L’occasione che ha ispirato questo convegno è il ventesimo anniversario
della pubblicazione del libro “ll lavoro autonomo di seconda generazione.
Scenari del postfordismo in Italia.” Era un volume collettaneo curato da
Andrea Fumagalli e da me, pubblicato da Feltrinelli nel 1997.
Non fu un successo editoriale – non ho mai saputo a dire il vero quante
copie furono vendute – ma ebbe il merito quel libro di aprire un dibattito
pubblico, per la prima volta in Italia, sulla figura del lavoratore
indipendente (self employed) ed in particolare sui professionisti
non regolamentati, cioè non appartenenti agli Ordini tradizionali come i
medici, gli avvocati, gli architetti, gli ingegneri, ecc.. Le tesi di fondo
di quel libro erano quattro:
1 l’universo del lavoro indipendente sta subendo in Italia una profonda
trasformazione con il declino delle figure tradizionali del coltivatore
diretto e del commerciante e l’ascesa dei cosiddetti “lavoratori della
conoscenza” delle nuove professioni o dei servizi creati dai nuovi stili di
vita
2 il lavoratore autonomo non è un’impresa, è una persona che si guadagna da
vivere con un’attività per la quale ci vuole spirito imprenditoriale, ma
l’impresa, concettualmente, è un’altra cosa, è una forma di organizzazione
con diversi ruoli al suo interno, assolti da diverse persone, è una forma
di cooperazione sociale
3 il lavoratore indipendente o autonomo ha un’autonomia che trova il suo
limite nella dipendenza da un rapporto di lavoro (prestazione d’opera)
all’interno del quale egli è il soggetto debole
4 i sistemi previdenziali e assistenziali dei paesi industrializzati sono
modellati sulle esigenze e sulla posizione economica del lavoratore
subordinato ed escludono o tutelano molto marginalmente il lavoratore
indipendente.
Queste tesi furono accolte con molta diffidenza ed una certa ostilità da
parte di illustri esponenti della sociologia del lavoro mentre suscitarono
subito un certo interesse nei giuslavoristi, molto più disposti a discutere
senza pregiudizi le problematiche della trasformazione del mondo del
lavoro.
Credo che il merito di questa immediata apertura da parte dei giuslavoristi
vada assegnato all’approfondita analisi degli aspetti civilistici e
giuslavoristici del lavoro indipendente contenuta nel volume che Adalberto
Perulli aveva pubblicato l’anno prima, 1996, “Il lavoro autonomo. Contratto
d’opera e professioni intellettuali”, Giuffré Editore, e che rimane ancora
una pietra miliare nei ragionamenti della sua disciplina, il diritto del
lavoro.
E questo spiega anche perché ci troviamo qui, in questa Università e in
questo Dipartimento, e non altrove, a tenere questo convegno.
Il seme era gettato e negli anni successivi i lavoratori indipendenti di
seconda generazione cominciarono ad avere consapevolezza della loro
specificità e a dar vita a forme di rappresentanza: nel 2004 in Italia
nasce ACTA e inizia una sistematica opera di chiarificazione delle vere
condizioni di vita e di lavoro dei professionisti indipendenti non
regolamentati. ACTA rappresenta una novità perché vuole essere
un’organizzazione trasversale, mentre fino a quel momento le associazioni
esistenti avevano seguito rigidamente la suddivisione per professioni. La
rappresentanza del lavoro autonomo regolamentato e non era un insieme di
associazioni professionali raccolte sotto l’ombrello di una o più
confederazioni. ACTA non era questo perché ACTA non voleva rappresentare
una o più professioni, ACTA voleva rappresentare una condizione professionale, lavorativa, umana.
Ma l’ambiente culturale e politico continuava ad essere ostile, in
particolare l’ambiente influenzato dalle ideologie di sinistra e dal
movimento sindacale, che non riuscivano a concepire un universo del lavoro
diverso da quello proprio del lavoro subordinato e quindi consideravano il
lavoro non standard, precario, come un lavoro di transizione in attesa di
diventare subordinato e il lavoro indipendente come una forma mascherata di
lavoro subordinato.
Indubbiamente una parte del lavoro autonomo di seconda generazione è una
forma mascherata di lavoro subordinato - le cosiddette “false partite Iva”
– ma esse rappresentano non più del 10% dell’universo dei self employed italiani.
L’ambiente culturale e politico continuava ad essere ostile anche perché
era diffusa nell’opinione pubblica l’idea che i lavoratori autonomi fossero
degli evasori fiscali. In questa dicerìa c’era indubbiamente del vero, ma
ACTA riuscì anche in questo caso a fare opera di chiarezza dimostrando che
per un professionista è facile evadere il fisco quando presta dei servizi
individuali, alla persona, ma è impossibile quando lavora per imprese o per
la pubblica amministrazione, in quanto per queste entità rappresenta un
costo che, nel loro stesso interesse, in quanto committenti, deve essere
documentato.
Grande fu poi lo sconcerto, nell’opinione pubblica ostile, quando ACTA
riuscì a dimostrare che il carico fiscale cui sono sottoposti i lavoratori
indipendenti di seconda generazione, tenuti al versamento obbligatorio dei
contributi alla previdenza sociale pubblica, è pari se non maggiore a
quello dei lavoratori subordinati. Questo divenne l’argomento sul quale
ACTA negli anni successivi deciderà di concentrare la sua azione, che agli
inizi fu portata avanti in totale isolamento.
Ma i tempi stavano cambiando. Un grande supporto venne all’azione di ACTA
dall’apertura alle esperienze internazionali e dai contatti che si
stabilirono in Europa e negli Stati Uniti. L’esempio della Freelancers
Union, fondata da Sara Horowitz, che oggi è qui con noi, fu di grande
stimolo e d’insegnamento, scattarono subito le “affinità elettive” e ACTA
fu dichiarata sister organization.
Contemporaneamente in Europa si stava costituendo una rete di associazioni
di lavoratori autonomi (European Forum of Independent Professionals, EFIP)
alla quale ACTA non solo aderì subito ma alla quale diede un fattivo
contributo per assumerne poi la Vice Presidenza nella persona di Francesca
Pesce, che anche lei è qui con noi. Insomma, si poteva dire - mutuando, in
senso ironico, il linguaggio della Terza Internazionale - che ACTA era in
marcia con il grande movimento internazionale dei freelance.
Da cosa poteva essere nato questo movimento? Un fattore fondamentale è
stato lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 che apre un periodo di
stagnazione dell’economia mondiale, in particolare europea e mette in luce
con crudezza il disagio, la frammentazione, la frustrazione di una middle class di cui i lavoratori autonomi sono una componente
essenziale.
Molti professionisti passarono improvvisamente da standard di vita medio
borghesi a una condizione di povertà, i nuovi entranti trovavano un mercato
asfittico, disposto a pagarli sempre di meno (e spesso a non pagarli o a
pagarli con grande ritardo), l’aura di successo che aveva avvolto il
freelance e ne aveva fatto quasi la figura simbolo dei winner
dell’èra neoliberale, dell’èra tatcheriana, scomparve miseramente e
scoprirono, i “lavoratori della conoscenza”, di aver bisogno di tutele, di
dover superare il loro presuntuoso individualismo, di doversi associare, di
dover trovare forme di self help.
Non è immediata questa presa di coscienza, all’inizio, 2008, 2009, 2010,
2011 in generazioni che non hanno mai avuto l’esperienza di una crisi
economica, che non ne hanno memoria, c’era ancora l’illusione che si
trattasse di una crisi congiunturale, passeggera. Dal 2012, 2013 le cose
cambiano, anche perché la politica deve prendere atto che la società è in
ebollizione ed i vecchi partiti vengono esautorati da nuovi movimenti, che
in pochissimo tempo, senza alcun retroterra storico, conquistano vaste
fette dell’elettorato.
La crisi investe pesantemente l’occupazione, toglie molte certezze al
lavoro subordinato, ricaccia i giovani che si affacciano sul mercato del
lavoro nel crudele recinto della precarietà prolungata, mostra in tutta
evidenza l’inadeguatezza dei sistemi di welfare costruiti dopo la seconda
guerra mondiale, con un mondo della produzione e dell’economia ormai
tramontato per sempre.
E finalmente ACTA esce dall’isolamento, non solo diventa interlocutore del
ceto politico e del governo, ai quali presenta le istanze dei
professionisti indipendenti di seconda generazione, ma riesce a portare
sulla sua linea rivendicativa anche le altre rappresentanze del lavoro
autonomo, anche quelle vicine alle organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Si costituisce così un fronte sufficientemente unitario – benché non
compatto - della rappresentanza del lavoro autonomo che acquista
credibilità presso le istituzioni e riesce ad ottenere due consistenti
risultati a livello legislativo: la riduzione dei contributi alla
previdenza pubblica e lo statuto del lavoro autonomo, approvato poche
settimane fa dal Parlamento.
Questa è storia di ieri. Ma, com’è noto, gli anni di crisi sono anche anni
di profonda trasformazione, sono anni d’innovazione ed il capitalismo in
questo ha sempre saputo dimostrare un’insospettata vitalità. Dal crogiolo
della crisi nasce il mondo di domani. Dalla riduzione delle risorse
disponibili nascono dal basso nuove idee di cooperazione, nasce la sharing economy con una forte componente di self help e
il capitalismo immediatamente se ne appropria, riesce a ricavarne una nuova
frontiera della flessibilità del lavoro, un nuovo modello di business, nel
quale il prestatore d’opera, il lavoratore, mette a disposizione il suo
tempo, le sue energie, il suo “capitale umano” ma soprattutto mette a
disposizione il suo patrimonio di beni immobili e mobili.
Quello che viene chiamato “il capitalismo delle piattaforme (digitali)” è
un fenomeno di vasta portata che ha investito – qui mi soccorre la mia
esperienza professionale – il mondo della produzione e della distribuzione
attraverso la logistica. Prima di Uber o di Airbnb o di Deliveroo è stata
Amazon a rivoluzionare il mondo della logistica passando dall’ultimo
anello, la consegna a domicilio, grazie alla potenza delle sue piattaforme
digitali.
La caratteristica del capitalismo delle piattaforme che in questo convegno
vorremmo approfondire è il suo richiamo ambiguo ma sempre seducente
all’autonomia del lavoro. Il self employment diventa una promessa.
Torna dunque prepotentemente lo spettro del “falso lavoro autonomo” che
speravamo di aver esorcizzato una volta per tutte e torna quindi il rischio
- anche per i giuslavoristi – di ricacciarsi nella sterile discussione su
come distinguere la “vera”, “autentica” autonomia da quella “falsa”,
restandone incapsulati, mentre la loro attenzione potrebbe essere più
efficacemente rivolta alle trasformazioni e alle innovazioni bottom up.
La crisi ha dato delle nuove idee non soltanto al capitale ma anche a
coloro che nella crisi stanno pagando un prezzo elevato. Nell’universo del
lavoro autonomo, del lavoro intermittente, delle nuove professioni tecniche
e delle vecchie e nuove professioni creative si fa strada sempre più l’idea
e la pratica del mutualismo. Qui ne avremo un esempio di grande interesse
nella presenza e nella relazione di Sandrino Graceffa, Presidente della
Société Mutuelle des Artistes, attiva in nove paesi europei e forte di
decine di migliaia di soci.
Ma c’è un’altra novità sulla quale vorrei richiamare l’attenzione, prima di
concludere questo mio intervento. Chi segue da vicino l’attività delle
associazioni del lavoro autonomo, anche quelle qui rappresentate, avrà
notato che negli ultimi tempi, con il perdurare della crisi, dopo aver
focalizzato la loro attenzione sui temi della previdenza, stanno portando
ora in primo piano la problematica delle retribuzioni, dei ritardati o
mancati pagamenti, delle gare al ribasso (soprattutto nella pubblica
amministrazione), in una parola il problema del reddito e dello squilibrio
nei rapporti di forza tra prestatore d’opera e committente. E’ un modo per
porre in evidenza il dramma delle ineguaglianze sottraendolo al pietismo
della compassione per i diseredati per riportarlo al centro della società
occidentale e della classe che ne costituisce l’ossatura, la middle class. Anche su questo tema ascolteremo i risultati che
sono stati raggiunti, in particolare dai nostri colleghi americani.
Concludo con un un’espressione di gratitudine e di grande apprezzamento
verso i nostri amici giuslavoristi che in questi anni non ci hanno mai
lasciati soli, che hanno cercato di accompagnare i nostri sforzi prendendo
atto delle innovazioni che si verificavano sul piano sociale, cogliendone
stimolo per trasformare e rendere più flessibile, più aderente ai bisogni
della società, il pensiero giuridico. E’ stato un significativo contribuito
alla modernizzazione di questo Paese. Ciò non significa affatto che ci sia
stata completa unità di vedute o confusione di ruoli, ma semplicemente un
dialogo aperto, intenso, che ha cambiato qualcosa anche nella politica e
nell’opinione pubblica.
Introduzione al convegno tenutosi il 26-27 maggio all’Università Ca’
Foscari, Venezia.