Illustrazione di Daphne Sanvito
Giorgio Nebbia
ha avuto in sorte di attraversare quasi per intero il Novecento sino alla
conclusione del secondo ventennio del nuovo secolo e millennio. La sua
curiosità si rivolgeva a tempi di più lunga durata ma è indubbio che il focus
principale fosse concentrato sulle dinamiche della contemporaneità. Nonostante
la premessa, per lui doverosa, del carattere non professionale del suo
approccio alla storia, mi sembra utile richiamare la sua idea di un lungo
Novecento, altro da quello politico, a cui rimanda il nome di questa rivista,
con l’obiettivo di fornire materiali per la conoscenza di un “altronovecento”,
centrato su società e ambiente, in un rapporto pervasivamente mediato dalla
tecnica.
In breve la tesi
di Nebbia è che la contemporaneità, nella sua prospettiva il Novecento, non sia
affatto breve, essendo attraversata da dinamiche profonde la cui dimensione
temporale e spaziale coincide con l’emergere e affermarsi sempre più intenso di
un conflitto senza precedenti tra l’operare della specie umana e il suo
ambiente di vita, in altri termini il tempo della contemporaneità è quello
dell’industrializzazione del mondo. A tale conclusione era spinto dal suo
ecologismo scientifico, per usare una definizione che non gli piaceva, ma che
torna comoda, vale a dire la comprensione per via scientifica di come funziona
la natura, sulle basi ottocentesche dell’evoluzionismo e della nascente
ecologia, quindi la conoscenza della storia naturale e, contemporaneamente,
della nascita, sviluppo e impatto sempre più forte dell’industria moderna
sull’ambiente naturale e umano.
Attorno a questa
duplice polarità si costituisce lo scenario che fa da sfondo alle molteplici
vicende del lungo Novecento. Un contesto mobile e cangiante, prodotto da forze,
azioni e resistenze, naturali e umane. È necessario sottolineare come fatto non
scontato che l’interesse di Nebbia per la storia nasce all’interno del suo
mestiere di merceologo, secondo l’autodefinizione minimalistica a cui ricorreva
abitualmente, dietro cui si nasconde la piena consapevolezza della necessità di
conoscere dal di dentro il modo di produzione economico e tecnico delle merci,
per orientarsi e possibilmente agire allo scopo di frenare e invertire i
processi distruttivi posti in essere sotto la sferza non tanto dei bisogni
quanto della finalità del profitto. L’accoppiata ecologismo-anticapitalismo è
un altro dei tratti che assumono sempre più rilievo nella produzione
intellettuale, divulgativa e di denuncia del nostro, con forte anticipo rispetto
a più gettonati ma effimeri maestri del pensiero.
Sarebbe
velleitario cercare di fornire una esaustiva esemplificazione dei molti campi
di interesse che attrassero la sua attenzione, sia nel suo lavoro specifico di
chimico-merceologo, sia nei tantissimi a cui dedicò la sue energie di studioso
e divulgatore. Tenendo ferma l’ipotesi di una unitarietà di base, come
contraltare dei luoghi diversificati e numerosissimi in cui agì e pubblicò,
abbiamo organizzato questo numero della rivista attorno ad alcuni filoni
tematici, offrendo poi una scelta ampia dei ricordi e testimonianze successive
alla sua scomparsa nel luglio di quest’anno.
La prima
sezione, a cura di Cesare Silvi, è dedicata all’energia solare. In qualche modo
una scelta obbligata per due motivi: l’interesse di lunga data, risalente ai
primi anni ’50, che Giorgio Nebbia ha dimostrato per le tecnologie, antiche e
recenti, volte a utilizzare l’energia contenuta nella luce del sole messa a
disposizione gratuitamente per l’umanità e ogni forma di vita sulla Terra.
Impossibile richiamare la quantità di contributi, di ricerca e di divulgazione,
prodotti in circa settant’anni di attività. Una prima traccia è ricavabile
dall’antologia di testi risalenti al periodo di collaborazione col GSES (Gruppo
per la Storia dell’Energia Solare). Il secondo motivo discende dall’attualità
innegabile, seppure inaspettata sino a pochi anni addietro, delle energie
rinnovabili, tutte e quante, in modo diretto o indiretto, derivate dal sole,
senza gli effetti inquinanti dei combustibili fossili o con il ricorso alla non
meno inquinante energia nucleare. Ne consegue la necessità, seppure
pervicacemente osteggiata, della transizione energetica, conservando per il
futuro il patrimonio di fonti di energia e materie prime, anch’esse di origine
solare, accumulate attraverso le ere geologiche e che la modernità
contemporanea sta dilapidando, determinando emergenze incombenti come quella
climatica; causando altresì guerre e disastri umanitari. L’opzione per il
solare, da intendersi nelle sue molteplici forme, con piena apertura
all’innovazione tecnologica, intelligente e soft, è netta quanto la coerente
opposizione al nucleare, sicuramente il più grande fallimento della tecnologia
industriale del Novecento: la verifica in corpore vili dell’impossibilità di
oltrepassare i limiti senza distruzioni immediate e perduranti nel tempo.
La seconda
sezione tematica è dedicata a un dibattito sul concetto, e i plurimi usi
linguistici, di bioeconomia, in stretta connessione con quelli di economia e ecologia.
È relativamente condivisa l’immagine che la cultura ecologica propugni una
nuova e rinnovata sensibilità verso la natura, gli esseri viventi, l’ambiente
in tutte le sue componenti, fisiche, biologiche, storiche. Assume così forma
una inedita koinè, che riprende e rivivifica culture altre nello spazio e nel
tempo da quella dominante. È un passaggio difficile, incerto, affidato alle
scelte dei singoli e delle collettività. Ma il cambiamento di sensibilità può
diventare efficace solo se accompagnato e intrecciato con conoscenze e saperi
che derivano dalla ricerca scientifica, dalle acquisizioni, sempre perfettibili
e modificabili, della scienza.
Su questo
versante per Giorgio Nebbia è di grande rilievo l’incontro con il pensiero di
Nicholas Georgescu Roegen, economista eretico che dagli anni ’70, rifacendosi
alle leggi della termodinamica e al principio di entropia, introduce il
concetto di “bioeconomia”, da intendersi nel senso che l’economia deve
necessariamente sottostare al funzionamento che regola, su basi
fisico-chimiche, l’energia, la vita, tutto ciò che esiste materialmente, ed è
parte di un processo storico irreversibile. Parallelamente Nebbia sta
sviluppando la sua ricerca sulla contabilità delle merci, in valori
fisico-energetici e non meramente monetari. Le loro prospettive si incontrano
nella critica della crescita senza fine della produzione
economica, interrotta solo temporaneamente da crisi cicliche. Al contrario, per
non accelerare i processi distruttivi, entropici, l’economia deve essere detronizzata
dal posto assegnatole dalla civiltà capitalistico-industriale, e sottostare a
principi e pratiche di salvaguardia del bene collettivo maggiore: l’ambiente di
vita in costante evoluzione, i cicli naturali, la cui alterazione sistemica
determina retroazioni sempre più difficili da controllare e a cui porre riparo.
La bioeconomia
nell’accezione proposta colloca al centro l’ecologia, asse portante di una
nuova forma di società, che non rinuncia al progresso, al sapere scientifico e
tecnologico, ma lo orienta seguendo le indicazioni della bussola ecologica, al
fine di alleggerire l’impatto della società sul pianeta, nella consapevolezza
dei limiti, fragilità, caducità, della specie e dei singoli individui,
rinunciando ai miti prometeici di dominio sulla natura. Una lezione di scienza
e saggezza, dal sapore leopardiano, estranea al pensiero egemone che ne ha
subito rovesciato il significato e le implicazioni. Così la bioeconomia viene
intesa come la possibilità di modellare tecnologicamente la vita, facendone il
nuovo motore dell’economia, l’ennesima nuova frontiera del capitale.
Una sorta di via
mediana viene proposta dai fautori della sostenibilità, che mirano a conciliare
economia ed ecologia, proponendo la generalizzazione dell’economia circolare. Un’impostazione
rispetto a cui Nebbia è critico, sia sul piano teorico, essendo in palese
conflitto con i principi basilari della bioeconomia nell’accezione di Georgescu
Roegen e sua, sia per motivi pratici, per i rischi di manipolazione lessicale e
effettuale dei dati di realtà. Su questi temi si sviluppa il dialogo con
Alberto Berton, un work in progress inedito, con approfondimenti di grande
interesse e attualità che prendono spunto dall’indubbio successo del
“biologico” in campo alimentare e agricolo. Un esempio, con tutte le cautele e
controlli del caso, di come l’incidenza di una crisi inaspettata, delle
retroazioni negative prodotte dalla generalizzazione dell’agroindustria, abbia
sollecitato un ripensamento radicale nei modi di produrre e consumare.
Al centro
dell’agroecologia, intesa in senso lato, c’è l’indicazione di utilizzare al
meglio le risorse locali, secondo lo slogan del “km zero”. Negli anni ’30 del
Novecento l’Italia era stata un campo di sperimentazione, al netto della
propaganda e dei numerosi fallimenti, nell’utilizzo delle risorse locali, in
quel caso nazionali, agricole e industriali, come risposta politica del
fascismo alle sanzioni internazionali per la guerra di conquista dell’Etiopia.
Sotto uno stimolo esogeno, per far fronte ad uno stato di necessità, specie sul
fronte delle materie prime, si inventano soluzioni alternative, talvolta
geniali, ad esempio nell’utilizzo a fini manifatturieri dei prodotti agricoli.
L’interesse per
la vicenda autarchica non è solo di carattere storico, essa deriva dalla
critica all’insostenibilità della globalizzazione, già propagandata come
vittoria finale del capitalismo su ogni altra forma economica e politica. In
realtà le conseguenze sociali, politiche e ambientali della generalizzazione
incontrollata del mercato “autoregolantesi” su scala planetaria, indicarono in
tempi molto rapidi, culminanti nella crisi del 2008 (del tutto aperta), la
necessità di frenare e invertire la rotta, da cui il fiorire di neo
nazionalismi dai tratti reazionari e regressivi, incapaci tanto quanto il
liberismo, di affrontare l’inaggirabile questione ambientale. Anzi essi si sono
fatti portavoce del negazionismo in nome della continuazione e radicalizzazione
delle politiche industriali più ottusamente distruttive. La sezione è curata da
Marino Ruzzenenti che ha avuto Giorgio Nebbia come principale interlocutore per
il suo originale lavoro su “L’autarchia verde” (Jaca Book, 2011).
L’ultimo,
nutritissimo, gruppo di contributi sono introdotti e scelti da Giovanna
Ricoveri, con Marinella Correggia, Gloria Malaspina e Giovanni Carrosio e
riguardano la collaborazione di Nebbia a “Capitalismo Natura Socialismo” (CNS).
Il tema centrale è quello dell’ecologia politica, ovvero della necessità sinora
inevasa di tradurre in politica le indicazioni pressanti e chiarissime che
emergono dalla crisi ecologica, dalla palese insostenibilità ambientale della
attuale civiltà capitalistico-industriale. È impossibile dar conto della
pluralità di spunti e suggestioni, dalle più minute e specifiche, alle più
ardue e difficili da affrontare e risolvere. Mi limito a qualche cenno: nel
pieno dell’ubriacatura sul digitale, presentato come salto tecnologico
salvifico e messianico, ovvero come catastrofe culturale, la posizione di
Nebbia risulta equilibrata e serena. Il www e gli sviluppi successivi offrono
opportunità che debbono essere utilizzate per un ampliamento democratico della
conoscenza e delle conoscenze, tumultuoso e caotico ma innegabile rispetto al
classismo ed élitarismo del passato. L’attenzione critica va sviluppata su più
fronti; quello che prediligeva era lo smascheramento dei miti della
comunicazione, a partire dalla pretesa smaterializzazione della sfera digitale,
non riuscendo a vedere o occultando i consumi energetici molto rilevanti nonché
il ricorso a materie prime strategiche e insanguinate, rapinate a paesi e
territori poveri, in preda a guerre alimentate dall’odierno neocolonialismo.
I conflitti
ambientali sono il filo rosso degli interventi pubblicistici di Nebbia, i suoi
apporti discendono dalle conoscenze fisico-chimiche, ecologiche in senso lato,
che padroneggia per gli studi e i rapporti avuti lungo i decenni e che lo hanno
visto interlocutore di tantissime note e meno note personalità della ricerca,
al di là delle frontiere dell’ambientalismo. L’esplorazione del suo archivio
offrirà molte sorprese oltre che ovvie conferme (cito a puro titolo di esempio
l’intenso rapporto avuto con il biologo e genetista Franco M. Scudo). Tra i
conflitti ambientali la questione che lo ha maggiormente interrogato e
appassionato è quella della contraddizione irrisolta tra ambiente e lavoro, con
il risvolto delle condizioni interne ai luoghi di lavoro. In termini eclatanti
il conflitto doloroso e lacerante tra popolazioni, lavoratori, ambientalisti, diritto
al lavoro e alla salute, è una cartina di tornasole per misurare
l’inadeguatezza della politica. Presente dalle origini del processo di
industrializzazione, il conflitto ambiente-lavoro, è al centro della scena, in
forma esplicita o latente. Le articolate analisi che vi dedica Giorgio Nebbia
sono un punto di riferimento, un lascito per il futuro.
Alla luce del
presente, i nostri metri di valutazione sono costretti a cambiare, anche
radicalmente: la scala delle priorità va ridefinita. Esemplifico tornando
sull’epoca conclusiva del “secolo breve”. Come è stato possibile, un po’ da
parte di tutti, condividere il giudizio secondo cui la fine della guerra
mondiale avrebbe inaugurato una sorta di “età dell’oro” chiusasi troppo presto?
Venivano in tal modo oscurati due fatti pesanti come macigni, uno estremamente
palese ma rimosso, l’altro venuto alla luce progressivamente, cumulativamente,
sino ad occupare sempre più la scena. In definitiva è andata in frantumi l’idea
un po’ kafkiana di edificare una società del benessere sullo sfondo del terrore
atomico. Abbiamo avuto sicuramente decenni di sviluppo economico, ipotecati
però dal pegno pagato alla guerra totale, accantonata ma non troppo, incombente
alle spalle delle tante guerre locali. Decenni di credo condiviso nella
crescita industriale e dei consumi, con il risvolto a lungo banalizzato della
crisi ecologica, sfociati nella vittoria del capitalismo nordamericano sul
socialismo russo-sovietico, ma non sulla pragmatica variante cinese. L’umanità
contemporanea si rivela antiquata in primo luogo nel persistere della cultura e
della pratica della guerra, consustanziale con le pratiche di guerra alla
natura.
Nella
traiettoria di un impegno su più versanti, la scelta per la pace segna la
discontinuità maggiore, il fine ultimo da mantenere fermo per rispettare e
tradurre in pratica il punto di non ritorno segnato dalla Seconda guerra
mondiale con lo sterminio su scala industriale del “nemico” e le bombe
atomiche. O la preistoria finisce e con essa la violenza e il terrore nei
rapporti tra le persone e i popoli oppure ogni progresso è destinato a essere
travolto. L’ecologia politica poggia su due pilastri: un rapporto meno
distruttivo possibile con l’ambiente, la fine della guerra come orizzonte
insuperabile, decisore in ultima istanza della politica. Entrambe le opzioni
appaiono utopiche e irrealizzabili. Perché gli uomini dovrebbero e potrebbero
realizzare ciò che hanno sempre rifiutato, pur in una gamma diversissima di
atteggiamenti e scelte? La risposta che sommessamente ma ostinatamente Giorgio
Nebbia offre si può forse riassumere in questi termini: l’umanità è posta di
fronte ad un aut aut, può scegliere se consapevolmente autodistruggersi o
vivere in un futuro dignitoso, non idilliaco ma libero dall’oppressione verso i
propri simili e nel ritrovato rispetto per la natura. La differenza rispetto al
passato è tutta condensata nella conoscenza e quindi nella responsabilità:
sappiamo dove siamo arrivati e cosa dobbiamo e possiamo fare, ognuno e tutti.
Giorgio Nebbia, disincantato e realista, non era pessimista: il pessimismo è un
alibi.
Fotografia di Marinella Correggia