Alberto Berton
18 giugno 2015
Caro Giorgio,
mi ricordo una mattina del 2012 quando in auto sull’autostrada verso
Brescia ti ho chiamato per conoscere la tua opinione in merito all’uso del
temine “bioeconomy” che si stava diffondendo a livello delle agende politiche
occidentali. La sera prima avevo letto il “National Bioeconomy Blueprint”, il
documento reso pubblico dall’amministrazione Obama e presentato come iniziativa
strategica di sostegno alla “green economy”.
Coltivando da anni la passione per lo studio del pensiero di Nicholas
Georgescu Roegen, economista radicale (come tu l’hai definito) padre della
“bioeconomics”, ero stato positivamente colpito dal titolo del documento
governativo americano. Dalla sua lettura però mi ero reso subito conto che si trattava
nella sostanza della strategia di sviluppo dell’industria biotecnologica
americana nei settori dell’agro-alimentare, del farmaceutico e del chimico.
Occupandomi professionalmente di sviluppo dell’agricoltura biologica, rimasi un
po’ amareggiato dall’uso dell’etichetta “bioeconomy”, in un contesto che vedevo
molto distante dalla teoria e dalla pratica di quella che io intendevo come
“bioeconomics”.
Quando al telefono ti esposi i miei dubbi, mi dicesti divertito che
storie di usi diversi e contradditori dello stesso termine, di metamorfosi e
distorsioni dei concetti, sono sempre avvenute, come per esempio con la parola
“ecologia” dagli anni ’70 in poi. Tagliasti corto sulle mie perplessità e
preoccupazioni, dicendomi che “bisogna avere pazienza” e mi consigliasti di
sorvolare su questo tema che “interessa solo te , me e pochi altri” e di
occuparmi di temi più utili ai cittadini come quello delle frodi bio. Seguii il
tuo consiglio e non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi mostrato una via,
quella della storia e dell’analisi delle frodi, che va al cuore di aspetti
sempre più importanti e attuali dello sviluppo dell’agricoltura biologica.
La recente pubblicazione del libro intitolato “Bioeconomia” di Beppe
Croce, Stefano Ciafani e Luca Lazzeri, con prefazione di Gunter Pauli, ci da’
però l’occasione, dopo qualche anno, di ritornare a riflettere sul rapporto tra
“bioeconomy” e “bioeconomics”. Seguendo la metamorfosi che il termine
“bioeconomy” ha avuto nel complesso contesto normativo europeo, dove dal focus
sulle biotecnologie della “knowledge based bio-economy” si è passati prima con
la “bio-based economy” e infine con la “bio-economy” al focus sull’origine
biologica della materia prima, gli autori del testo di Edizioni Ambiente,
affermano che bioeconomia in estrema
sintesi significa che il motore dell’economia dei prossimi decenni saranno le
risorse rinnovabili di origine biologica, in progressiva sostituzione del
petrolio e delle altre sostanze fossili. Nel primo capitolo, dopo avere
accennato, all’uso sempre più diffuso del termine “bioeconomy” a livello
politico internazionale, Croce, Ciafani e Lazzeri ne ricercano la base teorica
nel pensiero di Nicholas Georgescu Roegen.
Del resto già l’anno scorso Mario Bonaccorso, fondatore del primo blog
sulla bioeconomy, ilbioeconimista.com , e responsabile dell’area marketing di
Assobiotec, l’Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie,
chiudeva l’introduzione al suo libro “Inside the World Bioeconomy” con un
tributo a Nicholas Georgescu Roegen.
Tu hai studiato per decenni il pensiero del grande economista rumeno,
con il quale hai avuto dei rapporti epistolari diretti proprio per cercare di
fare luce sull’origine e il significato del termine bioeconomia. Sei un chimico
e da sempre ti interessi agli usi non alimentari della biomassa, sui quali ti
sei recentemente espresso e sui quali si sta focalizzando la strategia italiana
nella “chimica verde” con le bio-plastiche. Come vedi il rapporto tra questa
nuova “bioeconomy” e l’originale “bioeconomics” di Georgescu Roegen ?
***
Giorgio Nebbia
Socrate: “L’inizio della saggezza è una definizione dei termini”.
Lewis Carroll, "Quando uso una parola", Humpty
Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, "essa significa esattamente
quello che voglio – né di più né di meno."
"La domanda è", rispose Alice, "se si può fare in modo che le
parole abbiano tanti significati diversi."
"La domanda è," replicò Humpty Dumpty, "chi è che comanda – tutto
qui."
Mi pare che non ci sia migliore inizio di questo colloquio del breve
dialogo fra Alice e Humpty Dumpty per descrivere la confusione esistente
nell’uso del prefisso “bio” per indicare cose diversissime e spesso in
contrasto fra loro.
La radice è ovviamente antichissima a cominciare dalla parola biologia
che indica lo studio, la conoscenza, dei fenomeni vitali; il prefisso “bio”
indica, quindi, qualcosa che ha a che fare con la vita e, per estensione,
qualcosa che è, intrinsecamente, “buona”. Il termine “bioeconomia” è invece
relativamente recente ed è diventato popolare in seguito ad una curiosa
sequenza di eventi. L’economista romeno-americano Nicholas Georgescu Roegen
l’ha usato nel titolo di una conferenza tenuta l’8 novembre 1972: “Bioeconomic aspects
of entropy”, seguendo il suggerimento che gli era stato dato in una lettera
dell’aprile dello stesso anno dall’economista cecoslovacco Jiri Zeman
ispirandosi al contenuto nel libro del 1971 dello stesso Georgescu Roegen: “The
entropy law and the economic process”.
Linneo ”economia della natura”
Haeckel
Bioeconomia come dinamica delle popolazioni
T.I. Baranov (1918)
Grigorei Antipa (anni 20-30)
Costantinescu
[In vari autori precedenti la parola “bioeconomia” è utilizzata] ma
solo per indicare l’analisi economica di certi fenomeni biologici come il
ripopolamento ittico a seguito dell’attività di pesca, non una visione
complessiva del processo economico. Sempre nello stesso senso di “economia”,
bilancio, dinamica delle popolazioni animali, e in particolare dei pesci, lo
stesso termine è stato usato da Colin W. Clark nel libro: “Mathematical
bioeconomics. Tje optimal management of renewable resources”, Wiley, 1976, che
non cita Baranoff e che indica come “bionomic equilibrium” la massima quantità
di pescato che assicura la riproduzione dei pesci in modo da renderli
disponibili per la pesca nella successiva stagione.
La tesi del libro di Georgescu Roegen è che il difetto dell’economia
sta nel fatto che descrive dei fatti fisici, lo scambio di merci e, del loro
vettore, il denaro, fra diversi soggetti. Se un soggetto da del denaro ad un
altro soggetto per acquistare una merce, può rivendere la stessa merce a un
secondo soggetto in cambio di una quantità maggiore di denaro e in questo caso
ne ha un profitto; se lo vende ad un terzo soggetto ad un prezzo superiore a
quello pagato ne ha un profitto, se lo vende ad un prezzo inferiore il profitto
va al secondo venditore. “Merce” significa qualsiasi cosa: il pane, il servizio
mobilità, il lavoro o il denaro stesso
Georgescu Roegen osservò che tutto cambia se si applica all’economia il
secondo principio della termodinamica, che governa ineluttabilmente tutte le
cose reali; ogni volta che si ha scambio, vogliamo dire “commercio”, di energia
fra due corpi, uno caldo e uno freddo, ci si rimette sempre; il corpo freddo
non può restituire tutta l’energia (calore o energia meccanica) ricevuta a
quello caldo. L’energia è sempre la stessa (primo principio), ma nello scambio
una frazione va perduta, e, dopo vari passaggi, alla fine nello spazio
interplanetario e l’energia “utile”, in ciascun passaggio, è sempre meno.
L’energia perduta in ciascun passaggio prende il nome di entropia ed aumenta
sempre.
Anche l’economia deve imparare che in ogni “commercio”, il denaro può
anche aumentare, ma i beni del mondo reale --- fertilità del suolo, minerali
estraibili, capacità ricettiva dell’aria e delle acque --- diminuiscono sempre.
In vari scritti e testi di conferenze negli anni 1972-74, raccolti poi
in un volume che ebbe varie traduzioni, Georgescu Roegen introduce il termine
“bioeconomia” per auspicare una svolta dell’economia che si ispiri ai cicli
della vita nei quali le perdite di materia ed energia sono ridotte al minimo. A
tali cicli dovrebbe ispirarsi la qualità e la quantità dei beni materiali usati
dagli uomini, con scelte che rendano minime le perdite di materia ed energia
“utili” e l’aumento di entropia. Ricordando peraltro che tale aumento c’è
sempre, con buona pace delle virtù del riciclaggio e dei “rifiuti zero”.
Per chiarire meglio il suo pensiero Georgescu-Roegen precisò che nel
mondo umano il principio dell’entropia vale non solo per l’energia, ma anche
per la materia; a differenza della natura in cui le scorie della vita sono
materie prime per altra vita, nel mondo umano la produzione dei beni materiali
comporta l’estrazione dalla natura di fonti di energia e di minerali che
vengono trasformati in merci che, dopo l’uso, non possono tornare più in forma
utilizzabile da altri; anche la “materia conta”, soggetta ad una specie di
“legge” dell’entropia, quella che Georgescu Roegen ha chiamato “il quarto
principio” della termodinamica. Il principio della conservazione della massa
spiega bene che la massa in circolazione è sempre la stessa ma, dopo la
produzione e l’uso nell’antroposfera, è in una forma con più alta “entropia” e
quindi non può più essere utile.
La conclusione è che l’operare umano nella natura, a differenza di
quanto avviene nella vita, possono anche aumentare i beni materiali ma
diminuisce la utilità della natura come fonte di materie prime e come ricettore
dei rifiuti. E’ prevedibile quindi un tempo in cui sarà necessario smettere di
produrre beni materiali “umani”.
La traduzione francese di una raccolta di saggi di Georgescu Roegen fu
intitolata “La decroissance” e, grazie all’implicita equivalenza fra
bioeconomia e decrescita, il termine bioeconomia ebbe quindi un grande successo
in un momento in cui il dibattito sui “Limiti alla crescita” (1972) stava
attraversando il mondo delle persone attente ai problemi ambientali, che
chiamerò per semplicità “ambientalisti”.
A questo punto “bioeconomia”, come pochi anni prima “ecologia”,
diventava bandiera di un movimento di contestazione dell’industria, della
finanza, degli affari, del consumismo. Di quel movimento che sarebbe stato
chiamato di decrescita che, a mio parere, si è manifestato principalmente in
Europa, con radici in Francia, nel mondo ispanico, in Italia nelle varie forme
di “decrescita felice” e simili, con minore attenzione nel mondo anglosassone.
Il termine “bioeconomia” è stato sostanzialmente ignorato per molto
tempo nelle violente critiche contro qualsiasi idea di decrescita, e
resuscitato, più o meno negli anni novanta, come bandiera delle biotecnologie,
progetto per continuare a produrre merci e ad inquinare, anche se “un po’
meno”, sfruttando le risorse della natura.
Secondo il mio parere gli usi ”diversi” di qualcosa che sia “bio” è
soltanto un maldestro tentativo di scansare le inevitabili scomodità del
“quarto principio”, cioè di spostare più avanti quella morte entropica della
materia che mette in discussione l’operare dell’economia dei soldi.
***
Alberto Berton
Lao Tzu: “La Via veramente Via non è una via costante. I Termini veramente
Termini non sono termini costanti”
Il termine “bioeconomia”, nella sua
accezione più generale, riflette il tentativo di trovare un collegamento tra la
biologia e l’economia. Nella storia del pensiero economico le analogie con i
fenomeni della vita si trovano a fondamento dei contributi di diversi autori.
William Petty (1623-1687), uno dei primi
economisti del Seicento, prese spunto dalla riproduzione animale quando definì
“la terra e il lavoro” come “la mamma e il papà” delle merci e del loro valore.
Francois Quesnay (1694-1774), il medico chirurgo della corte di Luigi XV,
fondatore della prima scuola del pensiero economico classico, la Fiosiocrazia,
fu ispirato dagli studi sul sistema circolatorio di William Harvey (1578-1657)
per sviluppare la sua visione del sistema economico come un “corpo” composto da
più organi (le classi sociali) che si riproduce periodicamente e autonomamente
grazie ad un flusso di materia proveniente dall’ambiente naturale (la
produzione agricola) e ad un processo di circolazione interna (il flusso
circolare del prodotto netto e del denaro tra le classi sociali).
Nel pensiero economico,
la visione armonica dell’economia agricola feudale tipica della Fisiocrazia
lasciò presto il passo alla visione più disarmonica, dominata dalla
contrapposizione tra le classe sociali, della nascente economia industriale. Su
quest’ultima visione, David Ricardo (1772-1823) sviluppò la sua analisi volta a
sostenere gli interessi della borghesia contro quelli dei proprietari terrieri,
ma proprio sulla teoria ricardiana Karl Marx (1818-1883) costruì poi il suo sistema
di pensiero basato sullo sfruttamento della classe lavoratrice. Fu in questo
contesto di grande conflittualità economico e politica che si gettarono le
fondamenta dell’economia neoclassica, il pensiero economico ancora oggi
dominante, recidendo di netto le analogie con la biologia per sostituirli con
quelli con la meccanica newtoniana.
“Una cosa che trovo perfettamente soddisfacente nel piano del tuo
lavoro, è la tua intenzione -che approvo sotto ogni punto di vista- di tenerti
nei limiti più inoffensivi rispetto ai signori proprietari. Bisogna dedicarsi
all’economia politica come ci si dedicherebbe all’acustica o alla meccanica”:
così scriveva nel 1859 Auguste Walras in una lettera indirizzata al figlio Léon
Walrlas (1834-1910), autore della teoria dell’equilibrio economico generale, la
“Magna Charta della teoria economica”
(Schumpeter).
Il XIX secolo fu del
resto il secolo della meccanica e la visione newtoniana del mondo e il metodo
di ragionamento logico-matematico (l’epistemologia meccanicistica)
rappresentarono gli ideali scientifici dell’epoca. Con l’economia neoclassica,
le analogie con i fenomeni meccanici presero così il posto delle analogie con i
fenomeni biologici. Alla visione biologica dell’economia come di un organismo
che si riproduce nel tempo, si sostituì la visione meccanicistica dell’economia
come un sistema composto da atomi umani che agiscono in un mondo astorico,
conservativo ed isolato (il mercato) secondo un calcolo matematico, universale
ed eterno, volto alla massimizzazione dell’interesse personale. L’obiettivo
della nuova teoria fu dimostrare “scientificamente” che il libero mercato
conduce ad una situazione di equilibrio, l’incrocio tra domanda e offerta, che
è unica, stabile e ottima per tutti. Il cambiamento fu ridotto allo
spostamento, sempre reversibile, da una situazione di equilibrio all’altra.
Visione politicamente e teoricamente
corretta per i canoni dell’epoca, quella neoclassica, che però male si adatta
allo studio dei fenomeni economici evolutivi e quindi irreversibili, come
l’innovazione tecnologica. Consapevole di questo limite, e interessato proprio
a questo ultimo tipo di fenomeni, il grande economista inglese Alfred Marshall
(1842-1924), in piena rivoluzione marginalista, ammonì “La Mecca dell’economista è l’economia biologica piuttosto che la
dinamica economica”.
Nel corso del XX secolo pochissimi
economisti fecero tesoro dell’ammonimento di Marshall. Tra questi Joseph
Schumpeter (1883-1950), che individuò l’origine dello sviluppo economico nel
flusso discontinuo di innovazioni tecnologiche ed organizzative, che svolgono
una funzione analoga alle mutazioni nell’evoluzione biologica.
Ma chi (dopo avere messo in discussione le
basi logico-matematiche della razionalità economica neoclassica), pose le
fondamenta di un nuovo approccio allo studio del processo economico veramente
slegato dall’epistemologia meccanicistica e fondato sulle conoscenze dei
fenomeni irreversibili e vitali fu appunto Georgescu Roegen, allievo di
Schumpeter.
La visione roegeniana del processo
economico prese spunto dalla descrizione della vita dal punto di vista
termodinamico espressa dal fisico e matematico austriaco Erwin
Schrodinger(1887-1961) nel suo celebre libro “What is Life” (1944). Gli organismi viventi mantengono la propria
organizzazione, alimentandosi di bassa entropia, estraendo l’ordine
dall’ambiente naturale e restituendolo in forma degradata, anche se non
completamente, in quanto ancora utile agli organismi decompositori e infine
alle piante. Seguendo la distinzione proposta dallo scienziato americano Alfred
Lotka (1884-1946) tra strumenti endosomatici e strumenti esosomatici, Georgescu
Roegen sottolineò quindi il fatto che, in questa lotta per la vita, mentre
tutti gli esseri viventi usano strumenti endosomatici, ovvero quelli di cui è
dotato il corpo come denti, artigli, arti, ali, ecc; l’uomo nella sua
evoluzione si è distinto per l’utilizzo di strumenti “esosomatici, ovvero
esterni al proprio corpo e che sono in qualche modo prodotti. L’evoluzione
esosomatica dell’uomo (dall’amigdala agli aerei supersonici) ha permesso alla
nostra specie di raggiungere traguardi inimmaginabili, ma nel contempo ci ha
reso sempre più dipendenti dalla bassa entropia che giace sotto la crosta
terrestre (combustibili fossili, minerali ad alto contenuto di metalli) che,
una volta estratta e utilizzata, non può essere completamente rigenerata,
accumulandosi come rifiuto nell’ambiente. Oltre a creare questa dipendenza
irreversibile dalle risorse esauribili, che costituisce il problema
bioeconomico propriamente detto, la costruzioni di strumenti sempre più grandi,
potenti e sofisticati ha reso la produzione un’attività sociale e la
distribuzione della ricchezza generata un problema politico e istituzionale.
Come lui stesso ti ha scritto, Georgescu Roegen iniziò ad utilizzare il termine
“bioeconomia”, suggeritogli di Jeri Zeman, in quanto lo considerò una buona
etichetta per questa sua visione del processo economico come un’estensione
dell’evoluzione biologica.
Pensiero complesso e estremamente scomodo
quello di Georgescu Roegen che non lascia spazio ad alcuna possibilità di una
salvezza ecologica e sociale definitiva, del raggiungimento di una situazione
armonica e costante capace di riprodursi indefinitamente nel tempo. In questo
contesto (nella attesa di un nuovo Prometeo) l’unica strategia ragionevole,
espressa nel suo “programma bioeconomico minimale”, è quella di uno sviluppo
meno insostenibile, basato su una politica di pace, sulla redistribuzione delle
risorse tra Nord e Sud del mondo, sul rigetto etico del consumismo e dei
congegni superflui, sulla conservazione delle risorse, su un’agricoltura non
industriale e sul controllo demografico. Per Georgescu Roegen, inoltre, il
meccanismo di mercato non permette la corretta gestione delle risorse non rinnovabili
che potrà darsi solo in un contesto di limite quantitativo dei consumi, basato
su accordi internazionali.
Questa in estrema sintesi, la
“bioeconomia” per Georgescu Roegen, che a mio modesto avviso non è stata
correttamente interpretata dai teorici della decrescita (tout court), soprattutto nella critica senza appello allo sviluppo
e alla economia stessa (Latouche) e nella prospettiva del raggiungimento,
tramite la decrescita, di una economia socialmente e ecologicamente
“sostenibile” (Bonaiuti).
Come lo stesso economista rumeno fece
notare, prima di Georgescu Roegen il termine “bioeconomia” fu utilizzato,
probabilmente per la prima volta, nel 1925 dal biologo russo T.I. Baranoff per
definire i suoi studi sull’economia dell’industria della pesca basati sulla
dinamica delle popolazioni ittiche. Questo filone di ricerca, tendente ad
integrare la biologia e l’economia delle risorse ittiche, verrà portato avanti
fino alla prima metà del secolo scorso principalmente da biologi marini, e
troverà poi sistematizzazione nei modelli matematici proposti dagli economisti
americani H. Scott Gordon (1954) e Colin W. Clark (1976). La bioeconomia intesa
in questo senso, ovvero come economia delle risorse naturali rinnovabili,
rappresenta il tentativo di integrare la razionalità economica standard tesa
alla massimizzazione del profitto con i vincoli biologici rappresentati dalla
dinamica delle popolazioni nell’ottica dell’individuazione di un “maximum sustainable yield”. Il contesto
nel quale si inseriscono questo tipo di analisi è quello neoclassico ed è per
questo che non presenta collegamenti con il pensiero roegeniano.
Negli anni Settanta, il termine
“bioeconomia” iniziò ad essere utilizzato anche in un ambiente completamente
differente quale quello della Scuola di Chicago, per qualificare il filone di
studi che nasce dall’unione tra la socio-biologia dell’entomologo Edward
O.Wilson e le tesi ultra liberali del premio Nobel per l’economia Gary Becker.
La sociobiologia di Wilson è volta allo studio delle basi biologiche (in
particolar modo delle basi genetiche) di ogni forma di comportamento sociale; i
lavori di Gary Becker sono stati orientati dall’idea che ogni forma di
comportamento sociale, nell’impresa come nella famiglia, si fonda sulla stessa
razionalità calcolatrice dell’homo oeconomicus. Questi due filoni di pensiero
confluirono poi in un progetto di sintesi che il sociobiologo Michael Ghiselin
etichettò come “bioeconomia”. Questa “Neo-liberal Bioeconomics” concepisce la
razionalità economica come fondata su basi genetiche (l’homo oeconomicus diventa nella sostanza l’homo geneticus) e allarga questo tipo di razionalità a tutte le
forme viventi (che diventano organismus
oeconomicus).
Per completare il quadro della varie
“bioeconomie” possiamo infine aggiungere il filone della “bioeconomia
eco-energetica”, che presenta punti simili a quella roegeniana ma che rimane
pur sempre distinta e per certi versi divergente da essa. Mi riferisco al
filone di ricerca le cui origini possono essere individuate negli scritti di fine
Ottocento dell’economista ucraino Sergej Podolinskij (1850-1891) che si
ripropose l’obiettivo di conciliare il marxismo, con l’evoluzionismo e la
termodinamica ricercando una base energetica del valore delle merci. L’analisi
energetica troverà molto più tardi nei lavori di Alfred Lotka (1880-1949) e di
Howard Odum (1924-2002) la base per i suoi successivi sviluppi. Nonostante il
comune orientamento al collegamento tra economia e termodinamica, Georgescu
Roegen dedicherà molte riflessioni alla critica al “dogma energetico” e il suo
messaggio “matter matters too” è fondamentalmente rivolto a questo tipo di
approccio.
Come abbiamo appena visto, nella storia
del pensiero economico il termine “bioeconomia” è stato utilizzato per
etichettare visioni e analisi differenti e divergenti accomunate dal tentativo
di collegare l’economia e la biologia.
In generale comunque, nel corso del
Novecento, il termine “bioeconomia” è rimasto effettivamente ai margini della
discussione economico e politica. La situazione è rapidamente cambiata con
l’approssimarsi del nuovo millennio grazie al successo del neologismo inglese
“bioeconomy”.
A quanto risulta il termine “bioeconomy” è
stato utilizzato per la prima volta da Juan Enriquez e Rodrigo Martinez,
confondatori del Life Science Project dell’Harvard Business School, al Genomics
Seminar del 1997 presso l’American Association for the Advancement of Science
(AAAB), la più grande società scientifica del mondo, che edita il giornale
scientifico Science. Nell’articolo
del 1998 dal titolo “Genomics and the
World’s Economy”, l’accademico e uomo di affari Juan Enriquez riprende le
argomentazioni espresse con Rodrigo Martinez nel Genomics Seminar, esplicitando
la prospettiva di una trasformazione dell’economia mondiale promossa dal flusso
continuo di innovazioni nel campo delle biotecnologie che erodendo i confini
tra farmaceutica, agricoltura, alimentazione, chimica, cosmetica, energia
starebbe forzando le più grandi aziende mondiali a reinventare i propri modelli
di business, creando nuove alleanze o megafusioni basate su una logica di
blocco dei brevetti, processo che porta alla creazione di un nuovo settore
economico, “the life science” le cui aziende non coprono più un solo settore di
attività (medicina, chimica e alimentazione) ma diventano attori dominanti in
ognuno di questi settori.
E’ del tutto evidente come il recente
termine “bioeconomy” abbia avuto origine nel contesto dell’industria
biotecnologica e ne rappresenti a tutti gli effetti il modello di sviluppo. Non
a caso Fortune soprannominò Juan Enriquez “Mr.
Gene”. Bioeconomy è qui in sostanza sinonimo di bio-tech-economy.
All’alba del XXI secolo, “bioeconomy”
inizia ad essere utilizzato da alcuni autori, come B.Kamm e M. Kamm, anche per
identificare la trasformazione dell’economia industriale volta alla
sostituzione delle risorse fossili con la biomassa. La tecnologia base della
nuova “bioeconomia” è la bioraffineria che attraverso la trasformazione
biotecnologica e chimica della biomassa, produce “biobased products” e
“bioenergy”, connettendo la produzione agricola alla produzione industriale.
Dal 2005 in poi il termine “bioeconomia”
viene diffuso con prepotenza a livello di agende politiche nazionali e
internazionali con un accento che a seconda del contesto, americano o europeo,
è più marcato sulla bio-tech-economy (USA, Australia) piuttosto che sulla
bio-based economy (Europa).
Personalmente trovo il tentativo di
trovare il fondamento di questa nuova e per certi versi indefinita “bioeconomy”
sulla “bioeconomics” di Georgescu Roegen un’operazione intellettuale piuttosto
debole. A parte che la “bioeconomy” come modello di business delle
biotecnologie non ha proprio nessun collegamento con il pensiero di Georgescu
Roegen, anche la visione di un’economia (industriale) basata solo sulle risorse
rinnovabili è lontana dalla visione roegeniana della dipendenza per molti versi
irreversibile dell’economia umana dalle risorse energetiche e soprattutto
materiali non rinnovabili. Per alcuni la bio-based economy, unita alla
rinnovata idea dell’economia circolare, rappresenterebbe la soluzione del
problema bioeconomico posto dall’economista romeno. A mio modesto avviso,
rappresentano dei nuovi “miti economici” sempre nel senso di quello più storico
e generale della “salvezza ecologica”.
Forse sarebbe operazione più sicura,
cercare di trovare le radici della nuova bioeconomia nell’idea fisiocratica di
un’economia armonica basata interamente sulla produzione agricola, o piuttosto
individuare nelle analisi della bioeconomia delle risorse rinnovabili degli
strumenti utili alla nuova economia basata sulla biomassa.
Ancora più interessante e per certi versi
intrigante, a mio parere, cercare di indagare la relazione tra la “bioeconomy”
e la “Neo-liberal Bioeconomics” con i suoi sviluppi verso la visione di un
“natural capitalism” e la prescrizione di un “genetic liberalism”.
Al di là di questo, tu come vedi il
rapporto tra biotecnologie, usi non agricoli della biomassa e bioeconomia,
intesa in senso roegeniano?
***
Giorgio Nebbia
Anche sulla parola biotecnologia c’è una grande
confusione. Per il momento lascerei da parte le differenze fra tecnica e
tecnologia: se tecnica sta ad indicare qualche operazione umana per ricavare
cose utili dal mondo circostante, tutte le operazioni di trasformazione di esseri
viventi, vegetali e animali, fatte dall’”uomo”, da quando esiste, sono
operazioni tecniche o biotecnologiche.
Benché il termine biotecnologia sia stato “inventato”
circa un secolo fa, il suo successo anche nell’immaginario popolare risale agli
ultimi decenni del secolo scorso, associato sia ad operazioni di manipolazioni
genetiche, sia alla produzione di merci “verdi” dalla biomassa.
Qui vorrei considerare alcuni casi sia di processi che
consistono nella trasformazione di materia organica o inorganica ad opera di
agenti biologici come i microrganismi, sia i processi di trasformazione di
materiali biologici, di biomassa vegetale o animale, ad opera di agenti chimici
e biologici.
In realtà l’uomo, dalla sua comparsa sulla Terra come Homo sapiens, ha
sempre tratto alimenti e cose utili dalla biomassa vegetale e animale mediante
operazioni “tecniche” o “tecnologiche”, nel senso che sono il frutto della
conoscenza, dell’esperienza e della capacità umane, operazioni che considero
rientrare nel termine generale di “biotecnologie”. Qui mi limiterò a
considerare soltanto le biotecnologie applicate agli alimenti, anche se esse
sono state applicate, fin da tempi antichissimi, a prodotti non alimentari come
fibre tessili (macerazione della canapa e del lino), alla concia delle pelli,
alla fabbricazione della pergamena e della carta, alla preparazione del carbone
vegetale per distillazione secca del legno (praticate per lo meno dal
Medioevo), perfezionata successivamente con il recupero di sostanze commerciali
come alcol metilico e acido acetico (Ottocento), all’estrazione dalla cortecce
delle piante di tannini per la concia delle pelli (anni 70 dell’Ottocento),
alla idrolisi degli amidi e delle cellulose per ottenere zuccheri più semplici
a loro volta da usare come materie prime per altri processi, al recupero di
derivati della lignina (lignosolfonati), eccetera.
Le conoscenze delle operazioni di biotecnologia
applicate agli alimenti e ad altri prodotti si sono diffuse da un continente
all’altro attraverso i millenni e rappresentano una interessante pagina della
storia umana.
Per millenni le biotecnologie sono state basate su
conoscenze empiriche; la loro esatta comprensione si sarebbe avuta soltanto a
partire dall’Ottocento grazie ai progressi della fisica, della chimica e della
microbiologia; anzi la nascita di questi campi della scienza è stata stimolata
proprio dalla ricerca della comprensione dei fenomeni biotecnologici.
La lunga alba delle biotecnologie
Le comunità primitive di raccoglitori-cacciatori hanno
probabilmente mangiato vegetali e carne crudi ma ben presto è stato trovato che
la carne degli animali catturati con la caccia era “migliore” dopo cottura e
che i cibi vegetali e animali subiscono alterazioni se lasciati all’aria. La
prima biotecnologia si può riconoscere nei processi di conservazione con il
calore, per essiccazione o per aggiunta di sale.
A mano a mano che si sono formate comunità stabili,
circa 10.000 anni fa con la transizione da raccoglitori-cacciatori a
coltivatori-allevatori, i nostri predecessori hanno imparato a macinare i
cereali, a impastare le farine con acqua; questi impasti potevano essere
mangiati come tali oppure in seguito a lievitazione e cottura; alcuni vegetali
o tuberi venivano mangiati crudi e altri sottoposti a cottura.
Queste operazioni, benché scoperte e praticate
empiricamente, erano tecnologiche in senso moderno. Fra tali
proto-biotecnologie si possono comprendere la trasformazione del latte in latte
acido (il precursore degli attuali yogurt), in formaggi e burro, aiutata da
“qualcosa” che era presente nel latte stesso o nell’abdome degli animali.
Nel corso di processi che chiamiamo di fermentazione
di sfarinati di cereali impastati con acqua è stata osservata la formazione di
una sostanza volatile di odore gradevole, poi riconosciuta come alcol etilico,
e che la stessa sostanza si forma lasciando a sé delle soluzioni contenenti
succhi zuccherini, per esempio di frutta, o contenenti amido.
I succhi contenenti alcol sono stati riconosciuti come
bevande gradevoli, quelle che chiamiamo vino e birra. Così come è stato
osservato che le cose “dolci” erano buone. Da qui sono stati i processi di
recupero del miele e di estrazione dello zucchero dalla canna; quest’ultimo
consisteva nella frantumazione delle canne, la solubilizzazione dello zucchero
con acqua, la concentrazione del succo zuccherino fino ad ottenere un prodotto
cristallino.
Un’altra famiglia di biotecnologie riguardava
l’estrazione da semi o frutti (olive) degli oli e dei grassi usati a fini
alimentari ma anche come fonti di illuminazione e per la preparazione di
detergenti (saponi).
Nel campo degli alimenti animali sono state
perfezionate le tecnologie di macellazione degli animali con recupero anche dei
vari sottoprodotti, fra cui alcuni (le ossa) impiegati come concimi, altri (i
grassi) impiegati come alimenti o come fonti di illuminazione.
Questo cammino proto-tecnologico, si è svolto, con
continui perfezionamenti, dal Neolitico, all’età dei grandi imperi, all’età
greca e romana e alla diffusione dell’Islam.
L’età della borghesia e nuove biotecnologie
Una svolta nelle conoscenze degli alimenti e delle
relative tecnologie si può riconoscere nel Medioevo quando nuove materie
diventano accessibili, sia a Occidente nel bacino del Mediterraneo, sia ad
Oriente in Cina e nel sud-est asiatico, con la comparsa e la diffusione di una
nuova classe di mercanti e di benestanti con nuove e crescenti esigenze di
alimenti più raffinati. L’intensificarsi degli scambi commerciali terrestri e
marittimi è stato ulteriormente ampliato con l’accesso alle merci nuove delle
“Americhe”.
L’utilizzazione di caffè, cacao, mais, patate,
pomodori e la necessità di raffinare in Europa lo zucchero greggio delle
”colonie” ha stimolato nuove tecnologie.
La esatta comprensione dei fenomeni biotecnologici,
grazie ai progressi della fisica, della chimica e della microbiologia, ha
rappresentato una svolta nella disponibilità degli alimenti in un’epoca in cui
aumentava la popolazione mondiale, aumentava la popolazione urbana, lontana
dalle fonti agricole dirette di alimentazione. La diffusione dei lunghi viaggi
marittimi intercontinentali ha spinto al perfezionamento dei processi di
conservazione degli alimenti facilmente deperibili. Nel 1765 l'italiano Lazzaro
Spallanzani (1729-1789) ha dimostrato che gli agenti responsabili della
degradazione microbica della carne --- i "germi" --- muoiono e non
rinascono più se un alimento è messo a bollire entro una bottiglia ben chiusa
per circa un'ora.
Il
bisogno di disporre di alimenti conservati aveva indotto nel 1787 la Royal
Society of Arts britannica a offrire un premio di 52 sterline a chi avesse
scoperto un nuovo processo di conservazione, una iniziativa che stimolò il
francese Nicolas Appert (1749-1841) a impiantare, nel 1789, un laboratorio per
la produzione di alimenti imbottigliati e trattati a caldo. I vegetali
venivano posti entro bottiglie di vetro ben chiuse che venivano tenute a lungo
in acqua bollente, a "bagno maria". Nel 1807 Appert ebbe il primo
riconoscimento ufficiale: il comandante marittimo di Brest attestò che le
conserve di Appert, imbarcate a bordo nel veliero "Stationnaire", si
erano conservate alla perfezione. Nel 1809 il comandante Houssard, nel viaggio
di ritorno dalle Indie, poteva offrire ai passeggeri un pasto di carne e verdura
conservati in bottiglie e prodotti da Appert. Col tono un po' enfatico della
stampa dell'epoca, il "Courier de l'Europe" il 10 febbraio 1809
scrisse: "II signor Appert ha trovato un sistema per fermare le stagioni:
nella sua casa la primavera, l'estate, l'autunno vivono in bottiglie, simili a
quelle piante che il giardiniere protegge sotto una cupola di vetro contro le
intemperie". Ne 1810 Appert pubblicò un libro intitolato: "Le livre de tous les
ménages, ou l'art de conserver, pendant plusieurs années, toutes les substances
animales et végétales".
In un
mondo percorso dalla guerra, la scoperta di Appert veniva ad assumere
un'importanza strategica anche perché assicurava cibi sani alle truppe a grande
distanza dalle basi di rifornimento o alle spedizioni che affrontavano lunghi
viaggi. Nel 1810 due imprenditori inglesi, John Hall (1755-1836) e Bryant
Donkin (1768-1855), avevano iniziato la produzione di conserve sostituendo i
contenitori di vetro, usati da Appert, con lattine di banda stagnata, una
sottile lamiera di ferro protetta internamente da un sottilissimo strato di
stagno, la cui era produzione era stata brevettata nello stesso 1810.
Scatolette di carne usate nei viaggio polari sono state trovate in buono stato
di conservazione dopo oltre un secolo. Lo stato della tecnologia è descritto in
una relazione redatta da Donkin e Gamble nel 1832 e intitolata: "Official
reports and copies of numerous documents relative to the latest improvements of
Gamble's patent fresh preserved provisions".
E dagli
anni trenta dell’Ottocento gli alimenti in scatola industriali apparvero in
commercio, con continui perfezionamenti. La conservazione era migliore se le
scatole erano scaldate in acqua salata bollente col che il contenuto poteva
raggiungere i 130°C, e se durante la cottura l’aria interna veniva fatta uscire
attraverso un piccolo foro, chiuso poi con una saldatura, alla fine del
riscaldamento.
La
soluzione definitiva sarebbe stata offerta dall'invenzione dell'autoclave, cioè
di un recipiente chiuso in cui l'acqua è scaldata ad alta temperatura sotto
pressione. L'aumento della richiesta di scatole di latta da parte
dell'industria conserviera portò a rapidi progressi nell'industria della
fabbricazione della banda stagnata, delle scarole di latta e della tecnica di
saldatura. La prima industria per il pomodoro conservato in scatola risale al
1856.
Nel
frattempo si è sviluppata in Europa la produzione dello zucchero di
barbabietole e la relativa tecnologia di estrazione mediante cottura a caldo
delle barbabietole, separazione e successiva concentrazione del sugo
zuccherino. Una parte del processo era simile a quello usate nell’estrazione e
nella raffinazione dello zucchero di canna. Una ulteriore produzione di
zucchero si aveva trattando il melasso, la soluzione di zucchero impuro che
residua dopo la raffinazione del sugo zuccherino concentrato. Un processo
tutt’altro che banale che comprendeva sia delicate operazioni chimiche e
fisiche applicate a materie biologiche, sia la opportunità di recuperare un
sottoprodotto prezioso con un criterio che oggi si chiamerebbe di “economia
circolare”.
Nella
prima metà dell’Ottocento progrediscono anche le operazioni di trattamento e
trasformazione del latte in formaggio e burro, come evoluzione delle
antichissime tecniche empiriche già ricordate, grazie anche all’invenzione di
strumenti per la misura della densità e del contenuto in grasso del latte, a
riprova del crescente impegno di chimici e fisici per la conoscenza della
composizione dei prodotti biologici. I primi caseifici industriali appaiono in
Italia negli anni ottanta dell’Ottocento.
Altre biotecnologie furono rese possibili dai
contributi dei chimici alla migliore utilizzazione delle materie biologiche a
fini alimentari: nella metà dell’Ottocento il chimico tedesco Justus von Liebig
(1803-1873) condusse studi, oltre che sul meccanismo di crescita dei vegetali
(con lui comincia la migliore comprensione del meccanismi di nutrimento dei
vegetali), anche sulla migliore utilizzazione di prodotti e sottoprodotti
agricoli; si possono ricordare l’”invenzione” dell’estratto di carne, prodotto
per concentrazione del brodo di cottura della carne nelle zone di allevamento,
per evitare i lunghi viaggi per nave degli animali da macello, prima
dell’invenzione dei frigoriferi, dell’estratto di lievito ottenuto dalla
autolisi del lievito da pane vivo (lievito che, dal 1846, era ormai in
commercio per facilitare il lavoro dei panettieri), dell’estratto ottenuto
dalla cottura delle ossa. In tutti i casi si trattava di recuperare, da
prodotti animali, le frazioni azotate che erano riconosciute importanti per
l’alimentazione u mana. La popolarizzazione di queste vere e proprie
biotecnologie fu facilitata dagli articoli che Liebig scriveva, sotto forma di
“lettere” --- “Chemische Briefe” --- sulla stampa quotidiana raccontando i
risultati delle sue ricerche.
L’altro gigante delle biotecnologie di questa metà dell’Ottocento fu
anche lui un chimico, il francese Louis Pasteur (1822-1895), padre della
microbiologia. Diventava così possibile mettere i microrganismi al servizio
delle necessità umane, a cominciare dalla difesa contro le malattie per
continuare con operazioni industriali, attraverso la selezione di microrganismi
adatti a differenti funzioni. Soprattutto diventava chiaro il meccanismo della
fermentazione alcolica che permetteva perfezionamenti nella produzione del
vino, dell’alcol, del pane, eccetera. Appariva chiaro che l’azione dei
microrganismi dipendeva dalla temperatura e ciò ha stimolato le tecniche di
conservazione degli alimenti col freddo reso possibile dall’invenzione dei
frigoriferi, e il meccanismo di sterilizzazione per riscaldamento introdotto
empiricamente da Appert, prima ricordato e applicato anche al latte.
L’applicazione industriale delle scoperte della microbiologia dava vita
a industrie autonome. Nel caso della fermentazione alcolica veniva osservato
che, insieme all’alcol etilico e all’anidride carbonica, si formavano altri
alcoli come quello butilico e amilico, che potevano essere separati e
diventavano oggetti di commercio, suscettibili di altre trasformazioni.
Le conoscenze di microbiologia servivano, adesso, non solo al
miglioramento e all’aumento dei prodotti alimentari ma anche come fonte di
materie industriali tratta dalla biomassa. Nel 1914 il biologo Weizman scopriva
la fermentazione aceton-butilica che permetteva di ottenere, insieme, alcol
butilico e acetone una sostanza richiesta nella produzione della
nitroglicerina. L’applicazione militare ha anzi probabilmente contribuito a far
uscire le conoscenze microbiologiche dai laboratori scientifici e a riconoscere
il grande potenziale industriale di queste vere e proprie biotecnologie.
Negli anni venti del Novecento un biologo giapponese scopriva che il
sapore gradevole caratteristico di certi alimenti locali era dovuto ad una
sostanza che si formava nella trasformazione microbiologica degli zuccheri in
acido glutammico, uno degli amminoacidi naturali la cui produzione industriale
si diffuse rapidamente in molti paesi.
Compare il concetto di biotecnologia: la prima metà
del Novecento
Non a caso proprio nei primi anni del Novecento
comincia a comparire la parola biotecnica o biotecnologia, apparentemente usata
per la prima volta dall’ingegnere ungherese Károly Ereky (1878-1952) nel 1919
in un libro scritto in tedesco e pubblicato a Berlino, per indicare le tecniche
che consentivano di aumentare le rese agricole e migliorare la qualità degli
alimenti. Nello stesso 1919 Ereky fu nominato Ministro per l’alimentazione
nella monarchia appena restaurata dopo la sconfitta della prima guerra mondiale
e nella breve Repubblica di Bela Kun.
Quasi contemporaneamente lo scozzese Patrick Geddes, autore del libro
“Città in evoluzione”, in uno dei suoi molti scritti ha parlato di una
evoluzione della società umana da un’era eotecnica, quella basata essenzialmente
sulle risorse naturali --- vegetali, animali, energia solare, del vento e delle
acque --- insomma su quelle che sono state poi battezzate risorse rinnovabili,
ad una era paleotecnica, quella del suo tempo, badata sull’inquinante carbone,
a cui avrebbe dovuto seguire una era neotecnica e anzi biotecnica basata sulle
risorse biologiche offerte del mondo vegetale e animale.
Un’idea che sarebbe stata ripresa da Lewis Mumford, nel 1933, nel libro
“Technics and civilization” (Tecnica e cultura”, in italiano) che credeva di
ravvisare tali transizioni nei progressi del suo tempo; l’era neotecnica,
liberata dai fumi del carbone e dall’arroganza del potere della “macchina”,
avrebbe dovuto sfociare in un “biotechnic period, already visible over the edge
of the horizon”.
Nel clima del New Deal di Roosevelt, ormai nell’era del trionfo del
petrolio, negli Stati Uniti si sviluppò il movimento della chemiurgia, un
insieme di tecniche microbiologiche e chimiche per valorizzare i prodotti e i
sottoprodotti agricoli, specialmente degli stati poveri e agricoli del Sud,
fermamente sostenuta da George Washington Carver (1864-1943), un afroamericano
che dedicò la vita a tale compito.
Si trattava di trarre materie commerciali dai gusci di arachide e
perfino Ford aveva pensato di usare questo materiale per le carrozzerie delle
sue automobili; fu proposto di evitare la dipendenza dai prodotti petroliferi,
inquinanti, alimentando le automobili con alcol etilico ottenuto dalle
eccedenze agricole con processi microbiologici.
Lungo la stessa linea si può ricordare la produzione di furfurolo per
trattamento chimico dei pentosi della frazione di lignina della pula di riso o
di altri materiali lignocellulosici e i primi tentativi di idrolisi chimica
della cellulosa per trarne zuccheri adatti per la produzione microbiologica
dell’alcol etilico, operazione praticata nel periodo autarchico. Anzi proprio
le politiche autarchiche che sono state adottate da quasi tutti i paesi
industriali durante la prima guerra mondiale, la grande crisi degli anni trenta
e la seconda guerra mondiale, praticamente nel trentennio dal 1915 al 1945,
sono state in gran parte rese possibili da progressi di biotecnologie basate
sulla trasformazione di prodotti agricoli e forestali. (Si veda M.Ruzzenenti,
“L’autarchia verde”, Jacabook).
A questi anni risalgono numerose invenzioni e innovazioni
biotecnologiche. Forse il più importante successo di questa età dell’oro delle
biotecnologie fu rappresentata dalla scoperta della possibilità di ottenere per
via microbiologica la penicillina (anni 1940-45), la sostanza che ha salvato
milioni di vite umane e che è stata il capostipite di tutti i successivi
antibiotici naturali e semisintetici.
Con la fine della seconda guerra mondiale il petrolio abbondante e a
basso prezzo sembrava assicurare materie sintetiche e fonti di energia in
grande quantità liberando l’umanità della “schiavitù della dipendenza dai
materiali offerti dal mondo vivente, relegati alla produzione di alimenti.
Molte biotecnologie del periodo autarchico furono poi abbandonate o accantonate
a mano a mano che il petrolio diventava disponibile a basso prezzo e offriva
materie con cui ottenere, per sintesi, la maggior parte dei prodotti ottenibili
dal mondo vivente: tensioattivi, materie plastiche, fibre tessili, eccetera.
Molte delle materie prime naturali richieste dalla crescente industria
dei paesi emergenti, Europa e poi Stati Uniti, provenivano, dai campi di paesi
coloniali lontani nei quali serpeggiavano aspirazioni di indipendenza: cotone
dall’Africa, carne dall’Argentina, indaco dall’India, gomma dal Brasile e
dall’Indocina. I chimici dei paesi industriali si misero perciò di buona lena a
cercare di produrre dei surrogati partendo dai combustibili fossili esistenti
sul posto: carbone in Europa, petrolio in America, e per circa un secolo, in
gran arte del Novecento, la parola magica è stata: “sintetico”. “Sintetico”
rappresentava la rivoluzione, l’aspirazione a liberarsi dalla schiavitù dei
prodotti naturali. Il prof. Giuseppe Testoni tenne la prolusione al corso di
Merceologia nell’Università di Bari nel 1929 con una conferenza dal titolo “Le
merci sintetiche” e lo stesso titolo scelsi per la prolusione al mio corso di
Merceologia nella stessa Università nel 1959.
Nonostante questa tendenza merceologica, al mondo vivente era
necessario guardare per cercare una soluzione, per via tecnologica, al problema
di come sfamare una popolazione mondiale in rapido aumento, a partire dagli
anni cinquanta. Da una parte sono state proposte tecniche agronomiche che promettevano
di aumentare le rese agricole con un uso intensivo di concimi e pesticidi e con
sementi selezionate, la cosiddetta “rivoluzione verde”.
La fame nel mondo, soprattutto nei paesi in via di decolonizzazione,
era provocata non soltanto dalla carenza di alimenti calorici, ma soprattutto
da carenza di proteine di buona qualità, cioè sufficientemente ricche di
amminoacidi essenziali, in particolare lisina e triptofano che sono presenti in
maggiore quantità nelle proteine di alimenti di origine animale (latte e
derivati, uova, carne), e carenti in quelli di origine vegetale, soprattutto
nei cereali.
Fra le strade proposte per affrontare il problema della “fame di
amminoacidi essenziali” si possono ricordare i processi per ottenere dei
concentrati proteici dal pescato che non aveva una immediata utilizzazione
diretta; le tecnologie per la produzione di farine di pesce hanno riscosso
qualche attenzione, pur scontrandosi con critiche per l’impoverimento delle
popolazioni di pesci dovute all’overfishing, e anche per i dubbi che tali
proteine potessero generare malattie negli animali da allevamento.
Un’altra strada consisteva nella preparazione di estratti proteici
dalle foglie, a cui ha dedicato importanti studi N.W. Pirie (1907-1997) a
Rothamsted in inghilterra; maggiore attenzione ha ricevuto la produzione per
fermentazione della lisina da addizionare agli alimenti poveri di amminoacidi
essenziali, come quelli a base di mais o a mangimi per l’allevamento del
bestiame..
Quasi contemporaneamente ci sono stati i perfezionamenti,
“biotecnologici” anche loro, delle coltivazioni senza terra, e di tecniche di
acquacultura (idroponiche) sperimentate già negli anni venti da William
Frederick Gericke della University of California.
Con un intreccio fra la microbiologia industriale e l’utilizzazione
dell’energia solare sono state proposte coltivazioni in vasche, contenenti
sostanze nutritive come sali inorganici, di alghe con equilibrato contenuto,
proteico come la Chlorella, mediante fotosintesi accelerata.
Addirittura è stato proposto di applicare le tecniche microbiologiche a
prodotti petroliferi per ottenere proteine utili come alimenti per la
zootecnia, le cosiddette bioproteine (altro vistoso abuso del termine “bio”),
un’operazione rapidamemnte fallita.
Con la scoperta dell’”ecologia”, dagli anni sessanta del Novecento, si
è visto che i prodotti sintetici, in quanti estranei alla natura, non erano
biodegradabili, anzi erano fonte di inquinamento delle acque, che l’uso dei
combustibili fossili era fonte di inquinamento atmosferico e dei relativi
mutamenti climatici. Il concetto di “sintetico” è stato parzialmente sostituito
dalla nuova parola magica “bio”: tutto quello che è bio è nuovo e buono e
ecologicamente virtuoso e lo sanno bene molti venditori che appiccicano il prefisso
“bio” a tutto quello che capita. “Biotecnologia” è il nome, ripescato, dato ai
processi che dovrebbero salvare il pianeta producendo merci alternative a
quelle sintetiche e prive degli inconvenienti prima ricordati.
Fra le biotecnologie applicate non solo a prodotti alimentari si può
ricordare il vivace dibattito relativo alla produzione per fermentazione di
alcol etilico da utilizzare come surrogato della benzina, una tecnologia già
applicata in periodo autarchico, una proposta apparentemente “ecologica”
(minore inquinamento atmosferico, minore emissione di gas serra (se si
contabilizza la CO2 sottratta dall’atmosfera nella fotosintesi delle biomasse
vegetali), ma altrettanto vivacemente contestata per l’impiego di biomassa che
avrebbe potuto meglio essere utilizzata a fine alimentari.
Dal momento che non era “ecologicamente corretto” trarre gli “zuccheri”
necessari per la produzione di alcol e di altri prodotti microbiologici dallo
zucchero di canna o dall’amido, adatti a fini alimentari, sono state messe a
punto tecnologie microbiologiche di scomposizione della cellulosa presente in
residui e scarti di lavorazioni agricole e forestali non alimentari, la stessa
operazione che in periodo autarchico era stata fatta con processi chimici.
Altra biotecnologia per la produzione di merci (pur ecologicamente
corrette) non alimentari con processi basati sull’impiego di materie che
avrebbero potuto essere destinate a fini alimentari è quella della produzione
di biodiesel partendo da grassi. Sia nel caso dell’alcol carburante da amido e
canna, sia nel caso di biodiesel da olio di palma la contestazione “ecologica”
riguarda anche il fatto che le rispettive biomasse sono ottenute da
coltivazioni intensive di piante su terreni sottratti alle foreste e con
eccessivo sfruttamento ecologico e delle popolazioni locali.
Le biotecnologie sono invece
utilmente applicate al trattamento dei rifiuti. Nel caso dei rifiuti organici
costituiti da escrementi animali e umani si è sempre saputo che si libera
metano che può essere recuperato e impiegato come combustibile, col vantaggio
di evitare l’inquinamento delle acque con questi reflui organici.
A questo punto si ha la svolta semantica
per cui biotecnologia è termine assegnato alle pratiche basate sulle
modificazioni genetiche.
***
Giorgio Nebbia
“Le coltivazioni OGM possono essere considerate
“bioeconomia”?
Noel
Kingsbury: “A rose is a rose is a rose -
but the genes are never the same” .
?Antoine de Saint-Exupéry: “Gli uomini
hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi
responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…” .
Henry Wallace: “Scientific understanding is our
joy. Economic and political understanding is our duty”.
Per rispondere alla questione che tu mi
poni, se le coltivazioni di organismi transgenici possono essere considerate
“bioeconomia”, si rende necessario ripercorrere alcune tappe della storia delle
modificazioni che l’uomo ha apportato alle piante domesticate.
Dalla Rivoluzione Neolitica, e forse anche
da prima dato che sembra appurato che l’orticultura di montagna e di collina
precedette la cerealicoltura di pianura, gli uomini hanno sempre modificato le
caratteristiche morfologiche e biologiche, e quindi genetiche, degli organismi
utili per produrre cibo, spezie, sostanze stimolanti, medicamenti, fibre
tessili, pigmenti e altre sostanze impiegate in manifatture diverse.
Il più grande naturalista dell’Ottocento ,
Charles Darwin (1809-1882), e il più
grande biologo agrario del Novecento, Nikolaj Vavilov (1887-1943) posero
entrambi a fondamento della loro riflessione scientifica la grande differenza
esistente tra gli animali e le piante domesticate e i loro antenati selvatici.
Altrettanto importante per le loro indagini fu la constatazione che gli
organismi domesticati mostrano una grande variabilità intraspecifica, a
differenza della grande omogeneità riscontrata tra gli organismi selvatici e
primigeni da cui hanno preso forma.
L’esempio forse più eclatante è quello del mais, pianta coltivata dai
nativi americani dall’Argentina al Canada in una grandissima varietà di forme,
la cui origine rimase a lungo un mistero data l’impossibilità di reperire in
tutto il continente una pianta selvatica con caratteri evidentemente simili
alle piante coltivate. il mistero dell’origine del mais venne definitivamente
risolto, dopo decenni di appassionati dibattici, solo alla metà del Novecento
quando i genetisti convalidarono l’ipotesi dell’origine del mais dal teosinte,
un cespuglio perenne che cresce
ancora in Centro America, dotato di piccole spighe solo parzialmente coperte da
brattee.
Darwin mise in luce l’effetto lento e cumulativo dell’attività di
selezione di sementi e riproduttori con caratteristiche utili all’uomo: “la natura fornisce variazioni successive, e
l’uomo le accumula nelle direzioni che gli sono utili. In questo senso si può
dire che egli si è fabbricato le razze che gli sono vantaggiose” (Darwin,
1859). Si tratta dell’azione di quella che il biologo inglese definì selezione
“artificiale” non tanto per contrapporla a quella “naturale”, quanto per
dimostrare, data l’evidenza della prima, l’esistenza della seconda e quindi
dell’evoluzione delle specie.
Vavilov sottolineò come l’irrigazione e la fertilizzazione, modificando
radicalmente le condizioni ambientali, permisero l’emergenza di varietà più
produttive, che sono poi state oggetto di una pressione selettiva lenta e
costante da parte dell’uomo.
L’agricoltura contadina tradizionale, più
o meno inconsapevolmente, ha quindi “fabbricato”, nei suoi vari centri di
sviluppo, le varietà domestiche utili all’uomo, svolgendo, insieme alle diverse
condizioni ambientali, un’azione storica di moltiplicazione della biodiversità
agraria. Sono nati così e si sono evoluti nel tempo e differenziati nello
spazio gli ecotipi, le varietà legate a specifici territori[1]:
popolazioni di individui morfologicamente e biologicamente simili,
ma non identici, e per questo in continuo dinamismo genetico sotto la pressione
selettiva esercitata congiuntamente dall’uomo e dall’ambiente.
La prima grande esperienza di
modificazione consapevole e sistematica degli organismi domesticati si verificò
in Inghilterra nel contesto della Rivoluzione Agraria del XVIII e XIX secolo e
si basò innanzitutto sulla selezione degli
individui “migliori” all’interno di un determinato ecotipo.
I primi country gentlemen inglesi,
i ricchi e colti possidenti fondiari che iniziarono ad occuparsi direttamente
della gestione delle terre progressivamente liberate dai vincoli feudali, si
appassionarono soprattutto al “miglioramento” degli animali allevati. Tra
questi il più famoso fu certamente l’allevatore e selezionatore Robert Bakewell (1725-1795),
che per primo implementò una metodologia sistematica di selezione del bestiame
con l’obiettivo di modificare forme e qualità di ovini, bovini ed equini, con
un finalità prettamente utilitaristica. Per Bakewell “La miglior razza di bestiame è quella che rende il maggior profitto,
posto un livello determinato di consumo” .
La metodologia sviluppata da Bakewell parte con l’isolamento
all’interno di una data popolazioni di animali degli individui migliori secondo
certe caratteristiche utili all’uomo, prosegue con l’incrocio di questi
individui selezionati e termina con il loro ripetuto “inincrocio”, ovvero con
l’incrocio tra individui consanguinei, con la finalità di stabilizzare i
caratteri selezionati. Nacquero in questo periodo le società della razza, i
concorsi a premi, le vendite dei capi all’asta e le corse tra “purosangue” con
le relative scommesse. “Popolazioni
animali nelle quali si sono perpetuati per secoli caratteri diversi e mutevoli
vengono trasformate, attraverso la scelta dei riproduttori, in ceppi omogenei,
ciascuno dei cui esemplari deve
uniformarsi al modello che si è imposto alle aste del bestiame pronto per la
macellazione” (Saltini, III, 34). L’eccezionale situazione dell’allevamento
bovino inglese, dovuto all’aumento della domanda di carne da parte della
crescente popolazione urbana, cessò improvvisamente nel 1865 quando la più
grave epidemia di peste bovina (o antrace) uccise oltre 400.000 bovini su una
popolazione di 6.000.000, ovvero il 7% a livello nazionale, percentuale che
però in alcune zone superò il 60% [2].
L’alta densità degli animali nelle stalle e la loro uniformità genetica pare
abbiamo favorito il rapido diffondersi dell’epidemia[3].
Robert Bakewell , il cui lavoro fu ricordato da Darwin come un esempio
evidente dell’efficacia della selezione artificiale, contribuì a rompere
l’antico tabu biblico dell’accoppiamento tra consanguinei e a diffondere l’idea
che anche le piante, come gli animali, potessero essere migliorate.
Dei vegetali si erano scoperti da poco i meccanismi riproduttivi e,
nonostante le numerose sperimentazioni di incroci e ibridazioni[4] tra
varietà diverse come quelle svolte dal famoso botanico e orticoltore inglese Thomas Andrew Knight (1759-1838) e dal
naturalista francese Antoine
Nicolas Duchesne (1747-1827), durante la gran parte dell’800
i maggiori sforzi per migliorare le piante agrarie vennero rivolti all’attività
di isolamento e selezione all’interno degli ecotipi.
I gentiluomini
inglesi di campagna si focalizzarono sulla selezione del grano e dell’orzo,
rendendosi conto che questi cereali, in quanto prevalentemente autoimpollinanti[5],
conservano le caratteristiche morfologiche e fisiologiche se si sviluppano a
partire da una sola pianta o da una sola spiga. Alcuni appassionati studiosi
delle varietà di grano, come il colonello Sir John Le
Couteur (1794
– 1875), si resero inoltre conto che “la
coltivazione di una mescolanza non può dare un risultato migliore di quella
della sua componente migliore”.
Nacquero così ed iniziarono a diffondersi,
a scapito degli ecotipi locali, il frumento Chidham, originato da una spiga
trovata in una siepe nell’omonimo paesino del Sassex, e il frumento Mungoswell,
sviluppato da una spiga sopravvissuta al rigido inverno scozzese del 1813. Fu
avviata quindi la commercializzazione di sementi “pedigree”, come quelle del
maggiore Frederick Hallett, che nel 1861 per primo pubblicizzò le sue sementi
sul giornale inglese The Times. Il
seme da mezzo di produzione rinnovabile in campo dai contadini, nel processo
circolare e interno all’azienda agricola che parte dal seme e ritorna al seme,
incominciò quindi a trasformarsi in “merce” da acquistare nel mercato. Hallett
si preoccupò di convincere gli agricoltori a tornare da lui anno dopo anno per
comprare sementi “fresche”. ll suo metodo scientifico di miglioramento delle
piante, volto a giustificare il riacquisto regolare delle sementi , nonostante
sia stato presentato su Nature nel 1882[6],
si dimostrò poi errato in quanto basato sull’idea di un continuo miglioramento
di una “linea pura” a seguito di una costante pressione selettiva[7].
Nello stesso periodo anche in Francia, Philippe André de Vilmorin (1776-1862) e il figlio Louis de Vilmorin (1816-1860), presero
spunto dal miglioramento animale e fondarono la loro attività di produzione e
commercializzazione di sementi sull’isolamento, sulla riproduzione e sulla
continua selezione delle piante migliori. I risultati forse più eclatanti
furono raggiunti sulla barbabietola da zucchero che vide aumentare il contenuto
zuccherino da un 10-11% a un 16-17%, contributo fondamentale allo sviluppo della
giovane industria francese dello zucchero bianco. Dal 1840 al 1920 la Vilmorin
fu la più importante azienda sementiera al mondo, specialmente per i cereali.
Come l’800 fu il secolo della selezione
dei “purosangue”, il ‘900 fu il secolo degli incroci e dell’ibridazione. La
riscoperta dei lavori dell’abate moravo Gregor Mendel sugli ibridi ottenuti incrociando le linee puree di pisello gettò una
nuova luce sui meccanismi ereditari, facendo emergere l’idea che la
trasmissione dei caratteri sia governate da leggi chiare e definibili. Nacque
così la “genetica”[8].
La nuova scienza degli incroci e delle
ibridazioni, il cui metodo di indagine rappresenta anche un metodo di
intervento, fu accolta con grande entusiasmo soprattutto nel Nord America, dove
l’opera di introduzione e di distribuzione di sementi provenienti dal Vecchio
Mondo, che era stata al centro delle prime politiche agrarie ottocentesche[9],
sembrava avere raggiunto il suo limite, e dove quindi era fortemente sentita
l’esigenza di “nuove” piante.
In Canada si era diffusa nel corso
dell’Ottocento la coltivazione del grano e notevole era stato il lavoro di
selezione. Partendo dalla selezione di una singola spiga, trovata in un campo
dove erano stati seminati dei grani provenienti dalla Galizia e arrivati in
Canada su un battello polacco, era nato il “Red Fife”, la prima varietà di
grano canadese a cui si attribuì un nome. Nell’espansione dell’agricoltura a
Nord, la mietitura di questa varietà primaverile si avvicinava in modo
pericoloso alle prime gelate autunnali. Fu quindi fortemente sentita l’esigenza
di varietà più precoci e già nel 1886 il Governo canadese creò la prima
stazione sperimentale demandata alla selezione del frumento. In questa stazione
sperimentale, a inizio Novecento, l’agronomo Charles Saunders (1867-1937) sperimentò
innumerevoli incroci del “Red Fife” con grani precoci di origine russa e
indiana. La selezione partita da una singola spiga, di cui masticando alcuni
semi aveva apprezzato il contenuto di glutine, gli valse l’”invenzione” del
grano “Marquis”, caratterizzato da una elevata qualità, precocità, robustezza e
resa. Nel 1907 questa varietà di grano iniziò a diffondersi, arrivando nel 1915
ad occupare il 90% dei campi seminati a frumento primaverile, diffondendosi
anche nelle Great Plains statunitensi. Il Marquis divenne così la base della
produzione cerealicola canadese e degli standard di qualità del frumento per il
pane a livello mondiale.
L’arrivo sul mercato inglese dei grani
nordamericani, di maggiore qualità e meno cari, determinò una situazione
particolarmente depressa nella campagne, tale da indurre il governo britannico
a implementare delle politiche di supporto al settore cerealicolo. Sull’onda
del successo della genetica mendeliana, la strategia di intervento pubblico si
focalizzò sulla ricerca scientifica, attraverso la creazione della School of
Agriculture presso l’Università di Cambridge (1910) e il Plant Breeding
Institute (1912). Direttore di questo istituto pubblico rivolto
specificatamente al miglioramento vegetale divenne Rowland Harry Biffen (1874-1949), che nel 1905 aveva
pubblicato i primi risultati dei suoi studi sul grano. Questi studi avevano
messo in evidenza che più di una dozzina di caratteri, non solo morfologici ma
anche istologici e costituzionali, erano determinati dai geni. Con il lavoro di
Biffen divenne chiaro che non solo la forma del grano, ma anche la sua riposta
agli stress ambientali e la sua qualità panificatoria dipendono da fattori
genetici. Nel 1910 Biffen presentò la sua prima varietà di grano resistente
alla ruggine, il “Little Joss”, il cui successo gli garantì la direzione del
Plant Breeding Institute.
Anche in altri paesi europei si iniziò un
grande lavoro di incroci tra varietà differenti di grano. Il paese che aprì la
strada che poi porterà alla più importante modificazione genetica del frumento
fu l’Italia. Il principale, per molti versi solitario, protagonista di questa
vicenda fu l’agronomo marchigiano Nazareno Strampelli che nel 1903 diviene
direttore della Cattedra ambulante di Rieti, definita cattedra “di
granicoltura” perché ubicata nel comprensorio caratterizzato dal migliore degli
ecotipi di frumento italiano, denominato appunto “Rieti”. Il giovane Strampelli
capì che in Italia la resa del frumento era limitata dalle elevate temperature
e dalla siccità che caratterizza la penisola nel mese di luglio, la cosiddetta
“stretta”. Egli focalizzò quindi il suo lavoro sulla creazione di frumenti
precoci, ottenuti incrociando il Rieti con un frumento ad elevata resa olandese
e un frumento giapponese nano e precoce chiamato Akakomughi. Le sementi di
grano giapponese erano state introdotte in Italia dalla più importante azienda
sementiera nazionale, Ingegnoli di Milano[10].
Il triplice incrocio si dimostrò particolarmente fortunato e diede origine ad
una prima varietà di successo: il grano “Ardito”. Fu la prima cultivar che
riunì le caratteristiche desiderabili della resistenza alla ruggine, ereditata
dal Rieti, l’elevata produttività, ereditata dal grano olandese e la resistenza
all’allettamento e la precocità, proveniente dall’Akakomugi. L’Ardito fu il
primo di un lungo elenco di cultivar di successo a basso fusto, le cosiddette “sementi elette” su cui Mussolini basò
la sua famosa “battaglia del grano”. Grazie ai consigli agronomici di Alfonso
Draghetti, direttore della Stazione Agraria Sperimentale di Modena, i frumenti
di Strampelli realizzarono rese produttive quattro volte maggior delle
produzioni nazionali, permettendo all’Italia di colmare il divario di
produttività con le nazioni europee più avanzate. Il programma di miglioramento
italiano fu il primo che introdusse nei grani occidentali il gene del nanismo,
detto Rht8, che modifica
strutturalmente la pianta rendendo lo stelo più corto, carattere utile ad
evitare l’allettamento della pianta in condizioni di fertilizzazione azotata
abbondante, che poi divenne l’assioma dell’agricoltura industriale. Fu proprio
questa la strada che, come vedremo, porterà qualche decennio più avanti alla
creazione delle famose varietà di grano ad alta resa tipiche della Rivoluzione
Verde.
Se quelli sul grano rappresentano i primi
successi delle tecniche di incrocio applicate al miglioramento delle piante
agrarie, la genetica mendeliana raggiunse di fatto il suo maggior traguardo con
l’invenzione degli ibridi di mais, invenzione avvenuta nelle umide pianure
degli Stati Uniti orientali, i territori che poi diverranno noti come Corn Belt.
Il mais fu una delle poche piante di
interesse alimentare che i pionieri trovarono in questa parte del continente
americano. A differenza del grano, il mais è una pianta a forte impollinazione
incrociata che possiede la singolare caratteristica di avere la parte
femminile, la spiga erroneamente definita pannocchia, fisicamente separata
dalla parte maschile, l’inflorescenza apicale, detta pennacchio. I nativi
nordamericani , mangiatori di tortillas,
coltivavano da secoli numerosissime varietà di mais “flint”, in italiano
“indurato”, preoccupandosi di tenere separati i diversi ecotipi in modo da non
perdere i caratteri singolari, fra cui il gusto, di ciascuno di essi. I
contadini americani, mangiatori di pane, iniziarono ad utilizzare il mais come
“finissaggio” per i bovini da carne e ad incrociare le diverse varietà. Fu
proprio da un incrocio più o meno fortuito tra una varietà locale di mais
“flint” e una varietà di mais “dent”, portata in Illinois da un pioniere
proveniente dalla Virginia, Robert Reid, che nacque il mais giallo dentato[11],
che rappresenta ancor oggi la varietà di mais più coltivata per l’alimentazione
animale e la produzione agro-industriale.
Negli Stati Uniti a fine dell’800 la
coltivazione del mais si diffuse soprattutto negli stati dell’Est, dove
arrivavano i treni con i bovini allevati nei grandi pascoli dell’Ovest per
essere ingrassati prima di essere inviati ai macelli di Chicago. In queste
campagne americane erano divenuti popolari i concorsi per la pannocchia più
“bella”. A inizio Novecento, alcuni agronomi operanti nelle stazioni
sperimentali agrarie da poco istituite si resero conto della debolezza di un
metodo di selezione basato sull’apparenza estetica della pannocchia e
iniziarono delle sperimentazioni volte a valutare la resa e i contenuti di olio
e proteine delle diverse varietà, ormai intese come linee “pure”. Fu in questo
ambiente che la genetica mendeliana generò una nuova rivoluzionaria merce: i
semi ibridi di mais.
Gli “inventori” degli ibridi di mais furono
Edward Murray East (1879-1938)e George Shull (1874-1954) che ad
inizio del Novecento, seguendo il nuovo approccio genetico, iniziarono ad
incrociare le linee pure di mais, ovvero le piante provenienti da sementi ottenute
obbligando artificialmente la pianta ad autoimpollinarsi. East e Shull si
resero conto, pare indipendentemente l’uno dall’altro, che nonostante la
depressione “consanguinea” tipica delle linee pure del mais, la prima
generazione di semi ottenuti incrociando due linee pure, i cosiddetti “F1”,
presenta una grande omogeneità e un particolare vigore, fenomeno quest’ultimo
che Shull chiamò “eterosi”, noto anche come “vigore dell’ibrido”. Questa
omogeneità e questo vigore vengono però perse nelle generazioni successive.
Sia East che Shull si resero conto della
grande potenzialità che questa tecnica poteva avere per la nascente industria
sementiera in quanto, grazie ad essa, gli agricoltori sarebbero stati indotti a
riacquistare anno dopo anno le sementi ,e le linee pure di origine potevano non
essere diffuse. Di fatto una sorta di “brevetto” biologico. La scarsa
produttività delle linee pure parentali non permise però l’immediato sviluppo
commerciale degli ibridi di mais. Questo problema venne risolto qualche anno
dopo, quando verso la fine degli anni ’10 un altro agronomo statunitense, Donald F. Jones (1890-1963), sviluppò un metodo di produzione
degli ibridi di prima generazione partendo da quattro linee pure parentali
incrociate a due a due. Grazie alla tecnica sviluppata da Jones, nel 1920 fu
lanciato commercialmente il primo mais ibrido a doppio incrocio, denominato “Burr-Leaming”. Come titolava un articolo
del 1929 pubblicato dal Country Gentleman,
una delle riviste più lette dagli agricoltori statunitensi di quel periodo: “The Day of Super Crops Has Come”.
La persona che diede il maggior impulso
alla costruzione di questa nuova era, che sarà poi quella dell’agricoltura
industriale, fu Henry A. Wallace (1888-1965).
Appartenente ad una potente famiglia di proprietari terrieri, religiosi,
editori e politici dello Iowa, Wallace fondò nel 1926 la prima azienda nata con
lo scopo specifico di sviluppare, produrre e distribuire semi ibridi di mais,
la Hi-Bred Corn Company (che poi
diverrà Pioneer Hi-Bred Corn Company).
Il successo delle sementi ibride non fu immediato nel contesto della gravissima
crisi da sovrapproduzione, che caratterizzò il periodo della grande depressione
nelle campagne. Nel 1933 solo l’1% del mais coltivato nello Iowa proveniva da
sementi ibride. Nel decennio successivo che concise con l’ascesa politica di
Henry Wallace, da Segretario all’Agricoltura a Vicepresidente degli Stati
Uniti, la diffusione delle sementi ibride si espanse a un ritmo impressionante.
Nel 1944 praticamente tutto lo Iowa fu seminato con sementi ibride di mais,
pari a quasi il 60% della superficie maidicola statunitense. Lo sviluppo delle
sementi ibride di mais andò di pari passo con la diffusione della
meccanizzazione nelle campagne. I semi F1 permettono infatti di generare delle
piante estremamente omogenee, condizione necessaria alla mietitura e
trebbiatura con le macchine. Dal 1935 al 1945 la percentuale del mais raccolto
meccanicamente aumentò dal 15% al 70%. Nello stesso periodo, nello Iowa, il
numero di mietitrebbiatrici aumentò di nove volte .[12]
Forte dello strepitoso successo degli
ibridi di mais e all’apice della sua esperienza poltica, Henry Wallace,
all’inizio degli anni ’40, pose le basi di quella che verrà poi chiamata
“Rivoluzione Verde”, la terza rivoluzione agraria della storia dell’uomo.
Durante un viaggio in Messico, Wallace si convinse della necessità economico e
politica di industrializzare l’agricoltura messicana, allora fondamentalmente
contadina, e ideò, con il sostegno della Fondazione Rockefeller, il Mexican
Agricolture Program (MAP).Il MAP prese ufficialmente vita nel 1943 e venne
focalizzato sulla costituzione di varietà di mais e di grano ad alta resa. La
direzione del progetto sul grano venne presto affidata ad un giovane biologo
proveniente dall’ Iowa, Norman Borlaug (1914-2009). Borlaug indirizzò il suo lavoro di
“costituzione vegetale” su tre approcci: il massiccio incrocio di varietà di
grano differenti per selezionare piante resistenti alla ruggine; l’introduzione
di grani nani giapponesi; la risemina dei grani selezionati in terreni a
diverse latitudini. Il risultato di alcuni anni di lavoro fu lo sviluppo di
nuove varietà a bassa taglia, altamente produttive in condizione di irrigazione
e fertilizzazione artificiale, resistenti alla ruggine, resistenti alla
trebbiatura meccanica, insensibili al fotoperiodo. I nuovi cultivar, con
l’agricoltura industrializzata per i quali erano stati creati, si diffusero nei
vasti campi irrigati del Nord del Messico, dove conseguirono dei risultati
produttivi per allora impressionanti in termini quantitativi. Le comunità
contadine furono costrette ad abbandonare le loro terre e a dirigersi verso le
degradate periferie urbane.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio
degli anni ’60 la Fondazione Rockefeller, in accordo con il Governo americano,
decise che i tempi erano maturi per l’internazionalizzare l’esperienza
messicana creando, insieme alla Ford Foundation, l’Istituto Internazionale per
le ricerche sul Riso (IRRI) nelle Filippine a Los Baños e il
Centro Internazionale di miglioramento del mais e del grano (CYMMIT) a El Batán
in Messico.
A Los Banos si iniziò subito a lavorare
alla creazione di nuovi risi secondo le linee imposte per il grano da Borlaug.
I risi nani dell’IRRI divennero così con i grani nani del CYMMIT le prime “Global Crops”, capaci di riprodurre in
ogni parte del mondo, a scapito dell’agricoltura contadina, il modello
dell’agricoltura industriale nato nell’Iowa con gli ibridi di mais[13]
. Come esemplificò lo stesso IRRI parlando del IR8, la sua varietà di maggior
successo: “IR8 was to tropical rices what
the Model T Ford was to automobiles…a rugged variety that could go everywhere”
(Hybrid,307).
La Green
Revolution [14]germogliò
quindi in Messico e fiorì in Asia. Con le nuove sementi di grano e di riso ad
alta resa si diffusero la meccanizzazione, i sistemi di irrigazione con
motopompe e l’uso di fertilizzanti e di pesticidi di sintesi. L’adozione del
modello agronomico industriale fondato sulla genetica di cereali a bassa taglia
e sull’uso intensivo di combustibili fossili permise il raddoppio delle
produzioni cerealicole in India, nelle Filippine, in Indonesia. Secondo
l’interpretazione storica dominante queste prime creature della genetica
applicata alle piante scongiurarono la carestia planetaria, permettendo in
vaste aree del pianeta alla produzione agricola di seguire la dinamica
demografica. Fu proprio per questa ragione che nel 1970 Norman Borloug, “the
Father of the Green Revolution”, ricevette il Premio Nobel per la pace.
Nel 1972, Nicholas Georgescu Roegen ebbe
modo di esprimersi in maniera estremante chiara sull’agricoltura industriale e
le creature di Borlaug in una relazione poi ripresa nel famoso articolo
“Energia e Miti Economici”, articolo che termina con il suo programma
bioeconomico minimale.
Secondo il padre della bioeconomia “la sostituzione degli animali da tiro con il
trattore, del foraggio con i carburanti, del letame e del maggese con
fertilizzanti chimici, rimpiazza l’elemento più abbondante, la radiazione
solare, con altri più scarsi [e] questa
sostituzione rappresenta anche uno sperpero di bassa entropia terrestre, data
la resa fortemente decrescente dei nuovi elementi”. Inoltre” questa diseconomia è particolarmente pesante
nel caso delle varietà a resa elevate che hanno fatto vincere al loro
realizzatore, Norman E. Borlaug, il premio Nobel”. Per l’economista rumeno
“questa tecnica agricola moderna
costituisce, nel lungo periodo, un’azione contraria ai più elementari bisogni
bioeconomici della specie umana”. La questione cruciale infatti, per
Georgescu Roegen, non è quante persone possono vivere sul Pianeta Terra ma per
“quanto tempo” la popolazione umana possano sopravvivere dati una certa
dinamica demografica e un certo modello agricolo. L’agricoltura industriale,
che intensifica l’uso delle risorse terresti esauribili a scapito di quelle
solari rinnovabili, nella prospettiva bioeconomica da lui delineata, non può
rappresentare la soluzione al problema alimentare del genere umano nel lungo
periodo. Per Georgescu Roegen occorrerebbe attuare delle politiche di controllo
demografico e sviluppare un’agricoltura organica che fondamentalmente reintegri
l’attività agricola e quella zootecnica[15].
Nella relazione del 1972, Georgescu Roegen
pose inoltre il problema dell’erosione genetica, ovvero della perdita degli
ecotipi causata dalla diffusione dell’agricoltura industriale e delle sue
creature genetiche.
“Se
la produzione di cibo tramite complessi agro-industriali diviene la regola
generale, molte specie connesse con l’agricoltura organica all’antica
potrebbero scomparire, una conseguenza che forse condurrebbe il genere umano in
un vicolo cieco ecologico senza possibilità di ritorno”.
Il problema dell’erosione genetica legato
all’industrializzazione dell’agricoltura era già stato posto a fondamento del
monumentale lavoro di collezione, catalogazione e riproduzione di ecotipi
organizzato negli anni ‘20 e ’30 dal grande agronomo russo Nicolaj Vavilov.
Anche Girolamo Azzi, agronomo italiano amico di Vavilov e pioniere
dell’ecologia agraria, focalizzò il suo lavoro sulla genetica in una
prospettiva basata sulla critica verso la diffusione indiscriminata delle nuove
varietà e la necessità di conservazione degli ecotipi tradizionali. Negli anni
della Rivoluzione Verde, questo tipi di preoccupazioni riemerse negli ambienti
scientifici ed istituzionali e la FAO, in risposta, istituì già nel 1965 la Crop and Ecology and Genetic Resources
Unit per promuovere la creazione di quelle che poi saranno note come “banche
dei semi”.
Nell’anno stesso in cui Norman Bourlag
vinse il premio Nobel, il 1970, nel cuore dell’agricoltura industriale nord
americana, la Corn Belt, le sementi
modello di questa agricoltura industriale, gli ibridi di mais, manifestarono in
maniera inaspettata la loro fragilità, fragilità causata dalla loro
impressionante uniformità genetica. Nell’umido autunno di quell’anno, infatti,
i campi di ibridi di mais dell’Illinois e dell’Iowa furono devastati
dall’attacco di una nuova malattia fungina, la “southern corn blight”. Ci fu un senso di panico e il prezzo del
mais salì del 20% alla borsa di Chicago. In alcuni stati del sud le rese di
mais subirono un crollo del 50%. Gli agronomi e i genetisti capirono
velocemente che la nuova malattia colpiva solo gli ibridi che avevano tra le
linee parentali, una linea madre che era stata selezionata in Texas in quanto
caratterizzata dalla sterilità maschile, ovvero non produce polline. Questa linea
madre si era diffusa enormemente in quanto permetteva di eliminare nella
produzione delle sementi ibride la pratica manuale, e quindi costosa per le
aziende sementiere, del “detesselling”,
lavoro che consiste nella eliminazione fisica del pennacchio dalla linea
femminile [16].
A seguito di questa epidemia la National
Academy of Science pubblicò nel 1974 uno studio intitolato “Genetic Vulnerability of Major Crops”
che mise in evidenza per la prima volta l’impressionante uniformità genetica
caratteristica delle principali creature dell’agricoltura industriale e quindi
la loro vulnerabilità, dovuta al fatto di avere anche un solo carattere comune. L’analisi appurò che nel 1969, per
esempio, il 71% del mais coltivato negli USA proveniva da solo 6 linee pure. In
contrasto, nel 1948 i contadini del Minnesota potevano scegliere tra oltre 600
varietà di mais. Sempre nel 1969, il 96% delle coltivazioni di piselli
provenivano da solo due genotipi e il 69% delle patate dolci da una varietà.
Il problema della perdita di ecotipi e
quello dell’uniformità delle sementi industriali diede un rinnovato impulso al
progetto della FAO di creare un sistema internazionale di banche di semi. Nel
1974 venne così istituito l’International
Board for Plant Genetic Resources (IBPGR) a cui venne demandato
l’importantissimo compito della conservazione del germoplasma del pianeta. La
creazione dell’IBPGR fu proceduta da accesi contrasti tra i paesi in via di
sviluppo, principali detentori della diversità genetica, e i paesi occidentali,
principali utilizzatori di germoplasma, relativamente al controllo di questo
nuovo istituto. Alla fine fu raggiunto un compromesso attribuendo all’IBPGR una
struttura istituzionale anomala con la sede presso FAO a Roma ma operativamente
controllato dal Consultative Group for International Agricultural Research
(CGIAR), l’istituzione creata nel 1971 su iniziativa dalla Fondazione
Rockefeller per coordinare l’attività di ricerca del CIMMYT, dell’IRRI e degli
altri centri di ricerca che erano stati costituiti sul modello dei primi due.[17]
Nel corso del ‘900, l’esigenza di
aumentare la variabilità genetica delle specie di interesse agrario oltre i
limiti connessi ai processi biologici della riproduzione sessuale delle piante,
era stato affrontata con l’utilizzo di tecniche collegate all’effetto mutageno
di alcune sostanze chimiche e delle radiazioni. Negli anni ’40, per esempio,
l’uso della colchicina, una sostanza estratta da una piccola pianta erbacea
velenosa (il Colchicum autunnale),
capace di indurre il raddoppio del patrimonio cromosomico delle cellule
vegetali nelle fasi decisive della riproduzione, permise di creare degli ibridi
non sterili di grano e segale. Nacque così e si sviluppò il triticale, che oggi
rappresenta una coltura in grande sviluppo anche nell’agricoltura biologica
data la sua rusticità. Negli anni ’50 e negli anni ’60 l’attenzione dei
ricercatori si focalizzò sulle mutazioni indotte dall’irraggiamento con i raggi
X e i raggi gamma. A seguito della Conferenza di Ginevra Peaceful Uses of Atomic Energy del 1955, molti paesi investirono
ingenti risorse negli studi e sperimentazioni sulle mutazioni casuali indotte
dall’irraggiamento. Tra questi l’Italia, che alla fine degli anni ’50 istituì
presso il Centro Ricerche Casaccia del CNEC( ora ENEA) il Laboratorio
Applicazione delle Radiazioni in Agricoltura. Fu nel “campo gamma” di questo
laboratorio che, irraggiando con raggi X alcune piante della varietà Capelli,
fu selezionato un grano mutante che incrociato con una linea ottenuta dal
CIMMYT, diede poi vita al grano duro Creso. Questa nuova varietà si rivelò ben
presto di grande interesse agronomico e industriale data l’elevata produttività
in campo e la buona qualità di pastificazione (dovuta al suo alto contenuto di
glutine). Iscritto nel 1974 nel Registro Nazionale delle varietà di grano duro,
il Creso divenne in pochi anni la varietà più coltivata in Italia facendo
raddoppiare la produzione italiana di grano duro a parità di superficie
utilizzata[18].
Come hai ricordato, l’inizio degli anni
’70 vide l’apparizione delle prime tecniche di ingegneria genetica nate dai
progressi della biologia molecolare. Il secondo lustro del decennio si aprì con
la creazione della Genentech, la prima delle nuove società private di ricerca
nate dall’unione tra scienziati e investors,
dedicate alla produzione e alla commercializzazione di brevetti biotecnologici,
la nuova merce contenete i progressi della biologia molecolare. Nei quattro
anni successivi alla creazione di Genentech, nacquero oltre un centinaio di
società che replicarono questo nuovo modello di business, molte delle quali iniziarono ad occuparsi del
miglioramento delle piante. Alcune di queste , come Agrigenetics, cominciarono
anche ad acquisire le società sementiere, iniziando a vedere nel seme la
“merce-veicolo” per eccellenza delle applicazioni biotecnologiche in campo
agricolo.
Monsanto, l’ azienda chimica americana
nata all’inizio del Novecento per produrre dolcificanti artificiali, che poi si
era espansa nella chimica di base e nella produzione di diserbanti , fu la
prima grande multinazionale agrochimica a vedere nelle applicazioni
dell’ingegneria genetica la via di salvezza a lungo termine delle proprie
prospettive di sviluppo, turbate già allora dalle crisi petrolifere e dalle
critiche dei movimenti ecologisti e dei consumatori. Nel 1976, dopo avere
iniziato la commercializzazione del suo nuovo erbicida a base di glifosate, il
“Round Up”, Monsanto investì decine di milioni di dollari nella creazione di un
centro di ricerca interno sulle biotecnologie, iniziando a collaborare con
genetisti operanti nelle Università e ad acquisire diritti dei brevetti delle
società biotecnologiche, come quello sviluppato da Genentech per la produzione
della somototropina, l’ormone della crescita bovina, di cui si conosceva l’effetto
di stimolo alla produzione di latte e su cui Monsanto stava lavorando da
diversi anni .
Gli anni ’80 si aprirono con la sentenza
della Corte Suprema sulla brevettabilità degli organismi viventi, la quotazione
in Borsa di Genentech e il boom degli investimenti delle multinazionali
farmaceutiche e petrolchimiche nelle biotecnologie e nelle aziende sementiere.
Nel corso del decennio, forti degli enormi capitali investiti, i centri di
ricerca delle società biotecnologiche e di Monsanto iniziarono a definire le
tecnologie e a sviluppare le prime applicazioni dell’ingegneria genetica alle
piante agrarie.
Le tecnologie elaborate per “ricombinare”
il DNA delle piante furono sostanzialmente due. La prima fu basata
sull’utilizzo dell’Agrobacterium
tumefaciens, batterio tumorale capace di infettare i vegetali attraverso la
trasmissione di un segmento di DNA, che penetra all’interno delle cellule
integrandosi nel loro genoma. Questo batterio, opportunamente manipolato per
neutralizzare il suo effetto patogeno, si presta ad essere usato come vettore
per trasferire delle parti del genoma geni di batteri, vegetali o animali nelle
cellule di una pianta, dalle quali poi può essere rigenerato l’intero organismo
grazie alle sofisticate tecniche di (orti)coltura in vitro della biologia
cellulare. Successivamente fu definita la tecnologia basata sul “gene gun”, un congegno inventato da
alcuni ricercatori americani della Cornell University, che permette di sparare
direttamente nelle cellule delle piante dei proiettili costituiti da particelle
di metalli ricoperti dal materiale genetico manipolato che si vuole trasferire.
La ricerca di applicazioni commerciali di
queste tecnologie si orientò in diverse direzioni. Calgene, una giovane società
biotecnologica californiana, ad esempio sviluppò un pomodoro modificato
geneticamente per rallentare il processo di maturazione, che dipende da un gene
che era stato “silenziato” praticamente duplicandolo. Monsanto, il cui gruppo
di ricerca sulle piante nel 1983 aveva vinto la corsa per la creazione della
prima pianta transgenica (una petunia a cui era stato inserito il gene di
resistenza agli antibiotici prelevato da un batterio) focalizzò gli
investimenti sulla creazione di colture industriali (ibridi di mais, soia,
cotone e colza) contenenti il gene di resistenza al Round Up e un gene
proveniente dal Bacillus Thuringensis.
Questo batterio del suolo produce una tossina letale per le larve di alcuni
insetti parassiti. Dato che le tossine di questo batterio, chiamate brevemente
Bt, usate dagli anni ’30 anche in agricoltura biologica, sono molto selettive e
fondamentalmente innocue per la maggior parte degli insetti utili e ovviamente
del l’uomo, le Bt Crops furono
presentate come l’alternativa ecologica, tecnologicamente avanzata, agli
insetticidi chimici sui quali si era focalizzata la contestazione seguita alla
pubblicazione di Silent Spring e che
stavano dimostrando una sempre minore efficacia a causa dello sviluppo di
resistenze tra gli insetti patogeni.
Gli anni ’80, grazie alla prospettiva di
questa bio-rivoluzione, videro quindi l’inizio di quel processo di
concentrazione del potere economico e scientifico sulle biotecnologie, anche
agrarie. Contemporaneamente si assistette al progressivo disimpiego del settore
pubblico dalla ricerca tradizionale sul miglioramento delle piante. L’esempio
forse più eclatante è quello della vendita, da parte del governo Thatcher, dei
programmi di ricerca e della aziende sperimentali afferenti al Plant Breeding
Institute, l’avanzato centro di ricerca pubblica sul miglioramento vegetale,
inizialmente diretto da Biffen, che nel corso degli anni ’70 poteva vantare la
paternità di circa l’80% dei grani coltivati in Inghilterra. Nel 1987 il PBI fu
venduto a Unilever, una multinazionale agro-alimentare, che anni dopo lo
vendette a Monsanto.
Nel periodo a cavallo tra la fine degli
anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, le lobby industriale e finanziarie
iniziarono quindi a premere sulla politica per vedere realizzate le vendite
delle nuove merci biotecnologiche, condizione necessaria al ritorno degli
ingenti capitali investiti. Nel 1993 la Food and Drug Administration autorizzò
la vendita del primo prodotto biotecnologico di interesse agrario: l’ormone
bovino della crescita ricombinato che Monsanto commercializzò con il nome di
Prosilac. Seguì nel 1994 l’autorizzazione alla vendita del pomodoro di Calgene,
il Flavr Savr, e dopo due anni quella delle sementi di mais, soia, colza e
cotone modificate geneticamente per essere resistenti al glifosate e per
produrre la tossina Bt.
Il lancio del Prosilac fu preceduto da
accese polemiche dovute principalmente agli effetti negativi della
somotrotopina sulla salute delle bovine da latte. Proprio per ragioni relative
al benessere animale, l’Unione Europea nel 1994 vietò l’utilizzo del farmaco e
altri paesi seguirono l’esempio europeo. Il lancio del pomodoro Flavr Savr,
modificato per rallentare il processo di appassimento, si svolse in maniera
molto curiosa, prima negli Stati Uniti e poi Inghilterra. Negli Stati Uniti il
prodotto fu commercializzato fresco. Calgene, l’azienda che lo aveva
brevettato, si occupò direttamente della produzione, della distribuzione e
della promozione del prodotto, pubblicizzando chiaramente il prodotto come
pomodoro geneticamente modificato e cercando di veicolare ai consumatori il
vantaggi della nuova creatura delle biotecnologie. Il prodotto venne accolto
abbastanza positivamente dai consumatori americani ma l’inesperienza nella
gestione logistica del prodotto fresco fu causa di gravi difficoltà per Calgene,
che poi venne acquistata nel 1996 da Monsanto. Lo stesso anno il pomodoro Flavr
Savr venne lanciato in Inghilterra sotto forma di doppio concentrato, in una
barattolo a marchio commerciale di due importanti catene di supermercati,
Sainsbury’s e Safeway. Durante il 1997 i due colossi della distribuzione
inglese vendettero oltre un milione e mezzo di pomodoro in scatola chiaramente
etichettato. Nel frattempo negli USA, la diffusione della coltivazioni
modificate geneticamente autorizzate nel 1996 fu incredibilmente rapida. Senza
nessun obbligo di etichettatura, in quanto considerate sostanzialmente
equivalenti alle colture convenzionali, il mais, la soia e la colza trangenici
si diffusero in tutto nel sistema agro-alimentare, nei mangimi animali e come
ingredienti dei prodotti industriali trasformati. L’amministratore delegato di
Monsanto, Robert Shapiro, nel 1999 dichiarò che si trattò del “lancio di maggior successo mai registrato
prima con qualsiasi altra tecnologia, incluso l’aratro” (1999, p 150
Tomato).
Nonostante il successo del lancio delle
colture geneticamente modificate e l’impressionante processo di fusioni e
acquisizioni in corso nel settore delle Life
Sciences , il 1998 e il 1999 furono anni
horribilis per l’immagine delle nuove biotecnologie e di Monsanto nello
specifico. In Europa, l’esplosione dello scandalo di “mucca pazza” minò la
fiducia dei consumatori nel sistema agro-industriale. Gli organismi
geneticamente manipolati iniziarono ad essere visti come il caso estremo di
azzardo con la natura, i cosiddetti “Frankenfoods”.
A causa dell’emergenza di questo ambiente estremamente ostile, Sainsbury’s e
Safeway, ritirarono dagli scaffali i loro barattoli di purea di pomodori
geneticamente modificati. L’Unione Europea implementò di fatto una moratoria
sulle coltivazioni di organismi geneticamente modificati. Dall’altra parte
dell’Oceano il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, sommerso dalle
critiche dei consumatori, fu costretto a ritirare la proposta di inserire le
sementi OGM tra quelle ammesse nel regolamento sull’agricoltura biologica. La
prestigiosa rivista Nature pubblicò un articolo scientifico dell'entomologo
John Losey della Cornell University nel quale l’autore sostenne l’esistenza di
danni causati dalle coltivazioni Bt alle popolazioni della farfalla monarca,
molto popolare in Nord America, divenuta uno dei simboli nelle giornate di
protesta a Seattle. Sotto la pressione dell’opinione pubblica e del presidente
della Fondazione Rockefeller, Gordon Conway, che temette un danno di immagine
generalizzato a tutte le biotecnologie, Monsanto fu costretta a dichiarare
pubblicamente di non volere commercializzare sementi modificati geneticamente
per essere sterili, che alcuni attivisti anti-OGM stigmatizzarono con la
fortunata etichetta “Terminetor”. Le
azioni di Monsanto subirono un crollo del 35% nelle quotazioni azionarie.
L’acquisto da parte di Du Pont della Pioneer Hi-Bred, la più importante azienda
sementiera al mondo, fu un duro colpo per Monsanto. Tale acquisizione consolidò
il settore agro-industriale nelle mani di quattro “Gene Giants”: Monsanto, Du Pont, Dow e Syngenta.
A distanza di due decenni dalla
commercializzazione delle prime sementi geneticamente modificate è possibile
constatare come queste coltivazioni si siamo diffuse principalmente in una
manciata di nazioni (USA, Brasile, Argentina, Canada e India), su quattro
principali colture (soia, mais, cotone e colza) e riguardano principalmente due
caratteri (la resistenza agli erbicidi e la produzione della tossina Bt). Nel
2012 la superficie agricola coltivata con sementi modificate copriva circa 18
milioni di ettari, pari a circa il 12% della superficie agricola del pianeta.
Negli Stati Uniti la soia, il mais e il cotone modificati coprono più o meno il
90% delle superficie dedicate a queste colture. Il valore di mercato annuo
delle sementi biotech è di circa 15 miliardi di dollari a livello globale. In
Europa le coltivazioni geneticamente manipolate sono ammesse per alcuni tipi di
sementi ma la maggior parte delle nazioni europee, come l’Italia, non le
permette. La strutturale mancanza di integratori proteici per la mangimistica
animale, acuita dal divieto di utilizzo di farine di origine animale a seguito
di mucca pazza, ha reso però necessario l’importazione di mais, soia e colza
modificati geneticamente che quindi sono entrati nelle filiere zootecniche
senza alcun obbligo di etichettatura sul prodotto finale (carne, latte e
derivati, uova, ecc..).
Lasciando perdere la questione della
salubrità dei prodotti derivati da coltivazioni geneticamente modificate, sulla
quale non possiedo le competenze per esprimere un parere, e che comunque esula
dal nostro dialogo sulla bioeconomia, il dibattito tra che è a favore e chi è
contro le attuali colture
biotecnologiche si è concentrato negli ultimi anni soprattutto sugli effetti
ambientali della loro diffusione. La recente pubblicazione di un importante studio del Dipartimento
dell’Agricoltura degli Stati Uniti sull’uso di pesticidi nel paese dal 1960 al
2008, ha riacceso questo dibattito.
Un fatto appurato dallo studio governativo
statunitense è l’aumento dell’uso di glifosate dal 1996 ad oggi sui terreni
coltivati con sementi resistenti agli erbicidi. Diversi sostenitori delle
coltivazioni geneticamente modificate hanno messo in evidenza che il glifosate
è una sostanza meno tossica per l’uomo e più facilmente biodegradabile rispetto
agli altri erbicidi che ha sostituito. La “probabile cancerogeneità” del
glifosate, dichiarata in un recente studio dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità,
ha però destato parecchie preoccupazioni, preoccupazioni che le dichiarazioni in senso inverso dell’EFSA, l’Autorità per la
Sicurezza Alimentare Europea, non sembrano avere sopito. Le coltivazioni
resistenti agli erbicidi comunque fatto aumentare le quantità complessive di ingredienti
attivi utilizzati negli Stati Uniti. L’aumento dell’uso di erbicidi è del resto
in linea con gli obiettivi economici delle aziende che, come Monsanto, li hanno
sviluppati. Attualmente, in Europa soprattutto, i sostenitori dell’introduzione
generalizzata delle coltivazione modificate geneticamente focalizzano le loro
argomentazioni innanzitutto sulla presunta ecologicità del mais Bt, alla cui
diffusione la ricerca dell’USDA correla la diminuzione considerevole dei
trattamenti in superficie con insetticidi,
i cui ingredienti attivi impiegati sono passati da circa 40 kg per ettaro nel
1996 a meno di 10 kg del 2008. Resta però il fatto che queste piante producono
di fatto una sostanza insetticida che forse dovrebbe avere uno spazio anche nel
ragionamento quantitativo. Desta maggior perplessità ,del resto, la
precisazione contenuta nella ricerca che mette in rilievo la variazione qualitativa che ha interessato gli
insetticidi nell’ultimo decennio : “Nuovi
insetticidi applicati a bassi dosaggi, come i piretroidi sintetici.. e i
neonicotinoidi …sono diventati ampiamente utilizzati”. “Alcuni insetticidi sono ora applicati nel
trattamento dei semi e non sono generalmente catturati dalle indagini sull’uso
di pesticidi”. Il seme, quindi, è diventato non solo la merce- veicolo
dell’informazione genetica brevettata dalle multinazionali agroindustriali, ma
anche la merce-veicolo di sostanze chimiche biocide prodotte dalle stesse
aziende, aggiunte fisicamente ad esso, che non risultano nelle statistiche
ufficiali.
Rimangono poi aperti le questioni legate
allo sviluppo di piante infestanti resistenti agli erbicidi e di insetti
patogeni resistenti al Bt. Quest’ultimo fenomeno è stato recentemente
analizzato da un gruppo di entomologi in una cosiddetta “peer-review” pubblicata su Nature Biotechnology (Vol. 31, N°6,
Giugno 2013) intitolata “Insect
reistence to Bt crops: lessons from the first billion acres”. L’analisi, risultato
del confronto tra 77 studi realizzati in tutto il pianeta, mostra come 5 delle
13 specie di insetti parassiti siano già diventate resistenti al Bt, rispetto a
una sola specie resistente individuata nel 2005. La rapidità, non attesa, con
cui gli insetti stanno diventando resistenti al Bt, metterà in difficoltà
proprio gli agricoltori biologici che per primi hanno utilizzato questa tossina
selettiva e innocua per l’uomo, e che, a differenza degli agricoltori
convenzionali, non potranno trovare con facilità un sostituto.
La massiccia diffusione tra specie agrarie
diverse dello stesso gene modificato, come quello di resistenza all’erbicida e
di produzione del Bt, ripropone inoltre il problema dell’uniformità genetica e
il connesso rischio di vulnerabilità dovuta allo svilupparsi improvviso di
fitopatologie simili a quella che nel 1970 ha colpito gli ibridi di mais nella
Corn Belt perché condividevano un solo
carattere. Al problema dell’uniformità genetica se ne aggiungono altri che
vanno dalla contaminazione in campo delle coltivazioni biologiche all’uso
massiccio in laboratorio della resistenza antibiotica come marcatore genetico.
Un groviglio di questioni “scientifiche”
che è divenuto terreno di un acceso scontro economico e politico, tra i più
caratteristici della nostra contemporaneità.
Dopo questo lunga ricostruzione storica,
comunque approssimativa, posso ora rispondere alla tua domanda iniziale: “le
biotecnologie possono essere considerate bioeconomia?”. La mia breve risposta è
la seguente: certamente le attuali coltivazioni geneticamente modificate
possono essere considerate bioeconomia nel senso della “bioeconomy” di Juan
Enriquez e Rodrigo Martinez, ma non possono essere considerate bioeconomia nel
senso della “bioeconomics” di Georgescu Roegen. Bioeconomia è bioeconomia è
bioeconomia, ma i “geni” non sono gli stessi.
Le attuali coltivazioni modificate
geneticamente, che si sono andate sviluppando nel contesto economico e politico
dominante, non sono altro che la continuazione e l’intensificazione del modello
di agricoltura industriale sviluppatosi con gli ibridi di mais e le varietà ad
alta resa di Bourlag, un’agricoltura sperperatrice di risorse di origine
terrestre, di biodiversità e fondamentalmente biocida e insostenibile. Rispetto
alle colture della Rivoluzione Verde, grano e riso destinate direttamente all’alimentazione umana, le
attuali colture modificate geneticamente, e i farmaci come il Prosilac, sono in
gran parte indirizzate alla crescita quantitativa di un settore zootecnico
industriale volto a nutrire indirettamente
le persone e fonte di gravi inquinamenti, come quelli causati dai reflui degli
allevamenti, e fonte di indicibili sofferenze per gli animali.
La promessa degli alfieri di questo nuovo
modello agroindustriale biotecnologico di una “Doubly Green
Revolution” (per usare le parole di Gordon Conway, il già citato presidente
della Rockefeller Foundation), in grado di fare raddoppiare la produzione
agricola da qui al 2050 in modo “sostenibile”, con trattamenti di “precisione”,
senza aumentare la terra arabile, nutrendo una popolazione di oltre 9 miliardi
di persone con la cosiddetta dieta delle “3B” (butter, beef , beer), a mio modesto parere, attiene più alla storia
degli “snake oil”, per usare un termine
amato da Georgescu Roegen, che ad un vera strategia bioeconomica per il futuro.
Relativamente alla questione più generale
dell’uso dell’ingegneria genetica per il miglioramento delle piante cito la
posizione espressa da Stephen Jones, un agronomo della Washington State
University, che afferma “I view my job of
public breeder as being public. Therefore, I am opposed to the commercialization of anything a public
breeder creates…I’m not necessarily against the science used to create GMO’s,
but there is a potential... What concerns me more are the practitioners, not
the practice”
Altri punti da sviluppare (qui o da alter
parti):
·
Biotecnologie “sostenibili”: cisgenica (che scientificamente e
storicamente non dovrebbe volere dire nulla dato che la prima pianta
transgenica è stata un pomodoro “cisgenico”)/Genome editing “precisissimo”
·
Ricerca pubblica: che direzione? Plant breeding con tecniche
tradizionali basate sulla trasmissione sessuale (che poi credo sia più bella
anche per le piante _ma questo non lo scrivo…) con ausilio nuove tecniche come
la MAP (nota che su Wikipedia
alla fine si dice “Se paragonata ad altre
tecniche di miglioramento genetico che implicano l'impiego di tecnologie del
DNA ricombinante, la MAS è ritenuta una metodologia efficace ma più onerosa in
termini di tempo necessario alla realizzazione di una nuova varietà da
introdurre sul mercato. Diversamente dalla transgenesi, la MAS non consente
l'inserimento di geni esogeni alla specie di appartenenza, ma si avvale della
variabilità allelica intraspecifica naturalmente presente.” La parte
sottolineata è vera?)
·
Chimica verde basata su questo tipo di agricoltura (il mais e la colza
geneticamente modificate fanno un carburante o una plastica “ecologica”?)
***
Giorgio Nebbia
Che ci piaccia o no, gli alimenti contenenti derivati di piante
geneticamente modificate (OGM) sono ormai fra noi e lo saranno in quantità
sempre maggiore in futuro. In tali piante le proteine sono state modificate “ad
arte” in modo da rendere le piante più resistenti all’attacco di parassiti, o
di pesticidi, o da rendere i frutti o i semi più facilmente conservabili. E’
difficile dire se poi queste proteine possono trasferire modificazioni
biologiche negli organismi animali ed umani che le introducono con il cibo, e
se le modificazioni della qualità biologica e merceologica degli alimenti
avranno effetti negativi sulla salute dell’attuale e delle future generazioni.
Di certo gli alimenti transgenici sono arrivati in commercio troppo
presto, e senza una adeguata sperimentazione sugli effetti a breve e lungo
termine. D’altra parte la fretta è imposta dalle industrie che hanno proceduto,
in sofisticati e costosi laboratori, a modificare il patrimonio genetico di
numerose piante economiche e che vogliono vendere le relative sementi al più
presto per ricuperare, con adeguati profitti, le spese sostenute. Gli stessi
agricoltori trovano vantaggioso coltivare le nuove piante.
Personalmente ritengo che l’immissione in commercio di “merci” prive di
adeguata sperimentazione e controllo avrebbe dovuto essere evitata, ma ormai la
diffusione delle sementi transgeniche mi sembra difficilmente fermabile. I
governi sono schiacciati dalle pressioni degli interessi dell’industria chimica
e degli agricoltori e di questa lotta di giganti fanno le spese i cittadini.
Intanto va detto che noi non troviamo in commercio alimenti “OGM” o
“non-OGM”, ma solo alimenti che possono contenere, o non contenere, dei
“derivati” di “organismi geneticamente modificati”: olio o lecitina di soia GM,
farina o olio o amido di mais GM, pomodori GM trasformati in conserve,
eccetera.
Il consumatore, nel caso migliore, potrà essere informato, mediante
etichette, che alcuni degli alimenti che trova in commercio derivano da, o
contengono derivati di, piante transgeniche, e al più potrà evitare di
acquistarli se li ritiene nocivi.
Ma che cosa potrà fare il consumatore quando si trova di fronte ad
alimenti che non portano nessuna etichetta che ne indichi la “origine
transgenica” ? Che cosa può sapere di quello che compra ?. Come può un
consumatore sapere se la lecitina presente in una maionese, o l’olio di soia o
di colza, o la conserva di pomodoro, o l’amido di mais non derivano da piante
GM ?
D’altra parte stanno già comparendo in commercio alimenti che il
venditore dichiara che “non contengono” derivati di piante geneticamente
modificate, una nuova raffinata forma di pubblicità per attrarre i consumatori
più dubbiosi. Quanto può fidarsi un consumatore delle dichiarazioni del
venditore ? Chi controlla la veridicità di una dichiarazione di “assenza” di
derivati di piante transgeniche ? In quale modo è possibile accertare l’esatta
origine biologica, la “storia naturale”, dei prodotti che si comprano ?
La risposta ovvia a tali domande sarebbe: mediante indagini di
laboratorio. Le modificazioni genetiche praticate sulle sementi lasciano nelle
piante e nei loro derivati delle “tracce”, delle “impronte digitali”, si fa per
dire, che consentono --- in via di principio --- di riconoscerne la storia
biologica precedente. In pratica l’analisi di queste “impronte digitali”
richiede laboratori specializzati e personale altamente qualificato ed è molto
costosa, anche se potrebbe offrire occasioni di nuova occupazione per analisti
e specialisti in indagini chimico-biologiche e per la produzione delle relative
apparecchiature. Un bel campo di lavoro anche per gli studiosi di merceologia.
Purtroppo le ”impronte digitali” si sbiadiscono o addirittura
scompaiono nel corso delle manipolazioni dei prodotti agricoli e della loro
trasformazione negli alimenti commerciali. Se nelle proteine della farina di
mais è ancora possibile riconoscere l’origine transgenica delle sementi, l’olio
di mais proveniente da semi GM finisce per essere praticamente non
distinguibile, per via analitica, da quello ottenuto dai comuni semi di mais.
Davanti ad una bottiglia di olio di semi, come fa il consumatore a sapere se è
stato ottenuto da semi di piante geneticamente modificate o no ? Addirittura le
industrie “biotecnologiche” sostengono che anche se un olio deriva da piante GM
non ne deve essere indicata l’origine perché è “sostanzialmente equivalente” a
quello della stessa pianta non-GM. Nei processi di trasformazione dei pomodori
transgenici in conserve, spesso scompaiono le tracce che ne indicano l’origine.
La tutela della salute, anche in questo campo, richiede l’intervento
dello stato i cui laboratori soltanto possono (dovrebbero) dare garanzia di
esattezza e obiettività, garanzia di operare “pro bono publico”. Ma nel gran
dibattito in corso sulla sanità, l’attenzione per l’aumento del numero e
dell’efficienza dei laboratori pubblici capaci di controllare la qualità degli
alimenti è praticamente assente.
Se ne sono viste le conseguenze in occasione dell’importazione di
alimenti contaminati da sostanze tossiche (bifenili policlorurati, diossine e
forse altre), quando è stato necessario aspettare settimane, dopo la denuncia
del pericolo, per avere i risultati delle prime analisi e nel frattempo carne e
uova sono stati distrutti senza sapere se erano dannosi o no. Proprio in quella
occasione si è anzi visto che pochissimi laboratori in Italia erano in grado di
effettuare le analisi delle diossine, benché esse siano presenti intorno a noi
nei fumi del traffico, delle fonderie e degli inceneritori di rifiuti.
Che garanzia può offrire un servizio pubblico di analisi degli alimenti
che ha permesso, per anni, che l’olio di nocciole turco fosse spacciato per
olio di oliva ?
Nel caso del controllo degli alimenti
transgenici si tratta di cominciare tutto di sana pianta con problemi
tecnico-scientifici ben più grossi di quelli relativi alle altre frodi
alimentari “abituali”. Vorrei concludere con la ferma raccomandazione alle
autorità preposte alla difesa della salute, a livello nazionale o locale,
perché vengano creati e potenziati laboratori pubblici di analisi e venga reclutato
e addestrato personale competente e motivato, in grado di offrire una risposta
ai cittadini sulla origine e sulla innocuità dei loro alimenti. E’ inoltre
necessario che tali laboratori siano diffusi ugualmente nel Nord e nel Sud
d’Italia, anche per evitare che in alcune regioni del nostro paese il cittadino
finisca per essere meno difeso, e meno sicuro, che in altre.