
la produzione e l’uso degli alimenti umani rappresenta, in ciascun
paese e nel mondo intero, una parte del ciclo del carbonio
planetario, quella di importanza “economica” in quanto gli scambi
di materia al suo interno sono gli unici accompagnati anche da scambi
di denaro.
Il ciclo del carbonio, come è ben
noto, comincia con l’anidride carbonica dell’atmosfera, fissata,
grazie all’energia solare, insieme all’acqua, mediante la
fotosintesi, nei vegetali, nelle innumerevoli molecole organiche
presenti nelle foglie, nei semi, nei tuberi, eccetera. La fotosintesi
genera, come “rifiuto”, l’ossigeno che viene ceduto all’aria.
Le molecole dei vegetali vengono “acquistate” dagli animali -
l’uomo è uno di questi - che le trasformano nelle molecole del
proprio corpo e in energia, “acquistando” ossigeno dall’aria e
liberando, come “rifiuto”, anidride carbonica e altri gas. Anche
le molecole delle scorie solide vegetali e animali in gran parte
vengono trasformate, nel suolo e nelle acque, in sostanze gassose che
finiscono nell’aria, il grande corpo ricevente.
Le coltivazioni e
l’atmosfera
Le coltivazioni agricole, la base del
ciclo alimentare, sono interessate ad altri scambi con l’atmosfera,
oltre a quelli dell’anidride carbonica e dell’ossigeno che
comunque sono rilevanti, dell’ordine di varie tonnellate di
ciascuno dei due gas, per ettaro all’anno. La preparazione dei
terreni agricoli comporta l’immissione nell’atmosfera di gas e
polveri. Le coltivazioni economiche richiedono l’apporto al terreno
di concimi; quelli azotati hanno lo scopo di fornire al terreno i
nitrati necessari alle piante per la formazione di proteine; tali
concimi per lo più vengono utilizzati in una forma chimica, come
sali di ammoniaca e come urea, che consenta una lenta trasformazione
in nitrati nel suolo. Una parte di questo azoto viene “perduto”
nell’atmosfera sotto forma di ammoniaca o di ossidi di azoto. Si
stima che il sistema agricolo italiano immetta nell’atmosfera circa
mezzo milione di tonnellate all’anno di ammoniaca. Alcune piante,
le leguminose, sono capaci di trarre l’azoto necessario per la loro
sintesi proteica direttamente dall’azoto gassoso dell’atmosfera
grazie a batteri azoto-fissatori presenti per lo più nelle radici.
Le coltivazioni di riso, d’altra parte, immettono nell’atmosfera
metano, in Italia in una quantità stimata di circa 20.000 tonnellate
all’anno, equivalenti, come effetto serra, a circa 1,5 milioni di
tonnellate di anidride carbonica. Il metano, infatti ha un potere di
riscaldamento dell’atmosfera per effetto serra circa 20 volte
superiore, a parità di peso, rispetto al principale gas serra,
l’anidride carbonica.
Anche la protezione delle colture con
pesticidi comporta la distribuzione in forma pulverulenta di questi
agenti che in parte finiscono nell’atmosfera e possono essere
nocivi agli stessi lavoratori.
Zootecnia
Gli animali destinati all’alimentazione
umana si nutrono sia di vegetali presenti nei pascoli, ma
soprattutto, nella zootecnia intensiva, di mangimi costituiti da
prodotti e sottoprodotti agricoli; anche sottoprodotti contenenti
cellulosa che può essere utilizzata come nutrimento da molti animali
da allevamento. La crescita degli animali ha luogo con trasformazioni
che usano l’ossigeno tratto dall’aria e liberano anidride
carbonica. Ma questi sono soltanto alcuni dei gas coinvolti nella
zootecnia. Una parte del carbonio presente negli alimenti viene
trasformata in metano e anzi la zootecnia è una delle importanti
fonti del metano immesso nell’atmosfera. Come ordine di grandezza
si calcola che una mucca da latte immetta nell’atmosfera, sotto
forma di flatulenze, da 50 a 100 kg all’anno di metano. In Italia
nel complesso le emissioni enteriche di metano della zootecnia
ammontano a circa mezzo milione di tonnellate all’anno,
equivalenti, come effetto serra, a 10 milioni di tonnellate all’anno
di anidride carbonica.
“La stalla puzza” perché nel
metabolismo animale si formano altre molecole gassose, di odore
sgradevole; inoltre, come nel caso di qualsiasi animale, il
metabolismo produce rifiuti liquidi e solidi esposti a decomposizione
con liberazione di composti gassosi, ancora principalmente anidride
carbonica, ammoniaca e metano. Si stima che gli escrementi della
zootecnia in Italia immettano nell’atmosfera circa 150.000
tonnellate all’anno di metano e circa 300.000 tonnellate all’anno
di ammoniaca.
Lo smaltimento degli escrementi animali
richiede processi di trattamento e depurazione per evitare
l’inquinamento atmosferico; in genere si tratta di processi di
sedimentazione della frazione solida e di decomposizione microbica
delle varie frazioni, con formazione di gas. Nei processi più
razionali addirittura una parte del metano che si libera, in
quantità, come si è visto, non trascurabile, viene recuperato e
utilizzato come combustibile. Purtroppo una parte degli escrementi,
in Italia, in Europa e nel mondo, viene immesso senza trattamento
nell’ambiente e fornisce un contributo rilevante all’inquinamento
atmosferico, oltre che a sgradevoli odori e al pericolo di
contaminazione delle acque con cui può venire a contatto la
popolazione.
Agroindustria
Se si intende come industria
agroalimentare l’insieme delle operazioni di trasformazione dei
prodotti agricoli e degli animali nelle forme che vengono immesse al
consumo finale, ci si trova di fronte a numerosissime attività,
spesso intrecciate fra loro, ciascuna delle quali tratta, come
materie prime, materiali continuamente variabili a seconda della
provenienza e delle stagioni, o sottoprodotti di altre lavorazioni
agroalimentari (per esempio il siero residui della lavorazione del
latte usato per l’alimentazione dei suini) e anche materiali
agricoli e zootecnici di importazione. Il processo, per esempio, di
macellazione, immette gas nell’atmosfera nelle fasi di separazione
e smaltimento delle varie parti dell’animale, dal sangue, alle
interiora, ai vari ”quarti” di carne che sarà distribuita alle
macellerie. In questo, come in tutti gli altri casi dell’industria,
vanno aggiunte le emissioni di gas associate all’uso delle fonti di
energia necessarie per i vari cicli produttivi.
Il latte, in parte prodotto in Italia,
in parte di importazione, usato in Italia in ragione di circa 100
milioni di tonnellate all’anno, in parte viene trasformato in burro
e formaggi e in parte viene immesso al consumo direttamente in
confezioni di vetro o di materia plastica o di ”tetrapak”, a loro
volta fabbricate con processi che producono inquinamento atmosferico,
una quantità di gas che, a rigore, dovrebbe essere aggiunto alle
emissioni del settore agroindustriale.
Gli agrumi vengono in parte trasformati
in succhi; il caffè viene tostato con emissioni di fumi;
inquinamento atmosferico si ha nella produzione del pane e dei
dolciumi, nella produzione di oli e grassi e delle conserve di
pomodoro, per citare soltanto alcuni dei tanti settori di
preparazione degli alimenti. I dati delle emissioni, stimati per il
settore dell’industria degli alimenti e bevande, sono aggregati e
non consentono di riconoscere il contributo all’inquinamento
atmosferico di ciascun settore merceologico.
In vista dell’EXPO 2015 si stanno
moltiplicando, anche a livello parlamentare, le inchieste sul settore
agroindustriale ed è sperabile che, come sottoprodotto, vengano
migliorati i rilevamenti dei dati statistici sull’intera ”matrice”
dei complessi scambi del settore e dei relativi inquinamenti, sia
idrici, sia atmosferici.
Distribuzione e “consumo”
Il ciclo degli alimenti continua nella
fase di distribuzione; i produttori di alimenti raramente hanno
contatto diretto con le “famiglie” che si approvvigionano
attraverso le numerosissime forme di distribuzione, dal piccolo
negozio “sotto casa”, ormai sempre più raro, alla grande
distribuzione che offre tutti insieme numerosissimi prodotti.
La movimentazione degli alimenti e il
relativo consumo di combustibili fossili ha effetti sull’aria
tutt’altro che trascurabili, anche se nelle statistiche
l’inquinamento dovuto a questa fase della catena alimentare sfugge,
perché figura nei dati relativi all’inquinamento dovuto al settore
“trasporti”. Eppure tale movimentazione riguarda diecine di
milioni di tonnellate all’anno di merci, alimenti e loro confezioni
e imballaggi, talvolta più pesanti dello stesso contenuto; si pensi
solo al trasporto attraverso l’Italia degli oltre dieci milioni di
tonnellate all’anno di acqua in bottiglia.
Dopo tanta strada, gli alimenti
arrivano finalmente alle “famiglie” in cui gli alimenti vengono
rielaborati e trasformati, anche in questo caso con immissione
nell’aria, in spazi ristretti questa volta, di sostanze chimiche
che si formano durante la cottura e la frittura. Il riscaldamento,
infatti, provoca trasformazioni della materia organica con
liberazione di gas spesso sgradevoli, che vengono poi dispersi
nell’aria, costituiti da composti organici volatili diversi dal
metano (COV come sono genericamente indicati nelle statistiche
dell’inquinamento) di variabilissima e spesso sconosciuta o
trascurata natura chimica; un esempio è l’acroleina che si forma
nella frittura.
Gas del metabolismo,
Anche nel caso degli esseri umani, come
in quello del bestiame, come è ovvio, le molecole degli alimenti non
scompaiono; in parte vengono assorbite all’interno dell’organismo
contribuendo alla crescita del corpo, ma la quasi totalità ritorna
nell’ambiente. Intanto come gas di respirazione, anidride carbonica
e vapore acqueo: per una persona media circa 10.000 metri cubi al
giorno, contenenti, in espirazione, da 0,5 a 1 kg di anidride
carbonica. Ritorna così all’atmosfera in forma gassosa parte di
quella anidride carbonica che era servita per “fabbricare” i
vegetali che sono all’inizio di questo ciclo.
Con la differenza che, a differenza del
ciclo del carbonio in natura, sostanzialmente chiuso, nel caso degli
esseri umani solo una parte del carbonio contenuto nel cibo torna
nell’atmosfera disponibile per altra fotosintesi, per altri
vegetali, per altro cibo; una parte viene immobilizzata negli
escrementi e nei rifiuti solidi. Ancora una volta, a differenza di
quanto avviene in natura, gli escrementi non ritornano direttamente
nel terreno ma sono (dovrebbero essere, per motivi igienici)
convogliati nelle stesse reti di fognature e nei depuratori nei quali
sono miscelati a molti altri rifiuti solidi e liquidi della vita
“familiare”. Si pensi ai fastidiosi residui di olio di frittura,
ma anche al cibo sprecato che in parte viene gettato nelle fognature
e in parte finisce nei rifiuti solidi urbani. Tutta questa ricchezza
d molecole contenenti carbonio e azoto genera ancora in parte
anidride carbonica con processi microbiologici di decomposizione, in
parte produce metano, composti organici volatili e ammoniaca. Anche
in questo caso, come nelle discariche di rifiuti animali, un parte
del metano può essere catturata e usata come combustibile, col che
il carbonio potrebbe tornare come anidride carbonica nell’atmosfera,
anche se una parte del carbonio originale non torna nell’atmosfera
ed è “perduta” come gas.
E’ questo il prezzo che si paga per
l’incapacità di operare, per motivi economici o per pigrizia o per
ignoranza, imitando la natura che ne sa sempre più di noi.
Impatto ambientale
della produzione alimentare sul suolo
La vita umana e quella dei vegetali e
degli animali da cui dipende la vita umana, si svolge nel grande
teatro naturale del suolo coltivabile; è lì che si formano le
piante che daranno i 10.000 milioni di tonnellate di cereali, tuberi,
foglie, frutti, eccetera indispensabili per la nostra alimentazione;
è sul suolo che svolgono la loro vita, nutrendosi di vegetali, gli
animali che forniranno la carne, il latte, le uova, circa 1.000
milioni di tonnellate all’anno, di alimenti più ricchi di proteine
essenziali. Fa eccezione la relativamente limitata, un centinaio di
milioni di tonnellate all’anno, massa di alimenti derivati dalla
pesca di animali marini.
Non è sempre stato così, anzi “la
vita” è nata nelle acque dei mari primitivi, 3500 milioni di anni
fa, e lentamente si è avuto lo spostamento di alcuni esseri viventi
sulle terre emerse. Le nude “terre” primitive sono state
colonizzate da vegetali fotosintetici che hanno “costruito” le
molecole dei propri organismi utilizzando l’energia solare e la
combinazione dell’anidride carbonica dell’aria con l’acqua
dell’aria e quella fermatasi, nel frattempo, sulle terre emerse, e
che hanno tratto gli elementi inorganici necessari disponibili in
seguito alla disgregazione delle rocce operata dalle lunghe piogge. I
biologi hanno chiamato questi organismi “produttori” in quanto
capaci di “nutrirsi” da soli con le risorse offerte dal mondo
circostante. Tanto tempo dopo le prime forme vegetali si sono evolute
in foreste, macchie, praterie e hanno ospitato altri esseri viventi
che si nutrivano dei vegetali e che a loro volta si sarebbero evolute
in quelli che chiamiamo “consumatori”, gli animali, che devono
nutrirsi di altri viventi.
Il suolo è il substrato fisico solido
in cui si è andato svolgendo questo affascinante dramma, esposto
alle continue variazioni della composizione chimica dell’atmosfera
e della temperatura superficiale del pianeta. La vita ha sempre una
fine e anzi, proprio alla fine della vita le spoglie dei vegetali e
degli animali, depositate sul suolo, sono state e sono coinvolte in
altre reazioni biochimiche che generano altra vita attraverso la
modificazione della composizione e dei caratteri dello stesso suolo.
La trasformazione delle spoglie della
vita vegetale e animale è possibile grazie alla presenza nel suolo
di una vivacissima popolazione, in genere a livello microscopico, di
organismi decompositori, capaci di trasformare chimicamente e per via
microbiologica tali spoglie in sostanze utili per altre forme di
vita.
Quando ci sediamo a tavola e
“consumiamo” gli alimenti, in genere non si pensa a quanto siamo
debitori al suolo per questi fenomeni; avete visto che ho scritto
”consumiamo fra virgolette perché in realtà il cibo non si
“consuma” ma i suoi atomi e molecole continuano sotto forma di
gas di respirazione e soprattutto di escrementi che vengono raccolti
da fognature e depuratori, i cui prodotti di trasformazione in genere
vengono “perduti” nei fiumi e nel mare, pur essendo ricchi di
sostanze che dovrebbero tornare al suolo, come è avvenuto per
millenni. Per la maggior parte degli abitanti delle civiltà urbane
il suolo è quello che calpestiamo e che seppelliamo spesso sotto
l’asfalto stradale; quello agricolo è “toccato” soltanto da un
numero sempre più limitato di coltivatori agricoli e di addetti alla
zootecnica, per lo più sconosciuti; eppure il nostro cibo dipende da
loro e dagli innumerevoli “operai” biologici ancora più
sconosciuti che operano nel suolo.
Per millenni il ciclo naturale
suolo-vegetali-animali-cibo-suolo è stato abbastanza chiuso, in
equilibrio: tanta materia sottratta, tanta materia restituita; una
popolazione non molto numerosa, si pensi che nel 1800 era di appena
900 milioni di persone nel mondo, traeva dal suolo una quantità in
media sufficiente per la sopravvivenza degli umani, e restituiva al
suolo la maggior parte degli escrementi e degli scarti e perfino
dalle spoglie dei corpi umani, dopo la morte.
Con lo sviluppo della società
industriale e urbana è cominciato il progressivo distacco della
popolazione dal suolo agrario e la popolazione urbana ha cominciato a
dipendere per il proprio cibo dall'agricoltura e dall’allevamento
degli animali, praticati da altri; è anche diminuita la restituzione
al suolo delle spoglie, degli scarti e degli escrementi. L’igiene
urbana chiedeva la raccolta separata degli escrementi e anche dei
residui della preparazione agroindustriale degli alimenti
commerciali, e il loro trattamento e trasformazione in altre scorie,
la cui destinazione finale era sempre meno la restituzione al suolo.
Si è così visto che il suolo si
impoveriva delle sostanze nutritive per i vegetali e si sono
osservate, in corrispondenza con l’aumento della popolazione umana,
della diminuzione delle rese agricole. A dire la verità, la
“stanchezza” del suolo in seguito a successive continue
coltivazioni era stata osservata fin dai tempi più antichi. Lo
sapevano gli Ebrei i cui sacerdoti, come spiega il libro biblico del
Levitico, avevano imposto, ogni cinquanta anni, di “far riposare la
terra” agricola per dar modo al suolo di reintegrare le sostanze
sottratte dalle precedenti continue coltivazioni.
Gli studiosi romani di agricoltura,
come Columella, avevano capito che un impoverimento del potere
nutritivo del suolo si verificava in seguito alla coltivazione delle
stesse specie per più anni successivi nello stesso terreno. Ed era
stato compreso che era bene alternare le coltivazioni di cereali con
quelle delle leguminose che dovevano contenere qualcosa di utile
perché, se si seppelliva il loro raccolto nel suolo, l’anno dopo
la resa dei cereali ridiventava elevata come prima.
Ci sarebbe voluto il grande chimico
tedesco Justus von Liebig, nella metà dell’Ottocento, per spiegare
che quel “qualcosa” restituito dalle leguminose al terreno era
l’elemento azoto di cui le leguminose erano ricche perché le loro
radici erano dotate di speciali microrganismi che “fissavano”
l’azoto dell’aria direttamente nelle piante. Le leguminose,
lasciate decomporre nel terreno, rendevano il loro azoto disponibile
per le successive coltivazioni dei cereali per la cui crescita
occorreva non solo azoto, ma anche fosforo e altri elementi la cui
carenza nel suolo influenzava le rese agricole. Liebig spiegò che
bastava la mancanza di una sola delle sostanze nutritive del suolo
per far diminuire le rese delle coltivazioni e formulò la “legge
del minimo”, forse la prima espressione scientifica dell’esistenza
di fattori limitanti della crescita.
Liebig spiegò anche che la crescente
popolazione mondiale avrebbe potuto essere sfamata restituendo al
terreno azoto e fosforo con l’aggiunta di sostanze contenenti
questi elementi: leguminose, poi escrementi e residui organici, poi
con l’addizione di minerali contenenti tali elementi ed esistenti
nelle rocce naturali. Grandi depositi di escrementi di uccelli
marini, in parte mineralizzati, si trovavano nelle isole peruviane;
nitrati in grandi estensioni si trovavano nell’altopiano del Cile,
fosfati in molte zone dell’Africa.
Liebig fu, oltre che un grande
scienziato, un fertile divulgatore della storia naturale del suolo;
pubblicava a puntate le sue più recenti scoperte scientifiche nei
quotidiani a grande tiratura; le sue “Lettere sull’agricoltura”
venivano poi raccolte in volumi che furono tradotti in moltissime
lingue e che aprirono gli occhi del mondo sulle proprietà del suolo.
Non solo: Liebig spiegò anche che gli
elementi nutritivi potevano essere assorbiti dalle piante soltanto se
erano in forma di sali solubili in acqua perché il suolo non è un
corpo solido, ma è pieno di acqua e in questa acqua del suolo le
piante immergono le radici e da essa traggono, appunto, le sostanze
nutritive che vi sono disciolte. Ad esempio i fosfati del Nord Africa
contenevano fosforo sotto forma di fosfato tricalcico Ca3(PO4)2,
insolubile in acqua ed erano quindi inutili ai fini della nutrizione
vegetale; Liebig spiegò che solo trattando i minerali fosfatici con
acido solforico si potevano trasformare nelle due forme di fosfato
dicalcico CaHPO4 e monocalcico Ca(H2PO4)2, solubili in acqua e utili
per l’agricoltura. Nasceva così l’industria dei concimi
“artificiali”.
Il nitrato di sodio del Cile andava
bene perché era solubile in acqua, ma l’azoto degli escrementi e
del guano può diventare utile per l’agricoltura soltanto se viene
trasformato in nitrato. Liebig e altri descrissero la chimica del
ciclo dell’azoto: l’azoto delle molecole proteiche e organiche,
per diventare assimilabile deve essere trasformato per via
microbiologica in sali di ammonio che, a loro volta vengono
trasformati, da speciali batteri del suolo, dapprima in nitriti e poi
in nitrati solubili e finalmente assimilabili.
Per la diffusione internazionale di
queste idee fu fondamentale il suo libro "La chimica (organica)
e il suo impiego in agricoltura e fisiologia" del 1840, con
immediate traduzioni in moltissime lingue. Liebig insistette comunque
sull'importanza della materia organica nel terreno e sulla necessità
di conservarne il contenuto di humus e anzi di arricchirlo mediante
concimi organici, anticipando in questo molti dei principi della
agricoltura "organica", in un corretto equilibrio fra i
concimi artificiali e quelli naturali.
L’autentica scienza del suolo è nata
peraltro, nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di due
scienziati russi, Vasilij Dokaecev e Sergei Vinogradskij. Il
primo, osservando le conseguenze sull’agricoltura delle ripetute
siccità dell’Ottocento, con pericolo per l’esaurimento della
fertilità della steppa, fonte di ricche esportazioni
di cereali, confrontò le teorie proposte da geografi, geologi e
botanici e spiegò le trasformazioni fisiche e chimiche dei terreni,
la “metamorfosi”, e il rapporto fra la struttura dei terreni e il
clima. Vinogradskij era un chimico e un medico e, partendo dalle
osservazioni di Louis Pasteur, sviluppò le conoscenze sulla
microbiologia del suolo.
In questa atmosfera culturale furono
elaborate varie classificazioni dei suoli: una di queste è basata
sul diametro delle diverse particelle, separate, dopo essiccazione
del suolo, mediante setacci in frazioni distinguendo le particelle
con diametro superiore a 2 mm, la sabbia con diametro compreso fra 2
e 0,2 mm, il limo, con diametro fra 0,02 e 0,002 mm e l’argilla,
con diametro inferiore a 0,002 mm. La sostanza organica è in gran
parte costituita dalle spoglie di vegetali e animali, più o meno
trasformate.
La pedologia conobbe un grande sviluppo
negli Stati Uniti in seguito ai gravi fenomeni di erosione del suolo
dovuta al vento, e alle siccità che colpirono il paese soprattutto
nei primi decenni del Novecento. Apparve chiaro che i danni, anche
economici, oltre che ecologici, erano dovuti all’eccessivo
sfruttamento agricolo del suolo e alla mancanza di appropriate azioni
di manutenzione. Hugh Hammond Bennett fu un agronomo che diffuse
l’attenzione per le perdite di suolo fertile: un suo libro del
1928, intitolato: “Soil erosion: a national menace”, spinse
l’amministrazione Roosevelt ad istituire, nel 1933 un Soil Erosion
Service nell’ambito del ministero dell’Interno (che, negli Stati
Uniti, a differenza degli omonimi ministeri europei che sono
soprattutto ministeri di polizia, era il ministero delle risorse
naturali). Nel 1935 una speciale legge trasferì il servizio, col
nome di Soil Conservation Service (si noti il cambiamento del nome,
da “difesa contro l’erosione”, a “conservazione del suolo”
per le generazioni future) al Dipartimento dell’agricoltura.
Conservazione necessaria non solo per motivi ecologici, ma anche per
rispondere a quell’invito a ”Nutrire il pianeta” che è stato
scelto come motivo dell’esposizione universale di Milano EXPO
2015.
E si sa bene quanto queste
considerazioni sono (sarebbero) importanti per l’Italia dove si
perdono continuamente, ogni anno, migliaia di ettari fertili per fare
posto ad strade e autostrade, a ferrovie, a quartieri urbani, fino a
distese di pannelli solari secondo la nuova moda che, nel nome delle
energie rinnovabili, è divenuta fonte di speculazioni finanziarie e
di perdita delle risorse naturali che sono le uniche veramente
rinnovabili e durature. In Italia si parla tanto di ”consumo di
suolo” ma azioni efficaci saranno possibili soltanto con la
diffusione di una autentica cultura del suolo, base della nostra vita
e della nostra economia.
Impatto ambientale
della produzione alimentare sulla gestione dei rifiuti
Si è già accennato negli articoli
precedenti che il cibo umano è il risultato di una lunga catena di
scambi materiali che vanno dall’agricoltura e zootecnia, alle
industrie di trasformazione, alla distribuzione, fino ad arrivare ai
“consumatori” finali, famiglie, comunità, ristorazione
collettiva, eccetera. I quali non “consumano” niente: non fanno
altro che trasformare il cibo in sostanze solide, liquide e gassose.
Ciascun passaggio di questa catena è integrato dall’aggiunta di
energia, di acqua, di prodotti industriali come imballaggi e alla
fine i materiali di tutte queste operazioni finiscono nell’ambiente
naturale.
I conti che seguono si riferiscono ai
60 milioni di abitanti dell’Italia, ma, fatte le debite proporzioni
per diversi numeri di abitanti, possono valere per altri paesi
europei. Si tratta di ordini di grandezza e si propongono di
identificare le masse di rifiuti solidi che si formano
nell’agricoltura, nella zootecnia e nell’industria
agroalimentare. Da tali conti sono escluse le quantità di acqua
impiegata per l’irrigazione in agricoltura, in parte assorbita
dalla biomassa vegetale, impiegata per abbeverare gli animali da
allevamento e che in parte si ritrova nella biomassa animale e negli
escrementi, impiegata nei processi industriali e l’acqua potabile
usata dai consumatori finali e che in parte si ritrova negli
escrementi.
La massa di alimenti (espressi come
biomassa secca) usati dai “consumatori” finali ammonta a circa
700 grammi al giorno per persona, pari a circa 250 kg all’anno, a
loro volta corrispondenti a circa 500 kg all’anno, tenuto conto
dell’acqua che essi contengono. La massa di alimenti vegetali e
animali tali-e-quali ”consumati” in Italia si può stimare di
circa 30 milioni di tonnellate all’anno, circa 25 di prodotti
vegetali e circa 5 di prodotti animali. In Europa tale flusso di
biomassa tale-e-quale si può stimare di circa 150-200 milioni di
tonnellate/anno.
I rifiuti nella fase
agricola
Ai fini dell’analisi del flusso di
“rifiuti solidi”, considerati come materiali solidi che si
formano come scorie, residui e rifiuti nelle varie fasi del ciclo
della produzione alimentare, con l’agricoltura e con la situazione
italiana: la biomassa vegetale destinata all’alimentazione umana e
degli animali da allevamento si può stimare di circa 100 milioni di
t/anno: cereali, tuberi, frutta, verdura, eccetera, con un contenuto
di acqua variabile fra 10 e 80 %. Di questi circa 50 vanno ai
processi di trasformazione e circa 50 sono assorbiti
dall’alimentazione del bestiame.
La biomassa vegetale “utile” a fini
alimentari è accompagnata da una produzione di circa 50 milioni di
t/anno di biomassa vegetale che si separa nelle operazioni di
raccolta e che è costituita da scarti agricoli diversissimi come
composizione chimica, prevalentemente di natura lignocellulosica; una
parte trova impiego peri impieghi ausiliari non alimentari in
agricoltura e zootecnica; una parte finisce nell’ambiente bruciata
o sepolta nel suolo in modo da recuperarne il contenuto di elementi
nutritivi per il terreno.
Zootecnia
I circa 50 milioni di tonnellate/anno
di biomassa vegetale assorbita dagli animali da allevamento consente
di ottenere circa 20 milioni di t/anno di biomassa animale che, per
successivi trattamenti, fornisce latte, carne, uova, importanti per
l’alimentazione umana; gli alimenti di origine animale, infatti,
sono ricchi, più di quelli di origine vegetale, degli amminoacidi
essenziali, necessari per la formazione delle proteine del corpo
umano, che l’organismo umano non è capace di sintetizzare e che
pertanto devono essere apportati con la dieta.
In grossolana approssimazione si può
calcolare che la popolazione di animali da allevamento, bovini, suini
e pollame, abbia una biomassa complessiva di circa 5 milioni di
tonnellate di peso vivo. Il fabbisogno alimentare si può stimare in
media di circa 10 t di biomassa vegetale tale-e-quale all’anno per
t di peso vivo, corrispondente quindi ai quei circa 50 milioni di
t/anno di biomassa vegetale a cui si faceva cenno prima. Tale
biomassa è costituita da erba, mangimi a loro volta contenenti parte
dei sottoprodotti e residui che si formano nella trasformazione della
biomassa agricola vegetale in prodotti per l’alimentazione umana.
Nel corso del metabolismo animale si
formano, oltre ai gas della respirazione, circa 10 t/anno di
escrementi per t di peso vivo, complessivamente circa 50 milioni di
tonnellate nelle quali la parte solida (circa il 10 %) e quella
liquida sono miscelate; i circa 5 milioni di t/anno di materia solida
degli escrementi in parte vengono sottoposti a qualche forma di
depurazione, eventualmente con recupero di fanghi e di biogas, in
parte vengono immessi nel terreno al quale possono restituire una
parte degli elementi nutritivi sottratti dall’agricoltura.
Gli allevamenti zootecnici forniscono
ai processi di trasformazione quei circa 20 milioni di t/anno, prima
ricordati, di materiali di cui una parte, circa 5 milioni di t/anno
si ritroverà sotto forma di alimenti per i consumatori finali umani.
Industria agroalimentare
Come si è già accennato, la biomassa
di origine vegetale e animale prodotta dall’agricoltura e dalla
zootecnica praticamente non arriva sulle nostre tavole come tale;
anche le uova, che la natura ha “preconfezionate” con il loro
imballaggio, o verdura e frutta subiscono qualche trattamento di
lavaggio e confezionamento.
Le operazioni di trasformazione e
conservazione sono numerosissime: in ciascuna una parte della
biomassa va “perduta” sotto forma di rifiuti solidi.
I valori relativi alla massa di rifiuti
solidi delle industrie agroalimentari sono molto incerti e variano a
seconda della dimensione dell’azienda di trasformazione dei
processi di trasformazione, della richiesta del mercato; ad esempio
un’eccedenza di produzione o la contrazione della richiesta possono
provocare la distruzione di biomassa vegetale o animale di valore
alimentare che diventa rifiuti da smaltire.
Qualche dato si può ricavare da uno
studio di settore del 2001 su “I rifiuti del comparto
agroalimentare” dell’Agenzia Nazionale per la Protezione
dell’Ambiente e dall’Osservatorio Nazionale dei Rifiuti.
Solo pochi dati relativi all’Italia.
La produzione di circa 7 milioni di t/anno di frumento duro e tenero
è accompagnata dalla formazione di circa altrettanti steli e paglia;
nel processo di macinazione delle cariossidi per produrre,
rispettivamente, semole e farina si formano oltre un milione di
t/anno di cruscami che solo in parte sono usati come alimenti del
bestiame.
Nei processi di vinificazione si
formano circa 1,2 milioni di t /anno di raspi e fecce. Nella
produzione di zucchero dalle barbabietole, ormai molto ridotta in
Italia, si ottengono circa 10 kg di terra e fogliame di scarto per t
di barbabietole lavorate, corrispondenti a circa 50 kg di scarti per
t di zucchero prodotto. Questi sottoprodotti sono in genere immessi
in discariche nel terreno. Nel processo di estrazione si formano per
ogni t di zucchero, circa 4 kg di polpe fresche che vengono in parte
essiccate e usate come alimento per bestiame.
Ogni 17 kg di conserva di pomodoro,
ottenuta da 100 kg di pomodori, si formano circa 3,5 kg di rifiuti
costituiti da semi, pellicole, ecc. Simili scarti e rifiuti solidi si
hanno nei processi di produzione di marmellate, altri vegetali in
scatola, succhi di frutta.
Nella produzione di circa 400.000 t
all’anno di succo di arancia si formano come sottoprodotto circa
500.000 t all’anno il “pastazzo” contenente circa il 20 % di
sostanza secca costituita da acidi, vitamine, sali inorganici; una
parte viene impiegata nell’alimentazione del bestiame. Una parte di
questo residuo viene avviata alla produzione di compost, un additivo
per il terreno e una parte viene smaltita come rifiuti organici.
Talvolta i rifiuti solidi sono trattati industrialmente per ricavarne
prodotti commerciali; è il caso dell’olio essenziale che si
recupera in ragione dello 0,2-0,5 % delle bucce delle arance lavorate
e che viene impiegato in cosmesi e nell’industria alimentare.
Fra gli alimenti di origine animale, si
possono ricordare i sottoprodotti della macellazione. Da 1000 kg di
peso vivo di animale macellato si ottengono circa 500 kg di carne
destinata alla distribuzione, parte della quale verrà utilizzata dai
consumatori finali o dalle industrie di trasformazione; al fianco
della carne nei macelli si ottengono, sempre per 1000 kg di peso
vivo, circa 80 kg di pelli, circa 40 kg di sangue e il resto è
costituito da rifiuti solidi e liquidi, in parte sottoposti a
trattamenti di depurazione e in parte destinati a discarica. Nel caso
di epidemie, intere carcasse di animali infetti sono sepolti in
discarica o bruciati.
Il latte, prodotto in Italia in
quantità di circa 10 milioni di tonnellate all’anno, in parte
viene utilizzato per la distribuzione diretta, previa sterilizzazione
e imbottigliamento, e in parte viene trasformato in formaggi, circa
un milione di t/anno, con formazione di sottoprodotti costituiti per
lo più da siero; il siero prodotto nei caseifici contiene circa 1
milione di t/anno di sostanze solide, una parte delle quali viene
smaltita nell’ambiente.
In Italia si consumano ogni anno circa
13 miliardi di uova; i gusci rappresentano una massa di circa 80.000
t/anno e sono in parte dispersi nei rifiuti urbani, durante l’uso
domestico, in parte sono ottenuti come rifiuti nelle attività
artigianali e industriali che usano le uova per la produzione di
paste alimentari e dolciumi o per l’essiccazione.
Alla fine dei processi di trattamento e
conservazione della biomassa vegetale e animale destinata
all’alimentazione umana i vari prodotti vengono, per la maggior
parte, avviati alla distribuzione confezionati entro imballaggi che
vanno da materie plastiche, a cartoni, a bottiglie di vetro, a
scatolami di alluminio o di banda stagnata utilizzati in ragione di
circa 5 milioni di t/anno.
Distribuzione e “consumo”
finale
Tutti i prodotti alimentari arrivano al
consumatore finale attraverso innumerevoli mercati, negozi e
supermercati nei quali si formano altri residui solidi, per lo più
sotto forma di imballaggi e di scarti di alimenti invenduti.
Alla fine di questo lungo cammino dai
campi alla cucina i circa 30 milioni di t/anno di biomassa vegetale e
animale tale-e-quale di alimenti per il consumatore finale, vengono
infine trasformati, metabolizzati e trasformati, da ciascuna persona,
in prodotti gassosi e liquidi e solidi. La frazione solida degli
escrementi umani ammonta a circa 3 milioni di t/anno, che finiscono
per lo più nelle fogne e nei depuratori di rifiuti domestici; qui in
parte vengono trasformati in fanghi destinati a discarica, in parte
sono decomposti da microrganismi in composti liquidi o gassosi come
il biogas.
La parte di alimenti acquistati ma non
“consumati”, metabolizzati, dalle famiglie e nelle operazioni di
ristorazione collettiva, stimabile in circa 20 milioni di t/anno, è
costituita da residui di cibo e di operazioni di cucina, a cui si
aggiungono circa 4 milioni di t/anno di imballaggi; circa 400.000
tonnellate soltanto le bottiglie di plastica e vetro che trasportano
ai consumatori finali 11 milioni di t/anno di acqua in bottiglie.
Questa massa di materie finisce nei rifiuti solidi urbani, solo in
parte riutilizzata e riciclata.
Un breve bilancio.
Si può concludere questa rapida corsa
nei cicli produttivi degli alimenti riconoscendo che il ciclo
agricoltura-zootecnia-industria-consumo, iniziato con circa 150
milioni di t/anno di biomassa vegetale tale-e-quale, così come è
come fornita dalla natura, dopo aver soddisfatto il fabbisogno
nutritivo dei circa 60 milioni di abitanti dell’Italia, comporta la
produzione di circa 90 milioni di t/anno di materie solide come
scarti, residui e rifiuti che in varie forme ritornano nei corpi
riceventi naturali; il resto è costituito dai gas del metabolismo
umano e animale e da una parte dell’acqua contenuta originariamente
nella biomassa vegetale e animale.
Questa rilevante massa di materiali ha
un contenuto energetico equivalente a quello di alcuni milioni di t
di petrolio, nella sola Italia. In una società opulenta, come la
nostra e quelle occidentali, vale la pena recuperare soltanto una
piccola parte di tale energia (quel po’ di biogas degli escrementi
degli allevamenti animali e poco altro). Ma il tema dell’EXPO 2015,
“Nutrire il pianeta. Energia per la vita” suggerisce che nelle
società in via di sviluppo l’”estrazione” di energia dai
sottoprodotti agricoli, soprattutto quelli lignocellulosici, che
residuano dopo che sono state nutrite le persone, aspetta soltanto
innovazioni tecnico-scientifiche che aiutino quelle comunità a
disporre di calore ed elettricità che rendano meno dura l’attuale
vita. Una sfida che l’esposizione universale di Milano nell’anno
prossimo spero induca molti, anche in Italia, ad accogliere anche
come occasione di occupazione, di imprese e di soldi. Senza contare
che tale “estrazione” un giorno potrebbe diventare utile anche
nelle società oggi opulente.
Articolo
pubblicato per la prima volta in “Energie&Ambiente”,
marzo-novembre 2014.