Premessa
In questo intervento intendo sostenere una tesi che andrebbe verificata e
approfondita con ulteriori ricerche e verifiche, e che però, anche solo
sulla base del materiale che utilizzerò, spero susciti qualche interesse.
La tesi è che la Prima guerra mondiale, contrariamente a una
rappresentazione molto diffusa e ben presente anche nella storiografia,
oltre che nella pubblicistica di vario orientamento, non rappresentò un
momento o tappa nel processo, tutt’altro che lineare, di emancipazione
femminile, bensì un arresto di tale processo; ciò in polemica esplicita con
le posizioni diffuse che considerano il coinvolgimento diretto delle donne
negli eventi bellici novecenteschi e attuali una forma di valorizzazione e
affermazione della loro identità, non più bloccata nella femminilità ma
resa virile attraverso la guerra, divenendo per tale via pari agli uomini.
Sostengo invece, sulla base dell’iconografia del movimento operaio, che la
guerra mondiale, per la prima volta effettivamente totale, segnando la più
radicale e generalizzata affermazione dei valori incarnati dal maschio in
armi, costituì una svolta regressiva e de-emancipativa, una crisi acuta nel
processo di civilizzazione, non a caso sfociata nei totalitarismi e nella
politica del terrore, con la radicale marginalizzazione delle donne e la
loro riduzione ad un ruolo subalterno, variamente articolato a seconda
delle culture politiche, ma sicuramente contrario e estraneo ad ogni
istanza di affermazione e emancipazione.
La scelta dell’iconografia del movimento operaio è legittimata dal fatto
che nei decenni dell’8 e ‘900 presi in considerazione fu molto
significativa per molteplici motivi che ne spiegano anche l’abbondanza e
l’efficacia: il movimento operaio, nelle sue variegate articolazioni, era
il contenitore principale, anche se non unico, delle istanze di
miglioramento sociale e il luogo politico più importante in cui poté
manifestarsi il protagonismo femminile. Nell’ambito poi di tale iconografia
un posto eccezionale è occupato dalla vicenda del Primo Maggio il cui
successo sorprendente fu contrassegnato dalla diffusione nello spazio e
dalla durata nel tempo, consentendo di cogliere le trasformazioni nella
mentalità e nella cultura politica, mettendo a disposizione un corpus di
immagini molto consistente e qui utilizzato solo in minima parte per
indagare il tema della virilità e femminilità alla luce della frattura
segnata dalla Prima guerra mondiale. Il Primo Maggio è un banco di prova
importante per alcune sue caratteristiche salienti che ne fanno un unicum
nella storia delle classi lavoratrici tra ‘8 e ‘900; considerato nella sua
ampiezza spazio-temporale e nella molteplicità delle sue manifestazioni il
Primo Maggio è una sorta di epitome delle forme di lotta e di espressione
del movimento dei lavoratori e lavoratrici, da quelle più dure alle più
pacifiche, in ogni luogo e continente. Il suo successo immediato e
contagioso, ben al di là di ciò che potevano ottenere l’organizzazione e la
propaganda, rimanda ad una rottura profonda del tempo storico, per un
giorno l’utopia prende forma e segna uno scarto nella continuità del lavoro
come subordinazione e imposizione. E’ la ripresa, dentro le società
industriali, delle forme di sovvertimento rituale dell’ordine gerarchico
tipico di alcune feste popolari come il carnevale.
D’altro canto la tradizione del primo maggio è molto antica e
sostanzialmente rimanda ad un rito di fertilità legato al ritorno della
primavera, con al centro le donne, come regine di maggio; per i suoi
evidenti connotati pagani venne in vario modo contrastata dalla Chiesa,
anche perché nella festa popolare del Calendimaggio si sovrapponevano riti
di fertilità e viaggio nel mondo dei morti, non senza sospetti di
slittamenti verso il Sabba stregonesco (notte di Santa Valpurga). La
complessa e plurisecolare operazione di contrasto e assimilazione condotta
dalla Chiesa cattolica è sfociata nella dedicazione del fiorito mese di
maggio alla Madonna, mentre a San Giuseppe è dedicata la festa del lavoro.
Per parte loro gli operai nordamericani, di più o meno recente
immigrazione, quando decisero di scegliere la giornata del primo maggio per
porre le loro rivendicazioni, in particolare della giornata lavorativa di
otto ore, avevano presente in modo consapevole o meno il legame di tale
data coi riti di rinnovamento ciclico della vita, diffusi in particolare
nelle culture nordiche.
Le origini del Primo Maggio
La scelta ufficiale del Primo Maggio per celebrare il movimento dei
lavoratori e lavoratrici ebbe luogo al Congresso operaio internazionale di
Parigi del 1899. Veniva così accolta la proposta dell’American Federation
of Labor (Usa) di fissare al primo maggio del 1890 la data dello sciopero
mondiale per la rivendicazione delle otte ore. Sin dal primo momento la
giornata assunse la doppia fisionomia che mantenne a lungo, l’essere ad un
tempo una giornata di festa e di lotta. Una giornata che in molti casi non
poté essere celebrata esattamente il primo di maggio, dato che non c’era la
possibilità di interrompere il lavoro e che quindi venne spostata alla
prima festività del mese; in altri casi, e ancora sino a noi, il Primo
Maggio era illegale e perseguito dalle autorità. Senza approfondirne la
complessa genealogia, riteniamo indispensabile richiamare l’antefatto più
vicino e concreto, da collocare all’origine del giornata internazionale del
Primo Maggio. Il 1 maggio 1886 a Chicago, epicentro principale
dell’industrializzazione nordamericana, si svolse una grande manifestazione
operaia pacifica. Nei giorni successivi ci furono degli incidenti e il 4
maggio duri scontri a Haymarket con l’uccisione di un poliziotto e di
tredici manifestanti. I leader della lotta, tra cui Albert e Lucy Parsons,
vengono arrestati e cinque di loro condannati all’impiccagione. Sono
ricordati come “I martiri di Chicago”. La violenza della repressione è ben
esemplificata dall’arringa dell’accusa: “Questi uomini sono stati
selezionati, scelti dal gran giurì e incriminati perché sono i capi. Non
sono più colpevoli delle migliaia che li seguono. Signori della giuria,
incarcerate questi uomini, fatene degli esempi, impiccateli e salverete le
nostre istituzioni, la nostra società” (cit. da Bruno Cartosio, “May Day e
Labor Day”, in “Uniti sotto le rosse bandiere”, Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli, Milano s.d., p.27). A distanza di tempo tutti gli imputati
furono riconosciuti innocenti. Anche in ragione di questi antecedenti
drammatici, il primo maggio non sarà la festa del lavoro negli Usa,
ufficializzata nel 1894 e collocata il primo lunedì di settembre con il
nome di Labor Day, cercando di togliergli ogni connotazione politica. Il
significato politico e simbolico di quanto era successo venne invece colto
e sottolineato dal movimento operaio internazionale che per ricordare i
fatti di Chicago scelse la data del Primo Maggio come giorno in cui
celebrare la sua festa, in nome dell’emancipazione del lavoro, con una
iconografia che assegnava un posto centrale alla figura femminile esaltata
in termini allegorici.
Un’ ulteriore pista di ricerca che meriterebbe di essere perseguita e
intrecciata alla ricostruzione del Primo Maggio riguarda l’Otto Marzo, la
cui origine è ugualmente complessa e controversa. Di sicuro negli Usa si
celebra come Woman’s Day l’ultima domenica di febbraio a partire dal 1909.
La Conferenza internazionale delle donne socialiste, nel 1910, a Copenaghen
ufficializza l’ultima domenica di febbraio come giornata internazionale di
lotta per il suffragio femminile. Nondimeno in Germania nel 1911 la
giornata della donna si celebra il 19 marzo in ricordo del 19 marzo 1848,
mentre in Francia il 18 marzo 1911 viene celebrato come 40° anniversario
della Comune. Le donne con il nuovo secolo si erano impegnate a fondo per
ottenere la parità, se non sul terreno economico, almeno su quello del
diritto di voto. D’altro canto il Primo Maggio, anche per la sua
progressiva maschilizzazione, non riusciva più ad essere il contenitore
dell’insieme delle istanze di emancipazione. La svolta e la definizione
della data si ha in piena guerra mondiale quando il 23 febbraio 1917 (8
marzo secondo il nostro calendario) le donne, specie lavoratrici, di San
Pietroburgo manifestarono per la pace e il diritto di voto: era l’inizio
della rivoluzione russa.
La centralità allegorica e storica della donna
L’iconografia del movimento operaio dell’800 attinge abbondantemente alle
immagini dedicate agli eventi rivoluzionari: la Comune, la rivoluzione del
48, sino a risalire alla Grande rivoluzione dell’89, concepita come matrice
e fucina simbolica dei movimenti politici di sinistra e dell’intero
movimento operaio. Una genealogia che risulta evidente nel celebre quadro
di Eugène Delacroix, “La Libertà guida il Popolo” (figura n. 1). Ispirato
all’insurrezione del 1830, è “il primo quadro politico della pittura
moderna”, secondo la definizione di Giulio Carlo Argan. La figura femminile
che chiaramente rimanda alla rivoluzione dell’89, è collocata in un
contesto realistico, volto a restituire gli scontri sanguinosi avvenuti
nelle strade di Parigi. Il berretto frigio, che poi tornerà
sistematicamente, al di là delle sue antiche origini, rimanda ai berretti
dei galeotti di Marsiglia e alla loro rivolta nel 1792. Il dipinto di
Delacroix rimane a lungo un riferimento obbligato dell’iconografia
socialista repubblicana (si vedano ad esempio le figure n.6 e n.13 ma la
stessa figura n. 5 si rifà a tale tradizione e così anche la figura n.16,
sino alla figura n.23, dove il richiamo è ormai molto attenuato). La
funzione allegorica della donna è indubbia, tanto più nelle numerose
riprese successive, ma ciò avviene attraverso una rottura nel linguaggio
artistico: la donna a seno scoperto che guida la rivolta è una popolana,
l’esatto contrario della donna borghese o piccolo borghese, il che pone
contemporaneamente una questione di classe e di genere. Come scrive
Hobsbawm: “la novità della Liberté di Delacroix sta dunque
nell’identificazione del nudo femminile con una autentica donna del popolo,
una donna emancipata, con un ruolo attivo, anzi di primo piano, nel
movimento degli uomini” (Eric Hobsbawm, “Uomo e donna nell’iconografia
socialista”, in Studi storici, n. 4 1979, p. 707)
Gli studi più recenti, prendendo atto della ampia circolazione delle
immagini figurative di natura politica che si verifica nel corso dell’800 ,
avendo come referente la Rivoluzione francese, hanno individuato “la genesi
di un lessico visivo transnazionale della politica nella circolazione su
scala europea di prodotti di largo consumo quali incisioni, litografie e
stampa illustrata” (cfr. Gian Luca Fruci e Alessio Petrizzo, “Culture
visuali e forme di politicizzazione nel lungo ‘800 europeo”, in Passato e
presente, n.100, 2017, p 27). Come sottolinea uno specialista in questo
tipo di ricerche, Rolf Reichardt, “l’iconografia della Rivoluzione costituì
fino alla Comune di Parigi, e oltre, un linguaggio democratico di
opposizione ai regimi autoritari al potere, e al contempo un linguaggio
cosmopolita, progressivamente obliterato dall’ascesa degli Stati nazionali”
(Ivi, p. 29). L’iconografia del Primo Maggio non si sottrae a tale parabola
non senza una tenace resistenza e la proposta di un linguaggio comune,
internazionale, almeno sino alla Prima guerra mondiale.
Emblematica del protagonismo femminile alle origini del Primo Maggio è la
fotografia del corteo di donne a Zurigo in un Primo Maggio degli anni 90
(figura n. 2, ma si veda anche la figura n. 12). Ci consente di cogliere la
presenza forte, talvolta preponderante, delle donne in carne e ossa, oltre
che come figure simboliche al centro dell’iconografia del Primo Maggio.
Sono probanti in tal senso le fotografie di cortei popolati da donne specie
nei paesi nord-europei reperibili nei repertori sul Primo Maggio (si veda
ad es. Fondazione Giacomo Brodolini, “The Memory of May Day. An
Iconographic History of the Origins and Implantation of Workers’ Holiday”,
ed. by Andrea Panaccione, Marsilio, Venezia 1989) La spiegazione in un
certo senso è facile: sono anni in cui la presenza delle donne in fabbrica
è molto forte, avendo il suo epicentro nel comparto tessile. A fronte di
ciò la disuguaglianza di genere, a partire dai livelli salariali, è
nettissima: “il massimo di salario della donna è più basso del minimo
salario dell’uomo” (E. Majno). Il movimento operaio, denotando una
debolezza culturale che ne avrebbe minato le prospettive, non si dimostrò
all’altezza della sfida della parità di genere finendo con il convergere
sulle posizioni conservatrici, condividendone la prospettiva di riportare
le donne a casa, come voleva il modello maschilista di famiglia.
Nell’ottica di questo contributo è importante segnalare subito che con la
guerra mondiale il processo di espulsione delle donne dalle fabbriche subì
una brusca inversione (eccetto che in Germania dove le barriere culturali
erano troppo forti, situazione replicatasi nella Seconda guerra mondiale)
eppure ciò non influì in alcun modo sulla virilizzazione del linguaggio
iconografico che il conflitto bellico avrebbe sancito. Il massiccio impiego
di manodopera femminile nell’industria (e nelle campagne) non si tradusse
in un ritorno al protagonismo delle origini ma in una subordinazione
strutturale che fu propria delle esperienze totalitarie novecentesche, a
cui concorse l’involuzione del movimento operaio, in definitiva favorevole
a tenere “legate la maggioranza delle donne sposate e senza salario della
classe operaia al loro ruolo sociale subordinato” (Eric Hobsbawm, “Uomo e
donna nell’iconografia socialista”, cit., p.719).
Si può convenire con la tesi di Hobsbawm sulla “progressiva
maschilizzazione dell’iconografia del movimento operaio” ma questa
prevalenza della virilità sulla femminilità ci pare abbia tempi diversi e
che solo con la guerra mondiale si affermi in modo definitivo. L’avanzata
dell’industria pesante, con la centralità della metallurgia e meccanica, è
certamente un dato da tener presente ma non può essere interpretato in modo
univoco dato che proprio in Inghilterra, in esplicita opposizione alla
marcia inarrestabile dell’industrialismo, si afferma il movimento “arts and
craft” che esprime artisti e illustratori come William Morris e Walter
Crane, i quali operano una saldatura tra l’iconografia rivoluzionaria
francese e la valorizzazione di elementi naturalistici, agresti, se non
bucolici, in un ideale di riconciliazione e redenzione in cui è
fondamentale la figura femminile, sia pure rappresentata in termini
allegorici. Si veda la figura n. 10 dovuta a Walter Crane (ma anche le
figure n. 3, 4, 7, 9), diffusa in molti paesi compresa l’Italia, forse
l’immagine maggiormente rappresentativa del centralità dell’immagine
femminile nell’iconografia del movimento operaio tra ‘8 e ‘900; si noti che
nell’immagine e nelle scritte di rivendicazione non c’è alcun riferimento
al lavoro industriale.
Anche nella grande opera di Pelizza da Volpedo “Il Quarto Stato” (1901) la
posizione della donna è assolutamente centrale (figura n. 11). Il quadro di
Pelizza, frutto di una lunga elaborazione, pur non essendo dedicato in modo
esplicito al Primo Maggio, ne costituisce forse l’interpretazione più
suggestiva e profonda restituendone il significato originario e
fondamentale; in esso il proletariato rappresentato in termini epici e
colto in modo unitario, senza separazione tra operai e lavoratori della
terra, afferma il suo protagonismo, riscatto, redenzione. La donna,
lavoratrice e madre, con il bambino neonato in braccio è il fulcro
principale dell’opera (quasi una Madonna laica). Ma la tavolozza del Primo
Maggio delle origini è molto variegata e al di là di temi ricorrenti si
affacciano novità che indicano l’avvio di processi che arrivano sino a noi.
Il sole nascente e l’aurora sono simboli tipici di questa iconografia che
campeggiano nel numero unico realizzato a Milano per il Primo Maggio del
1904 (figura n. 14), però il disegnatore, Aleardo Villa, cartellonista di
successo, introduce un nuovo tipo di linguaggio, quello della pubblicità
commerciale, qui in stile liberty, che da allora, spinta dalla
modernizzazione, farà leva sempre più sull’immagine del corpo femminile,
ancor prima dell’affermarsi di una società dei consumi. Molto più
tradizionale è l’immagine che “Il Garofano Rosso” (figura. n. 15) dedica al
Primo Maggio del 1905, il corteo dei lavoratori alla luce del sole, mentre
le forze della reazione sono in ombra, è guidato dal giovane lavoratore a
torso nudo affiancato dalla donna con in braccio il bambino, ripresa
evidente, anche se più tradizionale, del quadro di Pellizza. Il tema
dell’unità tra contadini e operai, senza presenze femminili, almeno sino al
1914-17, è relativamente raro (per un esempio si veda figura n. 8).
Il pacifismo
Intrecciato, anche se non coincidente, con il tema della presenza femminile
è quello della pace, che rimarrà a lungo una caratteristica del Primo
Maggio, oltre l’epoca d’oro delle origini e sino a tempi recenti. Anche in
questo caso la spiegazione è lineare e discende dal carattere
internazionale della giornata del lavoro, dall’obiettivo di superare le
divisioni nazionali, matrice prima della guerra. Il nodo pacifismo violenza
si presenta subito nelle manifestazioni del Primo Maggio, il carattere
accentuatamente pacifico delle immagini del Primo Maggio delle origini
contrasta con la dura repressione subita dai manifestanti, ad esempio nel
1891 a Fourmies in Francia Nella produzione di Walter Crane, il più celebre
e affermato cartellonista di fine ‘800, a cui si devono raffigurazioni
diffuse in molto paesi, il “Trionfo del lavoro” è sempre anche un trionfo
della pace. Al Congresso di Bruxelles della Seconda internazionale
nell’agosto del 1891 si indica come obiettivo “il mantenimento, con tutti i
mezzi, della pace mondiale”. Al Congresso di Zurigo del 1893 nella
risoluzione sul Primo Maggio la lotta per la pace viene indicata come
contenuto permanente della festa del lavoro.
Il pacifismo del Primo Maggio ha assunto più o meno evidenza a seconda
delle fasi. Anche su questo versante la guerra mondiale segna uno
spartiacque. E’ vero che giunse in gran parte inaspettata, ma segni
premonitori erano ben visibili negli ultimi anni della Belle Epoque, ciò
non mancò di influenzare il linguaggio iconografico accentuando, in un
primo periodo, il carattere non violento della manifestazione operaia. Si
veda il manifesto “In ricordo del Primo Maggio a Lipsia, 1909” (figura n.
20), al cui centro campeggia la figura femminile in veste bianca,
impersonificazione della pace. Un’ impronta nettamente pacifista
caratterizza i manifesti prodotti a ridosso della guerra, come nel caso
dell’illustrazione sulla copertina de “L’Asino” del 27 aprile 1913 (figura
n. 25). In altri casi si denuncia apertamente il militarismo come nella
figura n. 21, risalente al 1910, dove si inneggia alla pace mentre le
sciabole degli ufficiali prussiani, simbolo della guerra e del dispotismo,
sono trasformate in aratro dalla giovane e robusta donna a seno nudo e con
l’immancabile berretto frigio. Nel supplemento dell’”Arbeiter Jugend”
(Berlino) sempre del 1910 (figura n.22), gli effetti distruttori della
guerra, desolazione del mondo, sono già evidenti e ci si affida alla Dea di
Maggio per le speranze di rinascita.
La guerra
Di particolare interesse e rivelatrice di cambiamenti profondi, soprattutto
nelle culture politiche, è l’evoluzione della figura maschile
nell’iconografia del Prima Maggio, con particolare riferimento alla
comparsa e poi decisa affermazione del nudo maschile, specie del nudo
integrale. Si possono trovare antecedenti numerosi già nei primi anni con
lavoratori a torso nudo che brandiscono un martello o altro attrezzo di
lavoro, più raro è il nudo integrale, specie di giovanetti, che
impersonificano l’irrompere sulla scena della storia di una nuova classe
sociale. Notevole è il nudo maschile, con in testa il berretto frigio, che
campeggia in un manifesto della socialdemocrazia tedesca per il Primo
Maggio 1905 (si veda in “Uniti sotto le rosse bandiere”, cit. p. 49). E
però la guerra, anche in questo caso, segna una frattura con il venire in
primo piano di figure maschili che incarnano l’immagine muscolare della
virilità e della lotta (cfr. figure n. 31,32,44), mentre la figura
femminile anche quando ha un evidente ruolo simbolico viene rappresentata
vestita, subendo un processo di banalizzazione (figure n. 13 e 17) che
precede la sua eclisse o riproposta in ruolo decisamente ancillare. Nel
linguaggio delle immagini la forza e la potenza assumono un rilievo
crescente, esemplare è la figura del Prometeo liberato che il popolare
“Wahre Jacob” propone ai suoi lettori per celebrare, alla vigilia della
guerra, il Primo Maggio 1913 (figura n. 26). Si tratta evidentemente della
promessa di Progresso che si realizzerà con la vittoria del movimento
operaio, ma l’immagine del gigante erculeo simbolo dello sviluppo delle
forze produttive trova altre incarnazioni in contesti tra loro diversissimi
eppure accomunati da concetti di fondo analoghi, al di là delle differenze
politiche. Il canale di Panama inaugurato il 3 agosto 1914, nei giorni in
cui iniziava la guerra mondiale, è la prima grande opera del ‘900; mentre è
in pieno svolgimento la guerra, a san Francisco, dal 20 febbraio al 4
dicembre 1915, si tiene l’esposizione internazionale “Panama Pacific”.
L’Ercole che apre le montagne (figura n. 29), mettendo in collegamento i
due Oceani, è omologo ad altre incarnazioni ed esaltazioni della natura
prometeica dell’uomo che si moltiplicano sempre mettendo al centro la
potenza e forza virile. Si veda a titolo esemplificativo il manifesto
sovietico dedicato al Primo Maggio del 1920 (figura n. 35). Anche l’estremo
e vano tentativo della Seconda Internazionale di fermare la guerra
convocando per l’agosto 1914 un Congresso straordinario a Vienna si traduce
in un manifesto che appartiene allo stesso linguaggio iconografico: un
gigantesco operaio con martello e bandiera rossa sovrasta la capitale
austriaca (figura n. 27) ma il 28 luglio scoppia la guerra tra l’Austria e
la Serbia dando il via alla guerra mondiale. Il Congresso venne annullato.
Il movimento operaio si divide lungo linee nazionali, con molto sbandamenti
e divisioni. “L’Asino” del Primo Maggio 1915 (figura n. 30) invoca il
disarmo generale ma di lì a poco Podrecca e Galantara appoggeranno la
“guerra di giustizia e rinascita umana”. L’eclisse delle donne è totale se
non per raffigurare la morte, stanca del sovrappiù di lavoro impostole
dagli uomini (figure n. 24 e 28). La guerra e la rivoluzione russa che
nella prima affonda le sue radici segnano una discontinuità anche su un
altro versante non meno significativo e che qui può essere solo accennato.
Preziosa anche in questo caso una veloce notazione di Hobsbawm che trova
pieno riscontro nelle immagini in appendice a questo testo: “l’immagine
dell’utopia si è progressivamente spostata da quella basata sulla fertilità
naturale a quella basata sul progresso scientifico e tecnico” (op. cit., p.
720 n.). Sino al 1917 il binomio natura/fertilità prevaleva sulla
tecnologia, successivamente succede il contrario. I manifesti russi
sovietici confermano tale passaggio ma, anche in questo caso, penso che la
frattura sia dovuta in primo luogo alla guerra mondiale; in tal senso è
sufficiente una comparazione tra la serie di manifesti antecedenti al 1914
e quelli successivi. La natura viene cancellata perché ogni investimento si
indirizza verso la potenza industriale, base della forza bellica. Si
verifica una industrializzazione della guerra che ha il suo correspettivo
nella militarizzazione dell’azione politica. D’altro canto sui teatri di
guerra, per la prima volta nella storia, la quantità e potenza degli
esplosivi impiegati sconvolgono letteralmente l’ambiente. E’ su questi
scenari che l’iconografia del Primo Maggio rivela la scomparsa della natura
accanto all’eclisse della donna. Il cambiamento si riflette sia sui
contenuti che sul linguaggio con cui vengono espressi (si vedano le figure
n. 33, 43, 44).
Rivoluzione russa
In epoca zarista il Primo Maggio era vietato ma già a partire dal 1891
vennero organizzate delle manifestazioni e incontri clandestini che per
ragioni di sicurezza si svolgevano prevalentemente in campagna (le
“maevka”). Una svolta venne segnata dalla rivoluzione del 1905 con lotte e
manifestazioni a viso aperto che si prolungarono anche l’anno successivo,
ne è una esemplificazione lo sciopero delle officine Putilov per il Primo
Maggio del 1906 immortalato nel dipinto di Boris Kustodiev (figura n. 18)
che restituisce bene la forte presenza femminile in una delle fabbriche
“mitiche” del movimento rivoluzionario russo. In quegli anni oltre un terzo
della manodopera di fabbrica era costituita da donne; percentuale che
aumenta fortemente nel corso della guerra mondiale, quando le donne, come
del resto in Italia, sono impiegate in tutti i settori produttivi, incluse
le industrie di guerra. La rivoluzione del 1917 e la guerra civile causano
una estrema radicalizzazione del conflitto politico. La Russia
rivoluzionaria a guida bolscevica adotta prontamente il Primo Maggio
imprimendogli, nei primi anni, una curvatura ultrarivoluzionaria.
Nel manifesto del Comintern per il Primo Maggio 1919 si proclama: “Viva la
guerra civile, l’unica guerra giusta, in cui la classe oppressa combatte
contro i propri oppressori”. E’ il momento culminante dell’ondata
rivoluzionaria in cui si considera possibile e imminente la rivoluzione
mondiale. In tutta questa fase il nesso guerra – guerra civile -rivoluzione
è fortissimo. La tesi di Martov, critico acuto del leninismo al potere, è
che la guerra “avrebbe dato vita ad una forma di bolscevismo mondiale,
coinvolgendo grandi masse di uomini nell’esercizio della violenza e
fornendo la materia prima su cui costruire movimenti politici disposti a
tutto per conseguire i loro fini. La guerra era stata causa di un enorme
arretramento nella coscienza sociale del proletariato e dell’affermarsi
della propensione a risolvere tutti i problemi con l’uso immediato della
forza delle armi, persino nei rapporti interni al proletariato stesso”
(cfr. Pier Paolo Poggio, “La rivoluzione russa, il bolscevismo e lo
stalinismo” in ID, a cura di, “L’età del comunismo sovietico. Europa
1900-1945, Fondazione Micheletti – Jaca Book, Milano 2010, p. 24). Gli
scontri all’interno del movimento operaio e la rottura tra la componente
socialista e quella comunista non riguardarono solo lo scenario diretto
della rivoluzione russa ma tutti i paesi e continenti (un caso saliente fu
quello tedesco, figura n. 40)
La necessità della guerra di classe è ben rappresentata dal doppio
manifesto (figura n. 36) dedicato alla festa del Primo Maggio del 1920 in
cui a sinistra c’è l’immagine, fortemente militante, del sabato comunista
nella Russia sovietica mentre a destra il proletariato in armi sconfigge le
forze reazionarie. A partire dalla primavera del 1918 il regime bolscevico
adotta come suoi emblemi la falce e il martello, a significare l’unità tra
contadini e operai, e i manifesti politici diventano uno strumento
fondamentale di propaganda con una notevole produzione, che specie nei
primi anni presenta una grande forza espressiva. La figura maschile è
nettamente dominante sia in veste di fabbro (figura n. 41), immagine ben
presente nell’iconografia tradizionale della festa, sia come soldato della
rivoluzione. Si vedano in tal senso il gigantesco marinaio sovietico
(figura n. 34) e il non meno imponente operaio soldato (figura n. 37),
entrambi del Primo Maggio 1920, ad indicazione della militarizzazione della
giornata che verrà completata negli anni e decenni successivi (un esempio
con armi ancora modeste nella figura n. 51). In un tale contesto le donne
sono poco presenti ovvero sono virilizzate e marciano a fianco di operai e
contadini travolgendo le forze della reazione (figura n. 38), al più
appaiono accanto al compagno maschio, rivoluzionario e marinaio (figura n.
42). In effetti sino alla piena affermazione dello stalinismo il linguaggio
iconografico sovietico, all’interno delle coordinate generali suddette, è
molto vario come stile e scelte tematiche (figure n. 45,46,48,50). Il
colore rosso campeggia su tutto a indicare il comunismo, ma non bisogna
dimenticare che in Russia il rosso era sinonimo non solo di bello ma di
sacro nella religione e arte ortodossa.
Tra le conseguenze più importanti della rivoluzione russa del 1917 ci fu la
proiezione sui continenti extraeuropei delle lotte dei lavoratori, con un
peso rilevante, sino a tempo recenti, della giornata del Primo Maggio,
occasione di manifestazioni imponenti in Paesi tra loro diversissimi come
il Messico o la Turchia. Nell’ottica di questo contributo segnaliamo la
figura n. 39, dedicata ad un Primo Maggio degli anni Venti in Giappone. Qui
la prima celebrazione del Primo Maggio si tenne nel 1920 e nel 1922 il IV
Congresso del Comintern decise che per il Primo Maggio veniva indetto uno
sciopero generale. In Indonesia la prima celebrazione si ebbe già nel 1918.
La figura n. 47 è particolarmente interessante perché vede il ritorno in
primo piano della figura femminile, ma si tratta di una donna indigena
martirizzata dal dominio olandese. In un’iconografia che dalla esaltazione
della forza liberatrice della donna immortalata da Delacroix precipita nel
“cuore di tenebra” del dominio maschile, bianco, coloniale. In Europa il
fascismo e il nazismo assunsero due posizioni differenziate sul Primo
Maggio: i nazisti se ne appropriarono in nome della loro ideologia del
lavoro su basi razziali, i fascisti ne fecero un bersaglio nella lotta
contra la sinistra e lo abolirono, sostituendolo con il 21 aprile, Natale
di Roma e Festa del Lavoro (cfr. figura n.49).
Epilogo
Le ultime immagini di questa rassegna riguardano l’Italia e il Sud Africa,
nel primo caso è Albe Steiner che disegna il manifesto del Primo Maggio
della Liberazione, alla fine della Seconda guerra mondiale, nel secondo il
sindacato che organizza i lavoratori neri incita alla lotta mentre siamo
alla vigilia della fine dell’apartheid (figure n. 52 e 53). In entrambi i
casi il simbolo che campeggia è quello del pugno chiuso, identificativo
della sinistra politica, specie comunista, nel ‘900. Esso vuole
simboleggiare la forza e l’unità. La sua genealogia è al solito piuttosto
complessa. Divenuto popolare nel primo dopoguerra, specie in ambito
comunista tedesco (KPD), un antecedente diretto si può rinvenire negli Usa,
tra gli IWW, in occasione del grande sciopero di Lawrence (Mass.) nel 1912.
Ma è possibile risalire oltre e arrivare agli inizi del Primo Maggio in
Italia. E’ del 1890 il dipinto di Emilio Longoni “L’oratore dello sciopero”
realizzato per celebrare il Primo Maggio 1890 (figura n. 54), in esso sia
l’agitatore in primo piano che la folla dei manifestanti brandiscono il
pugno chiuso della mano sinistra, per sottolineare la lotta di classe
contro la violenta repressione che stavano subendo da parte delle forze
dell’ordine, a conferma della complessità e del carattere molteplice del
Primo Maggio.
Anche per tale motivo riteniamo che la Prima guerra mondiale segni una
frattura, dato che l’unità nella diversità che caratterizza la storia
precedente non sarà più riconquistata. Sin dall’inizio il Primo Maggio è
percorso da divisioni e contrapposizioni ma il dato saliente è costituito
dall’unità di tutti i lavoratori e lavoratrici, e questa unità, assieme
all’ideale utopico di un nuovo mondo, è demandato alla figura femminile
come simbolo della verità, giustizia, pace, libertà, ideali calati nella
storia, a partire dalla rivendicazione iniziale delle otto ore di lavoro
per tutti. La centralità della figura femminile viene meno quando il
movimento operaio si scinde in modo irreversibile lungo due prospettive
antitetiche: da un lato un riformismo sempre più esclusivamente economico,
dall’altro la conquista violenta del potere. Il luogo originario di questa
divisione è la Prima guerra mondiale. La frattura, nonostante la distanza
temporale, risulterà incolmabile. Essendo ormai del tutto minoritaria la
tradizione anarchica, la divisione tra socialismo e comunismo permarrà sino
al crollo del 1989, quando entrambi entrano in una crisi irreversibile e il
lavoro si trova in una condizione di grande debolezza di fronte al
capitale, mentre nuove e vecchie questioni di genere si sviluppano su
terreni che, apparentemente, non hanno più nulla in comune con le
aspirazioni tanto pragmatiche quanto utopiche del movimento operaio e,
d’altro canto, i processi di unificazione materiale della forza-lavoro non
trovano una sintesi ideale, piuttosto diffusi arroccamenti identitari. Allo
stesso modo l’affermazione della differenza femminile, lontana
dall’orizzonte del movimento operaio dell’8 e ‘900, non sembra andare oltre
la riproduzione della separazione contrapposizione tra virilità e
femminilità, come dato naturale insuperabile, guerra dei sessi, imposizione
con la forza di un predominio maschile in pieno disfacimento ma non meno
pericoloso sia nella quotidianità che nella politica.
Contributo presentato al Convegno Donne@Uomini.it. La storia di genere
nell’era digitale, Isrec, Piacenza 9-11 marzo 2017.