Una versione leggermente modificata del presente
articolo è apparsa in “Le parole e le
cose 2” - rubrica “Ecologie della trasformazione”,
http://www.leparoleelecose.it/?p=34943
Politica, ontologie,
ecologia: perché unire assieme queste tre parole, ciascuna delle quali
provvista di una lunga storia? O anche: perché mettere “ontologie” in mezzo a
politica e ecologia? Si tratta di un’inutile complicazione, che tira in ballo
(tra l’altro al plurale) un concetto tra i più sdrucciolevoli della filosofia,
o di un passo necessario? Nel prosieguo provo a motivare la seconda opzione.
“Ecologia politica” è
un’etichetta che identifica un filone di studi piuttosto variegato dal punto di
vista disciplinare (antropologia, sociologia, storia, geografia, economia,
filosofia, ma anche scienze agrarie e forestali ecc.) ma ben riconoscibile nel
suo incentrarsi sulla “relazione tra fattori politici, economici e sociali e le
questioni e i mutamenti ambientali” (così recita la definizione che troviamo su
Wikipedia)[1], contestando gli approcci apolitici a tali
questioni e mutamenti. Secondo Paul Robbins, autore di un libro di testo di un
certo successo sull’argomento, si tratta di “un filone di ricerca critica
basato sull’assunto che ogni strappo nella trama della rete globale di
connessioni tra esseri umani e ambiente si riverbera sul sistema nel suo
complesso”, e sull’impegno a “interrogare la relazione tra economia, politica e
natura” (Robbins 2012, p. 13).
La matrice dell’ecologia politica
è fondamentalmente marxista. L’interrogazione quindi riguarda non la storia
umana in generale ma i processi di accumulazione capitalista, in quanto basati
sul contemporaneo sfruttamento del lavoro umano e non-umano; sfruttamento che è
andato depauperando e distruggendo l’uno e l’altra. L’idea portante
dell’ecologia politica è così che non vi possa essere transizione ecologica
senza trasformazione sociale, o viceversa. Proprio le ascendenze marxiane
lasciano tuttavia in una certa ambiguità l’esatto carattere del nesso. Natura
“corpo inorganico dell’uomo”, dice Marx, ma come per quest’ultimo anche per
l’ecologia politica ciò che rimane (per lo più) indiscusso è che il lavoro
umano sia un unicum sul pianeta, per la sua capacità di trasformare intenzionalmente
il mondo conferendogli un valore che tra l’altro può avere senso solo per gli
umani medesimi. In altre parole, ciò che non viene messo (quasi mai) in
discussione è il naturalismo occidentale: l’ontologia dualista secondo la quale
da una parte sta la materia inerte e dall’altra la mente umana, capace di fare
luce sui meccanismi della prima e di trarne vantaggio attraverso la traduzione
tecnica delle conoscenze. Scienza e tecnica mantengono il loro mandato moderno
di dominio progressivo (nel senso cronologico e normativo del termine) sul
mondo; dominio da cui vengono fatte dipendere le possibilità di emancipazione
sociale, nella misura in cui queste si legano al superamento della scarsità
indotta dai rapporti capitalistici. L’oltrepassamento del capitalismo, dicono
gli “accelerazionisti” (Srnicek e Williams 2015) riprendendo un tema classico,
avviene passandoci attraverso, beneficiando quindi delle innovazioni tecniche
che esso ha reso possibili. In questo modo si omette di chiedersi se i rapporti
di produzione possano cambiare continuando a usare e anzi potenziando i
medesimi mezzi di produzione. Viene trascurata in tal senso la lezione della
Teoria Critica, e di Adorno in particolare, secondo cui sociale e naturale non
sono due sfere separate: non è possibile (con buona pace di Habermas) applicare
la ragione strumentale al secondo ambito senza che essa prevalga anche nel
primo, e l’idea di una natura plasmata dall’uomo a proprio piacimento è intrisa
del pensiero dell’identità, ossia una mimesi distorta che cerca di appropriarsi
dell’alterità negandola, da cui non possono discendere che guai.
Più nel concreto, diviene
impossibile interrogare importanti, e apparentemente contraddittori, fenomeni
in corso. Pensiamo ad esempio alla narrativa dell’Antropocene come fine della,
o “liberazione” dalla, natura (Arias-Maldonado 2013). Questo racconto, cui è
arriso un rapido e sospetto successo accademico ed extra-accademico, consente
di parlare di “disaccoppiamento” tecnologico dalle basi naturali del
sostentamento (Breakthrough Institute 2015), sottacendo che più tecnologia
significa più, e non meno, intreccio tra azione umana e risposta della materia
(Pellizzoni 2019). Consente anche di asserire che la natura ormai “siamo noi”
(Crutzen e Schwägerl 2011), ma allo stesso tempo ci sono confini oggettivi
entro cui i processi sistemici planetari assicurano uno “spazio operativo
sicuro per l’umanità” (Rockström et al. 2009); confini la cui esatta
identificazione è tuttavia rinviata (vedremo che si tratta di una mossa caratteristica
della nuova razionalità di governo). Pensiamo poi a questioni di importanza
tutt’altro che trascurabile nel ridisegnare, perpetuandoli, i rapporti di
produzione e di dominio capitalisti, come i “servizi ecosistemici”, le
“compensazioni della biodiversità” (biodiversity
offsetting), o la geoigegneria. I primi sono definiti come i “benefici che
i sistemi biofisici forniscono agli esseri umani, dalla fornitura di risorse a
funzioni regolative e di supporto, come la cattura del carbonio, la decomposizione
dei rifiuti, la formazione del suolo o l’impollinazione” (Millennium Ecosystem
Assessment 2005). Lavoro gratuito della natura, in altre parole. I secondi
riproducono la logica delle compensazioni per le emissioni di gas serra,
assumendo che la distruzione che avviene in un luogo, per esempio
l’abbattimento di una foresta, sia compensabile impiantandone un’altra in un
altro posto (Battistoni 2017). Quanto alla geoingegneria, gli approcci al
cambiamento climatico definiti di “gestione della radiazione solare” (solar radiation management: SRM) partono
dall’assunto che, nell’impossibilità (leggi: mancanza di volontà politica) di
ridurre le emissioni di gas serra nella misura necessaria a produrre effetti
significativi, una risposta veloce e relativamente economica sta nel riflettere
l’irraggiamento solare per mezzo di specchi giganti, oppure spruzzando in
atmosfera solfati o acqua marina, o mediante tecnologie similari (Keith 2013).
E’ chiaro che in tutto
questo è in gioco la tradizionale strategia del capitale, di scomporre la
realtà in unità astrattamente equivalenti, suscettibili di dislocazione e
riassemblaggio in base alle esigenze di appropriazione e creazione di valore;
strategia che Jason Moore (2015) ha mostrato essere cruciale per il capitalismo
sin dai suoi albori. I benefici “spontanei” dei sistemi biofisici si intendono
infatti liberamente smontabili e portabili, a prescindere dalle interdipendenze
note e ignote degli ecosistemi originari. Ma è anche chiaro che qui il gioco
ontologico si fa più complesso e sottile, attraverso negazioni del dualismo
naturalista e sue riaffermazioni secondo una modalità nuova, per la quale il
“naturale” appare una sorta di differenziazione interna del sociale, del
tecnico, o del capitale stesso: quasi come un momento di respiro o hegeliana
contraddizione necessario per compiere un ulteriore salto in avanti (Pellizzoni
2019). Per i sostenitori del “disaccoppiamento” tra natura e tecnica, la prima
diviene l’oggetto di una libera (e sempre revocabile) scelta di non intervenire
su specifiche porzioni o elementi del pianeta. Per i fautori dei servizi
ecosistemici questi sono da considerare contemporaneamente “naturali” e
“tecnici”, in quanto immediatamente acquisiti nel circuito della
valorizzazione. Per le industrie dell’agribusiness, poi, la natura è
ontologicamente e non solo interpretativamente “tecnica”, dato che non c’è
nessuna differenza sostanziale tra le ibridazioni che la natura fa
spontaneamente, quelle degli agricoltori tradizionali e quelle (più precise)
che fanno le biotecnologie.
In questo gioco ontologico
sia l’idea di controllo e prevedibilità che quella di tempo subiscono
trasformazioni radicali. Per esempio, se prendiamo il SRM, è facile rendersi
conto che introdurre alterazioni a un sistema già di per sé caotico come quello
climatico non può che riprodurre, se non incrementare, l’imprevedibilità delle
risposte, che possono essere molto diverse da quelle attese e manifestarsi in
aree del globo molto distanti da dove l’azione è stata compiuta. Qual è allora il
senso della strategia? Certamente non di “controllare” il sistema in un senso
tradizionale del termine. Semmai quello di “cavalcare” le sue reazioni
imprevedibili, esercitando e affinando la prontezza di risposta (la resilienza
e la preparedness di cui tanto si
parla in molti ambiti, dalla finanza all’innovazione, alle emergenze).
Naturalmente in questo modo ogni attribuzione di responsabilità diviene ardua,
se non impossibile: primo, perché stabilire relazioni causali precise si fa
oltremodo difficile; secondo, perché qualunque evento (siccità o uragani dove
mai prima si erano verificati, per esempio), per il fatto stesso che si è
verificato, dimostra che era una possibilità concreta, ancorché inespressa
(Pellizzoni 2019). Contrariamente alla concezione moderna del soggetto in
relazione con il mondo, l’incertezza diviene regola anziché eccezione, e pur
essendo non governabile attraverso il calcolo probabilistico non soffoca ma
anzi potenzia la capacità d’azione razionale (Pellizzoni 2016).
Se poi prendiamo l’idea di
Antropocene, come superamento della distinzione società/natura e simultanea
affermazione della presenza di barriere biofisiche oggettive, ci troviamo alle
prese con un ircocervo che tuttavia delinea una struttura temporale peculiare.
Un evento (il superamento “dei confini operativi sicuri”) viene posto come
certo, anche se imprecisato nei dettagli, e si forma in questo modo un tempo
operativo destinato a ritardare indefinitamente tale evento, respingendolo in
un futuro che, per usare le parole di Luhmann (1976), non comincerà mai; tempo
operativo in cui è quindi possibile compiere letteralmente qualsiasi cosa
purché la si giustifichi in base a tale finalità superiore. Si tratta,
palesemente, di una temporalità che non è più quella moderna. Quest’ultima,
come sappiamo, consiste in una freccia orientata in avanti lungo una
traiettoria scandita per addizione quantitativa di momenti, in cui ad ogni
passo si aprono biforcazioni, ossia scelte, da cui è difficile e a volte
impossibile retrocedere (anzi, non si retrocede: si procede cercando di tornare
sulla traiettoria da cui si è deviato). Qui invece siamo alle prese con una
temporalità “messianica”, dove ogni attimo e ogni azione assumono una valenza
non più cronologica, sequenziale, ma “kairologica”, ossia fatta di istanti
rivelatori rapportati a una escatologia finale (catastrofica come una nuova
glaciazione o rigenerativa come la fine della fame nel mondo o la clonazione),
capace per questo di rimescolare il passato insieme al futuro (Pellizzoni 2019).
Per esempio, tornando al SRM, la cornice di senso che lo giustifica è, come
accennato, non solo che occorre adattarsi a “gestire” uragani, desertificazione
o altri fenomeni climatici estremi, ma che nel momento in cui si verificano in
aree geografiche dove di essi non si ha memoria storica dimostrano
semplicemente di attuare una possibilità da sempre latente.
Si tratta, beninteso, di
fenomeni esprimenti una razionalità di governo che non riguarda solo l’azione
sul mondo biofisico: anzi, in questo ambito il suo dispiegarsi è ancora in
larghissima parte non riconosciuto e quello che ho detto non è affatto
scontato. Altrove, invece, il dibattito al riguardo è in corso da qualche
tempo. L’idea di una funzione “produttiva” dell’indeterminazione, in termini di
espansione delle capacità razionali di perseguimento di uno scopo, è per
esempio esattamente quella riscontrata nei mercati finanziari, in particolare i
derivati (esiste tra l’altro una categoria di derivati in cui l’incerto
sottostante è proprio di carattere atmosferico: cfr. Cooper 2010). Più in
generale, tale idea risulta al centro di una narrativa economico-manageriale
che ha preso piede a partire dagli anni ’80 e che celebra pericolo,
insicurezza, volatilità, disordine e decisione non predittiva come “fulcro di
ciò che è positivo e costruttivo” (O’Malley 2010, p. 502; per un esempio
emblematico di tale letteratura cfr. Taleb 2012); narrativa sua volta
palesemente connessa con l’ideologia neoliberale. L’ontologia di quest’ultima è
infatti, come Foucault ha messo bene in chiaro, che il mondo è troppo complesso
per consentire predizione e pianificazione, quindi l’unica strategia sensata è
disegnare le condizioni (leggi: estremizzazione delle disuguaglianze e della
competizione) atte a far sì che il mercato possa fungere da regolatore
automatico, selezionando le azioni che, risultando vincenti, sono anche quelle
socialmente desiderabili (Dardot e Laval 2009). Turbolenza e imprevedibilità,
dunque, non solo sono inevitabili ma anche benefiche; il loro incremento è da
incoraggiare.
Quanto alla temporalità
messianica che vediamo all’opera nel SRM (ma lo stesso vale per altri ambiti:
dall’informatica in procinto di produrre “singolarità” per cui le macchine
diverranno autonome rispetto agli umani, ma che nel frattempo consente di
sviluppare senza restrizioni il “capitalismo delle piattaforme”, ossia un nuovo
modo di accumulazione, alle tecnologie genetiche, le nanoscienze e le
neuroscienze, la cui “convergenza” annunciata e sempre rinviata consentirà di
risolvere tutti i problemi, dalla fame all’invecchiamento e l’inquinamento, ma
nel frattempo giustifica il crescente asservimento della ricerca a fini
produttivi), essa segnala il pensionamento della (breve) stagione della
precauzione – forma di anticipazione che implica una temporalità lineare come e
più della tradizionale prevenzione, dato che il suo terreno elettivo sono i
processi irreversibili – a favore della modalità emergente di governo
anticipatorio: la pre-emption. Uso il
termine inglese perché non esiste, a mia conoscenza, un’espressione italiana
capace di rendere bene il senso della parola, che non significa semplice
predizione o prevenzione ma (prendendone alla lettera la semantica)
“svuotamento preventivo”, atto dell’inficiare anticipatamente il senso e la
possibilità di un agire. La pre-emption
è stata discussa soprattutto rispetto alle applicazioni in campo militare e
securitario (Cooper 2006; Massumi 2007; Anderson 2010; Kaiser 2015) ed è lì che
occorre guardare per capire in cosa consiste.
Al riguardo rimangono
scolpite le parole usate da G.W. Bush per spiegare, in un discorso fatto nel
2002 all’accademia militare di West Point, la strategia della “guerra al
terrore”: “Se aspettiamo che le minacce si materializzino sarà troppo tardi.
Dobbiamo ingaggiare battaglia col nemico, distruggere I suoi piani e affrontare
le peggiori minacce prima che esse
emergano” (Bush 2002, corsivo mio). Concetto che Bush ripeté qualche tempo
dopo dicendo che “magari qualcuno è in disaccordo con la mia decisione di
rimuovere Saddam Hussein, ma possiamo tutti concordare che i terroristi hanno
reso l’Iraq un fronte centrale nella guerra al terrore” (Bush 2005, citato in
Massumi 2007). Ossia: rimuovere Saddam Hussein era la cosa giusta da fare, dato
che così l’Iraq è diventato ciò che giustificava l’azione stessa. Massumi
(2007) parla in proposito di “azione incitativa”, dato che, essendo meramente
presunte, le minacce devono essere fatte uscire allo scoperto, per affrontarle
come si conviene. Parla anche di “verità retroattiva”. Quest’ultima espressione
va però bene intesa (e non sono sicuro che Massumi lo faccia): non si tratta di
reinterpretare il passato alla luce del presente, cosa che non costituirebbe
nulla di nuovo, ma letteralmente di retroagire
su di esso, facendolo diventare un posto dove sono successe cose diverse;
altrimenti la minaccia non avrebbe potuto essere suscitata (Pellizzoni 2019). È
la stessa logica che abbiamo visto sottesa al SRM. Si può obiettare che
quest’ultimo è al momento più una speculazione affiancata ad alcuni esperimenti
che una politica attuata. Prendiamo allora gli OGM. Qui, come accennato, la
narrativa delle grandi multinazionali è che quello che si fa non è altro che la
continuazione di ciò che si è fatto per migliaia di anni in agricoltura, o anzi
quello che la natura fa da sempre, dato che “la ‘tecnologia’ in queste
pratiche, non è altro che la biologia stessa, o la ‘vita stessa’” (Thacker
2007, p. xix). Affermazioni che non impediscono, anzi giustificano, che i
brevetti biotecnologici proteggano legalmente gli OGM in quanto differenti da
ciò che si dà in natura, e tuttavia essi debbano essere considerati
“sostanzialmente equivalenti” a quest’ultima, dunque non soggetti a
regolamentazione specifica (Pellizzoni 2016).
Credo che quanto precede sia
sufficiente a mostrare che la posta in gioco, nelle lotte che hanno per oggetto
o sfondo il rapporto tra mondo umano e non-umano, produzione e riproduzione, e
nell’ecologia politica come indagine su di esse, sia oggi prioritariamente
ontologica. Ma è una posta rispetto a cui tanto l’ecologia quanto la teoria
politica si trovano spiazzati. La prima, non come specifica disciplina ma come
ambito di riflessione sul rapporto natura/società, ha storicamente oscillato
tra realismo e costruzionismo, ossia tra l’adozione di un tradizionale
naturalismo e l’allineamento alla svolta linguistica del post-moderno;
allineamento che ovviamente non mette in discussione ma conferma il dualismo
mente/corpo o materia/linguaggio, semplicemente rovesciando l’ordinamento dei
termini in ciascuna polarità. L’emersione di posizioni ontologiche non-dualiste
è avvenuta, nelle scienze sociali degli ultimi decenni, soprattutto in due
ambiti. Il primo è quello dei Science and
technology studies (STS), dove gli studi sulle pratiche di costruzione del
dato empirico e approcci come l’Actor-network
theory (ANT) hanno evidenziato come la realtà (scientifica) sia l’esito
contingente dell’azione di una varietà di elementi, umani e non-umani, animati
e inanimati (come le strumentazioni di laboratorio o i reagenti chimici).
L’altro ambito rilevante è l’antropologia, dove la pregiudiziale culturalista
(una realtà/molte interpretazioni) ha lasciato progressivamente il campo a una
prospettiva “multinaturalista” (varie nature-culture, ciascuna con il suo modo
di ordinare il mondo e i suoi abitanti, come anche i rapporti tra sensibile e
sovrasensibile), rappresentata da autori come Philippe Descola (2005) o Eduardo
Viveiros de Castro (2009).
Il problema più volte
segnalato nei riguardi dell’ontologia “piatta” proposta dall’ANT e dagli STS in
genere, dove attori e attanti si influenzano e co-determinano reciprocamente
muovendosi, per così dire, su un piano di parità, è l’incapacità di (o lo
scarso interesse a) mettere in evidenza i rapporti di dominio, ossia asimmetrie
di potere che perdurano nel tempo e orientano l’evoluzione delle reti e
l’emersione dei fenomeni in direzioni tutt’altro che casuali e contingenti. È
vero che alcuni autori parlano di “politica ontologica” (Mol 1999; Woolgar e
Lezaun 2013), ma si riferiscono al modo in cui le pratiche conoscitive
costituiscono modi di intervenire nel mondo che fanno emergere sue particolari
versioni, da ritenersi non le uniche possibili. Certo, queste pratiche derivano
da ed esprimono relazioni sociali, dunque anche rapporti di potere, ma se si va
a leggere la letteratura STS si scopre che la “politica” di cui si parla è
quasi sempre schiacciata sugli oggetti e le pratiche in quanto tali e raramente
fa una zoomata all’indietro volgendosi ad approfondire, e soprattutto a
criticare, le cornici istituzionalizzate entro cui tali pratiche si svolgono e
tali entità prendono forma. C’è poi un’asincronia tra metodo e oggetto di
indagine. Gli STS si sono sviluppati in polemica tanto con il naturalismo
scientifico quanto con il costruzionismo culturale, ma l’effetto di
smascheramento che l’affermazione di ontologie non-dualiste poteva avere nei
confronti di entrambi risulta esangue di fronte alle tendenze emergenti in una
varietà di ambiti tecno-scientifici (si pensi agli esempi fatti ma ve n’è una
varietà di altri, in chimica, fisica, biologia, computer science, ecc.), le
quali danno per assodata la convenzionalità dei tradizionali dualismi
(individuo/ambiente, mente/corpo, vivo/non-vivo, organismo/macchina;
materia/informazione, conoscenza/produzione di realtà), senza per questo dare
segno di mutare il proprio orientamento appropriativo e dominativo nei
confronti del mondo. Di questo si è accorto Bruno Latour, che da vari anni ha
avviato una poderosa retromarcia (sul cui merito metodologico e politico qui
non entro) rispetto all’ontologia “piatta” di cui è stato campione, avendo
notato che quest’ultima è più utile che dannosa al business-as-usual (cfr. p. es. Latour 2004, 2018). Una prospettiva
che azzera i differenziali di potere/sapere è per esempio utile a spianare la
via alla “fabbricazione dell’incertezza” (Michaels 2006), ossia l’appello al
carattere controverso dei dati, qualunque ne sia la fonte e l’entità, al fine
di giustificare il blocco di azioni a difesa di ambiente e salute, nell’attesa
che venga fatta chiarezza tramite ulteriore ricerca (il “saperne abbastanza”
funge qui da evento escatologico eternamente rinviato analogo a quelli sopra
accennati, a conferma della pervasività dell’approccio governamentale messianico).
Quanto alle implicazioni
politiche del multinaturalismo, esse sono state sviluppate soprattutto dagli
studi post-coloniali (Spivak, Chakrabarty, Gudynas ecc.), dove si è arrivati a
parlare di “lotte ontologiche” contro dighe, estrazioni, trivellazioni,
deforestazione, agricoltura intensiva; ontologiche in quanto basate su una
denaturalizzazione dei dualismi occidentali a favore di prospettive secondo cui
“tutti gli esseri esistono sempre in relazione e mai come ‘oggetti’ o
individui” (Escobar 2010, p. 39). Si riscontra qui un problema in certo qual
modo opposto a quello degli STS. Potremmo chiamarlo un eccesso di
politicizzazione, nel senso di una troppo veloce equiparazione tra
contestazione del naturalismo occidentale e valenza emancipativa delle ontologie
non-dualiste. Troppo veloce sia perché spesso manca di un’autoriflessività
sufficiente a porsi il dubbio se l’uso che si fa nei campus americani o nelle
grandi e piccole università europee di concetti come il buen vivir non si configuri come una forma di neo-colonialismo
culturale volto ad adattare alle proprie categorie ontologiche e ai propri
scopi visioni del mondo e obiettivi esistenziali profondamente diversi, sia
perché rimane interdetta di fronte a fenomeni che sono sotto gli occhi di
tutti: per esempio il fatto che il capitalismo neoliberale va a nozze con la
sostituzione delle rivendicazioni per l’uguaglianza a favore delle
rivendicazioni per le diversità (Poupeau 2012; Fraser 2013; Lilla 2017); oppure
se il produttivismo e neo-estrattivismo di cui sono accusati i governi dei
paesi latino-americani corrisponda a un tradimento delle ontologie
“alternative”, a volte solennemente dichiarate in costituzione, o sia un
necessario presupposto per un’emancipazione che, per essere politica e sociale,
deve essere anche e prima di tutto economica.
Questo “eccesso di fretta”
nell’equiparazione tra dualismo e dominio da una parte e non-dualismo e
emancipazione dall’altra si riscontra anche a livello di teoria e filosofia
politica. La “svolta ontologica” che a partire dagli anni ’90 ha portato
all’emersione di “nuovi materialismi” (Coole e Frost 2010) è un processo
complesso, in cui il post-strutturalismo francese (con Deleuze in cima) ha
giocato un ruolo primario e il superamento del naturalismo occidentale si è
spesso intrecciato con la celebrazione della tecnologia in funzione
anti-umanista (anche in questo caso equiparando un po’ troppo
semplicisticamente l’umanismo con il dominio). Pur nella varietà degli accenti,
tratto largamente condiviso dei nuovi materialismi (da non confondere con il
ritorno al realismo tradizionale da alcuni propugnato) è l’affermazione di
un’ontologia desostanzializzata, puramente differenziale, e la celebrazione
vitalista della materia e dei suoi poteri generativi (cfr. p. es. Hird 2009;
Grosz 2011). Anche in questo caso variazione, molteplicità e contingenza
vengono fatte corrispondere a emancipazione, a volte con il corollario di un
affrancamento (dichiarato e in quanto tale ovviamente auto-contraddittorio)
dalla critica discorsiva, vista come inefficace e basata sull’assunto di una
capacità del critico di collocarsi al di fuori dei fenomeni analizzati (qui il
Foucault di Illuminismo e critica non
sarebbe d’accordo), a vantaggio del radicamento della resistenza e
dell’opposizione nel corpo e nelle pratiche (e qui vale la pena di ricordare
Adorno e la sua diffidenza per l’ipostatizzazione della pratica a scapito della
riflessione, che egli considera più sintomo dell’alienazione che non risposta
ad essa). Non sembra essere tenuto in gran conto che la pura differenzialità
del soggetto e la totale contingenza e sperimentalità dell’esistenza
costituiscono cardini ontologici del capitalismo neoliberale (Pellizzoni 2016).
La più recente evoluzione di questo filone di pensiero in direzione di una
“geo-ontologia” o un “geontopotere” (Grosz 2011; Povinelli 2016; Clark e Yusoff
2017, ma si veda anche l’ultimo Latour sopra citato) ribadisce la fascinazione
della teoria sociale e politica espressa dal filone neo-materialista nei
confronti di uno sperimentalismo continuo, stavolta interfacciato con dinamiche
terrestri non fungibili. Ancora una volta, insomma, variazione e contingenza
vengono equiparate a emancipazione mentre la “rigidità” del terrestre funge da
dato certo e imprecisato legittimante la totale plasticità del reale che lo
“anticipa”, secondo il consueto schema messianico (Pellizzoni 2019).
Senza arrivare
necessariamente a dire, seguendo Zizek (2004), che, essendo Deleuze
l’ideologo del tardo capitalismo, di tale ideologia i nuovi materialismi
costituiscono il dispiegamento, o, con Boltanski e Chiapello (1999), concludere
che gli intellettuali si sono fatti ancora una volta catturare dall’oggetto
della propria denuncia, credo che quanto sopra sia sufficiente a mostrare come
parlare di politica e natura, o fare “ecologia politica”, senza mettere in
cantiere un’approfondita riflessione ontologica significhi rinunciare a
confrontarsi con le forme emergenti di dominio. Questo riguarda anche il
pensiero critico di matrice marxista. Colpisce al riguardo come il wishful thinking della tesi
post-operaista sul capitalismo cognitivo (Vercellone 2007; Virno 2001) si stia
ripetendo nei confronti del lavoro riproduttivo (umano e non-umano). Se non ci
sono ormai molti dubbi che i lavoratori della conoscenza, anziché costituire
una nuova, risolutiva avanguardia rivoluzionaria, si trovano in una condizione
sempre più precaria e asservita a un capitale che da loro estrae ogni energia
intellettuale e umana, sorprende che la medesima tesi venga estesa alla natura,
intesa come “dinamiche auto-organizzative e capacità rigenerative
socio-ecologiche esterne rispetto ai diretti processi di produzione” (Nelson
2015, p. 462). Il wishful thinking è
confermato dal fatto che, tanto per il lavoro umano che per quello non-umano,
si insiste a parlare di un ritorno alla sussunzione formale (Hardt e Negri
2017). Certo, la riduzione del materiale umano e non-umano a ingranaggio o
mattone da inserire nei processi di valorizzazione non è così chiaramente
visibile come nella fabbrica fordista o nell’industrializzazione agricola del
secolo scorso. Smembramento e riassemblaggio, tuttavia, non scompaiono, ma
avvengono in modo più profondo e pervasivo (Pellizzoni 2018). La creatività e
dedizione affettiva e relazionale del lavoratore della conoscenza è plasmata da
interventi – a volte suadenti, a volte brutali – volti a imporre a ogni costo
il soggetto neoliberale, imprenditore di se stesso; e ciò sia nei settori di
avanguardia produttiva come le ICT che nel contesto tradizionale dell’accademia.
Lo stesso tipo di smembramento e riassemblaggio avviene, come abbiamo visto,
con i “servizi ecosistemici” e il biodiversity
offsetting. Ma vale anche per il lavoro riproduttivo umano, se solo si
pensa alla crescente rilevanza economica delle diverse forme di “lavoro
clinico” (Cooper e Waldby 2015): donazione di ovuli, maternità surrogata,
sperimentazione farmacologica e così via, dove il corpo umano (specialmente
quello femminile) diviene esso stesso un “servizio”. In effetti, come si
comincia a dire apertamente anche in ambito marxista (Leonardi 2017), non ha
più molto senso tenere separata, anche solo dal punto di vista analitico, la
sfera della produzione da quella della riproduzione.
Di fronte a tutto ciò pare
davvero necessario un impegno critico che non guardi al presente con la mente
rivolta al passato, pensando che ancora si tratti solo di denunciare gli
effetti dominativi del naturalismo e dell’umanismo, quando questi ultimi non
svolgono più il ruolo di fondamenti irrinunciabili dell’ordinamento del mondo
ma sono mosse tattiche in una politica ontologica che, a seconda delle
necessità e dei contesti, passa fluidamente dalla tradizione occidentale alle
ontologie non-occidentali e si allinea volentieri alle celebrazioni del
post-umano da parte delle “avanguardie” intellettuali cogliendo in esse
opportunità inedite di assoggettamento. La constatazione che personalmente mi
muove, ma che ovviamente è solo una possibile declinazione della problematica,
è che il superamento del naturalismo (e del suo reciproco culturalista) è
coinciso con un’inusitata estroflessione del soggetto moderno, che di esso
rappresenta il presupposto; soggetto che, man mano che perde di sostanza e si
fa plastico e contingente, si traduce sempre più in una pura volontà di potenza.
Tale volontà, nelle condizioni storiche del tardo capitalismo, coincide con il
rinnovato miraggio della crescita infinita, ma ha imparato a giocare con le
categorie ontologiche da cui ha preso le mosse, a partire da quella
fondamentale del tempo. In tale contesto, l’umile, affettivo “prendersi cura”
del mondo invocato da una varietà di autori e prospettive disciplinari (cfr.
fra gli altri Puig de la Bellacasa 2011) non può consistere semplicemente nella
denuncia di separazioni astratte e storicamente devastanti (tutt’ora presenti,
ovviamente, ma come accennato usate sempre più in modo tattico), ma deve
confrontarsi con una soggettività espansiva che esso stenta a riconoscere prima
di tutto dentro di sé, quando parla di emancipazione come affermazione di una
perenne contingenza e auto-trasformabilità, e che in un mondo senza separazioni
ontologiche non trova davvero più alcuna barriera (l’evocazione della
catastrofe o rigenerazione finale, come abbiamo visto, alimenta piuttosto che
contenere questa deriva). Solo se l’avvicinarsi all’altro non significa
assimilare l’altro a sé, pretendendo di parlare in sua vece, se “affettività”
non si traduce in “effettività” (cosa che, come sappiamo, la governamentalità
neoliberale sa fare molto bene), e se invece che soglie da oltrepassare o
barriere da accettare riluttanti i limiti diventano risorse per definire se
stessi, relazioni rispettose con il mondo sono possibili e una presenza
sostenibile degli umani sul pianeta può essere perseguita con qualche
possibilità di successo.
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