La differenza dei talenti naturali nei
diversi uomini è in realtà assai minore di quanto noi crediamo; e l'ingegno
assai diverso che sembra distinguere gli uomini di diverse professioni, quando
sono pervenuti a maturità, è, in molti casi, non tanto la causa quanto
l'effetto della divisione del lavoro. La differenza fra i caratteri più
diversi, per esempio tra un filosofo e un facchino comune, sembra derivare non
tanto dalla natura quanto dall'abitudine, dal costume e dall'educazione.
Adam Smith[1]
Qualsiasi piano di educazione
professionale che muova dal regime industriale quale esiste attualmente finisce
col far proprie e perpetuare le divisioni e le debolezze di quest’ultimo,
divenendo in tal modo uno strumento di attuazione del dogma feudale della
predestinazione sociale.
John Dewey[2]
La pedagogia
del novecento si è ripetutamente interrogata sulle modalità attraverso cui
integrare il sapere pratico nei percorsi di apprendimento formale, in una
prospettiva di superamento della divisione - sociale prima che culturale - tra
chi è destinato a ricevere una formazione tecnico-professionale e chi invece
una generale-umanistica. Il dibattito contemporaneo sull’apprendistato ci
chiede oggi di porre il medesimo problema in forma rovesciata: a fronte di una
crescita dei percorsi di formazione in situazione di lavoro, quale sapere
teorico, non meramente tecnico-operativo, diviene indispensabile affinché chi
sceglie – o è costretto a scegliere – tali percorsi sia in grado di sviluppare
una comprensione analitico-critica, dunque potenzialmente trasformativa, dei
processi produttivi, politici e sociali cui partecipa?
Uno degli aspetti più controversi delle recenti discussioni sul tema
dell’apprendistato è rappresentato dall’idea secondo la quale sarebbe possibile
- una volta realizzati i necessari interventi di ristrutturazione organizzativa
e culturale dei luoghi del lavoro - giungere ad una autosufficienza educativa
dell’impresa, rendendo quest’ultima capace di assolvere interamente alle esigenze
formative della persona. Come scrive il pedagogista Giuseppe Bertagna:
«È
nell’impresa, dunque, nel trovare, ciascuno per la sua parte, i modi di farla
vivere e non morire, assumendosi le responsabilità delle proprie scelte ed
accendendo tutte le occasioni per essere in grado nel concreto di impiegare
(nel senso di piegare all’impresa) la conoscenza dispersa tra tanti e diversi
individui vicini e lontani che ormai coincidono con il mondo che si impara a
crescere, a mettere in gioco se stessi, i propri cari, gli altri e a darsi la
forma possibile che si vuole, tenendo conto di quella che gli altri o le
situazioni ci vogliono dare. Non c’è scuola migliore di questa. Anche sul piano
dell’apprendimento del “sapere” (le conoscenze teoretiche delle scienze), del
“saper fare” (conoscere le abilità tecniche e professionali) e dell’“essere”
(dimostrare le competenze personali, che integrano le conoscenze e le abilità
acquisite nell’agire bene, come si deve, nella complessità di ogni situazione)».
Il soggetto non
avrebbe dunque alcun bisogno di tempi e luoghi di apprendimento separati. Di
più, si produrrebbe un’ideale convergenza tra i bisogni di crescita culturale e
di autorealizzazione dello studente-lavoratore e le finalità produttive e
commerciali dell’impresa. Inoltre, recuperandone il valore formativo, il
«lavoro e il lavoro manuale in particolare» diverrebbero lo strumento
pedagogico principale «sia sul piano tecnico-professionale, sia sul piano
educativo e culturale ai fini dell’acquisizione delle competenze chiave di
cittadinanza» [4]. Il lavoro,
dunque, come mezzo e come fine della
formazione.
Nelle pagine
che seguono cercheremo di illustrare alcuni limiti delle proposte pedagogiche
che vedono nel lavoro il luogo elettivo dell’apprendimento. In particolare ci
sembra che queste ultime:
1.
non tengano conto di una delle acquisizioni
fondamentali – in termini di progresso educativo e sociale – del dibattito
pedagogico novecentesco, ossia l’affermazione della non autosufficienza della
stessa formazione professionale, anche quando quest’ultima è attuata in
contesti extra-lavorativi.
2.
riflettano una rappresentazione a tratti irenica
del mondo delle imprese. Alla base dell’idea di autosufficienza educativa
dell’impresa, infatti, vi è spesso la convinzione che le innovazioni
organizzative introdotte ultimi trent’anni - genericamente definite
“post-fordiste” - abbiano rappresentato il superamento delle divisioni e dei
conflitti che hanno attraversato e trasformato i luoghi della produzione dalla
rivoluzione industriale in avanti. Il mondo delle imprese sarebbe oggi
realmente in grado di soddisfare le esigenze dei diversi “stakeholder”,
realizzando la logica dell’autonomia, del decentramento decisionale, della
partecipazione, della valorizzazione delle persone, dell’apprendimento e dell’upskilling. In altre
parole, un modello di organizzazione del lavoro progettato attorno alle
esigenze dell’uomo. La sociologia industriale ha da tempo dimostrato come la
realtà effettiva si sia progressivamente rivelata molto diversa da quella
appena descritta.
3.
non mettano a tema, all’interno della
riflessione sul rapporto tra formazione e lavoro, due elementi centrali nella
teoria marxiana dello sfruttamento: il carattere eteronomo del lavoro nel modo
di produzione capitalistico, che permane al di là dell’evoluzione storica dei
processi produttivi, e la dimensione strutturale - e quindi imprescindibile
tanto nel momento dell’analisi, quanto in quello di un eventuale intervento -
del conflitto di interessi all’interno dell’impresa moderna.
Scuola di cultura e scuola di professione
I primi due
decenni del secolo scorso videro John Dewey impegnato in un lungo e acceso
dibattito attorno alla configurazione che avrebbe dovuto assumere il nascente
sistema pubblico di istruzione professionale. Il filosofo e pedagogista
statunitense, nell’opporsi a quelli che lui definiva “progressisti
amministrativi”, ebbe modo di esporre il suo pensiero riguardo il senso, i
contenuti e i riflessi sociali della formazione professionale alla luce dello
sviluppo della società industriale americana.
Quando Dewey
definiva “disastrosa” la credenza secondo la quale non si poteva considerare
‘umanistica’ la formazione professionale, non intendeva affatto sostenere che
quest’ultima fosse di per sé portatrice di insegnamenti morali e liberali. Al
contrario, vedeva nella parzialità di tale formazione il suo limite principale:
«Oggi molto
ovviamente si tende ad aiutare la preparazione dei giovani a ottenere impieghi
e così guadagnarsi la vita. Ora, si possono preparare benissimo dal lato
tecnico eppure licenziare dalle scuole dei diplomati che hanno una comprensione
minima del posto tenuto nella vita sociale di oggi dalle industrie o
professioni e di quello che queste professioni possono fare per rendere la
democrazia una cosa viva e in sviluppo. [...] Resta così insoddisfatta
l’esigenza di fondere la conoscenza dell’uomo con quella della natura, la
preparazione professionale con un profondo sentimento delle basi e delle
conseguenza sociali dell’industria e delle professioni industriali nella
società contemporanea»[5]
Dewey rifiutava
la concezione della formazione professionale come semplice acquisizione di un
sapere tecnico o come apprendimento esclusivo di un mestiere. Era convinto che
tale modello, oltre a limitare le possibilità di crescita culturale e
democratica degli studenti, non facesse altro che rafforzare, anziché ridurre,
le disuguaglianze sociali di partenza.
Secondo il
filosofo statunitense, «il principale ostacolo all’educazione democratica» era
«la forte alleanza del privilegio di classe con le filosofie dell’educazione
(ad iniziare da Platone) che dividevano nettamente la mente e il corpo, la
teoria e la pratica, la cultura e l’utilità»[6]. Un dualismo «esso stesso
contenuto in un dualismo sociale: la distinzione tra la classe lavoratrice e la
classe agiata»[7].
Dewey, di
conseguenza, fu un oppositore del sistema doppio sostenuto dalle élites
economiche dell’epoca, perché temeva che «il tipo di educazione professionale
favorita dagli uomini d’affari e dai loro alleati fosse una forma di educazione
di classe che avrebbe reso le scuole un più efficiente organismo per la
riproduzione di una società antidemocratica»[8]. Era importante, dunque,
«essere uniti contro ogni proposta, in qualsiasi forma sia portata avanti, di
separare la formazione dei dipendenti dalla formazione per la cittadinanza, la
formazione dell’intelligenza e del carattere dalla formazione per la ristretta
efficienza industriale»[9].
Il principale
oppositore di Dewey fu il Commissario della Pubblica Istruzione del
Massachussets David Snedden, sostenitore di un sistema di istruzione
professionale finanziato dallo stato che rispondesse direttamente ai fabbisogni
professionali specifici identificati dal mondo delle imprese[10]. In una
lettera di risposta alle critiche di Snedden, Dewey esplicitò chiaramente la
funzione trasformativa che attribuiva alla formazione professionale rispetto al
sistema industriale esistente:
«Il tipo di
educazione professionale a cui sono interessato non è quella che adatterà i
lavoratori al regime industriale esistente; non sono sufficientemente
innamorato di questo regime per esservi interessato. Mi sembra che l’interesse
di tutti coloro che non siano opportunisti educativi sia di resistere a qualsiasi
movimento in questa direzione, e di combattere per un tipo di educazione
professionale che prima di tutto cambi il sistema industriale esistente, e
infine lo trasformi»[11]
Questa
problematica, educativa e democratica insieme, accompagnò fin da subito anche
il dibattito sulla formazione professionale nell’Italia repubblicana, giungendo
ad un livello di elaborazione per certi aspetti più articolato e complesso
rispetto alle riflessioni generali di Dewey. Sebbene oggi i maggiori contributi
su questo tema provengano dalla pedagogia personalista d’ispirazione cattolica[12], fino a
non molti anni fa l’integrazione di sapere pratico-professionale e formazione
generale ha storicamente rappresentato una delle proposte di riorganizzazione
del sistema scolastico dell’area politica e culturale vicina al Partito
Comunista Italiano. La pedagogia di matrice gramsciana ha sempre auspicato una
scuola unica di lavoro intellettuale e manuale, che superasse l’opposizione tra
scuola di cultura e scuola di professione. Esemplare di tale concezione è un
documento della sezione scuola del PCI del 1968:
«Occorre
superare fin da oggi la contrapposizione [...] tra una formazione professionale
e ridotta a semplice apprendimento tecnico di un mestiere, e quindi degradata
culturalmente, in definitiva impostata già in partenza come preparazione e
condanna ad un ruolo subalterno, ed una formazione culturale che invece tale
sarebbe in quanto fondata su un ideale di cultura ‘disinteressata’, semplice
scuola-ponte [...] per selezionare l’elite destinata agli studi superiori.
L’obiettivo centrale è quello di rompere e superare questa gerarchia a
compartimenti stagni, che è culturalmente arretrata, professionalmente
inadeguata rispetto alle esigenze ormai maturate nello stesso sviluppo sociale,
intimamente discriminatrice e classista»[13]
Nel 1972 i
deputati comunisti presentarono una proposta di legge ispirata a tale visione,
primo firmatario Marino Raicich[14], che
tuttavia non fu approvata.
La
preoccupazione per l’eccessiva divaricazione tra percorsi scolastici umanistici
e percorsi professionalizzanti non nasceva da presupposti esclusivamente
educativi o morali. Vi era la consapevolezza che la formazione professionale
aveva storicamente operato come freno alla mobilità sociale, attraverso
meccanismi di canalizzazione precoce[15] e di socializzazione al
lavoro finalizzati a selezionare e dirigere i giovani verso posizioni
prestabilite entro le nicchie create dalla crescente divisione sociale del
lavoro[16]. Il
superamento della divisione tra sapere tecnico e cultura generale era
considerato dunque un intervento necessario per contrastare il darwinismo
sociale insito nell’idea diffusa - oggi come allora - che le diversità
individuali (la cui origine sociale si perde ogniqualvolta la teoria economica
liberista si intreccia con le concezioni psicologiche innatiste) rappresentino
la base naturale di una economia stratificata.
Per questo la
pedagogia progressista italiana sosteneva la necessità di concepire istruzione
e lavoro, pur nel rispetto delle differenze specifiche, come «un unico blocco
di problemi», e la realizzazione del diritto allo studio come «momento
preliminare del diritto del lavoro»[17]. La scolarizzazione di
massa era vista come un fattore di squilibrio e di critica radicale delle
dinamiche vigenti nel mercato del lavoro. Lo sviluppo economico degli anni
sessanta - unitamente al ciclo di lotte operaie che si erano dimostrate capaci
di introdurre elementi di rigidità nel mercato del lavoro - aveva alimentato
una certa fiducia nel carattere progressivo e irreversibile di tale processo.
Un percorso
formativo unitario era inoltre ritenuto, come nel caso di Dewey, fondamentale
per l’educazione alla cittadinanza e la partecipazione attiva alla vita
politica del paese: «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo
significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni cittadino
può diventare governante e che la società lo pone, sia pure astrattamente,
nelle condizioni generali di poterlo diventare»[18].
Sia nelle
proposte di Dewey che in quelle emerse all’interno dibattito italiano, pur
attento all’insieme di rapporti complessi che intercorrono tra educazione e
divisione sociale del lavoro, sono riscontrabili due limiti teorici: 1)
un’eccessiva fiducia - o speranza - nell’efficacia causale dell’educazione; 2)
l’assenza di un’analisi dettagliata delle trasformazioni organizzative della
produzione a partire dalla forma specifica che il processo di lavoro assume nel
modo di produzione capitalistico.
Nelle pagine
che seguono cercheremo di comprendere in che modo la dimensione relazionale (o
sociale) che nasce dagli elementi oggettivi del processo di lavoro partecipi a
definire e organizzare l’esperienza dei soggetti coinvolti, e di mostrare
l’importanza di tale dimensione per l’elaborazione di una riflessione
pedagogica attorno al tema del lavoro. Adotteremo perciò un approccio
critico-analitico e interdisciplinare, che cerca di affrontare la tematica
educativa attraverso strumenti diversi ed eterogenei, al fine di coglierne
innanzitutto le determinazioni storiche. Questo modo di intendere la pedagogia
antepone l’indagine della realtà sociale e storica al discorso di carattere
predittivo-prescrittivo che contraddistingue altri modelli pedagogici[19].
Inizieremo,
tuttavia, con una breve ma necessaria ricostruzione storica di alcuni passaggi
del dibattito sul rapporto tra educazione e divisione sociale del lavoro a
partire dalla rivoluzione industriale.
Il conflitto tra istruzione e
meccanizzazione
Nella La
Ricchezza
delle Nazioni,
dopo aver illustrato le grandi potenzialità della divisione sociale del lavoro,
Adam Smith ne evidenziava i possibili effetti negativi in termini di
impoverimento professionale, culturale e psicologico del lavoratore:
«Col progredire
della divisione del lavoro, l'occupazione della maggioranza di coloro che
vivono del lavoro, ossia la massa della popolazione, si restringe
progressivamente a poche operazioni molto semplici, e spesso ad una sola o a
due operazioni. Ora, l'intelligenza della maggioranza degli uomini si forma necessariamente
con l'ordinaria loro occupazione. L'uomo che passa la vita nel compiere poche
semplici operazioni, i cui effetti, inoltre, sono forse gli stessi o quasi, non
ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza o la sua inventiva nel
trovare espedienti che possano superare difficoltà che egli non incontra mai.
Egli quindi perde naturalmente l'abitudine di esercitare le sue facoltà ed in
generale diventa stupido ed ignorante, come è possibile che una creatura umana
lo diventi. Il torpore del suo spirito non soltanto lo rende incapace di
gustare o di prendere parte ad una conversazione razionale, ma anche di
concepire alcun sentimento generoso, nobile e tenero e quindi di formarsi un
giudizio giusto persino su molti dei doveri ordinari della vita privata. Sui
grandi e vasti interessi del suo paese egli è affatto incapace di giudicare»[20].
Per contrastare
il degrado delle facoltà intellettuali e sociali dell’individuo, Smith
suggeriva di predisporre un sistema scolastico universale e finanziato dallo
Stato, che offrisse a tutti la possibilità di apprendere i fondamenti del
leggere, dello scrivere e del far di conto: «il pubblico può facilitare questa
acquisizione» - scriveva Smith - «stabilendo in ogni parrocchia o distretto una
piccola scuola in cui i ragazzi possano essere istruiti dietro un compenso così
basso da poter essere pagato anche da un lavoratore comune»[21].
La soluzione
indicata da Smith, che attribuiva alla scuola una funzione compensatoria e
civilizzatrice, conteneva un elemento di possibile contraddizione e conflitto
che, con lo sviluppo industriale, non avrebbe tardato a manifestarsi. La
formazione generale impartita nella scuola era destinata, infatti, ad
alimentare conoscenze, capacità riflessive, sensibilità e aspettative
difficilmente compatibili con l’angusta parzialità del lavoro
industriale.
Émile Durkheim,
nel saggio La divisione del lavoro sociale, fu tra i
primi a comprendere che la crescita del livello di istruzione dei lavoratori
sarebbe entrata in un conflitto socialmente rilevante con la meccanizzazione
dell’industria: «se si prende l'abitudine dei vasti orizzonti, delle visioni
d'insieme, delle belle generalità, non ci si lascia più confinare senza
impazienza negli stretti limiti di un compito specifico. Un rimedio di questo genere
renderebbe quindi la specializzazione inoffensiva, soltanto rendendola
intollerabile e, di conseguenza, più o meno impossibile»[22]. Anche il filosofo
Nietzsche, quando polemizzava duramente contro l’obbligo scolastico e contro la
conquista da parte della maggioranza della popolazione degli strumenti della
cultura, era preoccupato innanzitutto dell’effetto destabilizzante
dell’istruzione diffusa: «Se si vogliono degli schiavi – e di essi si ha
bisogno – non si devono educare come padroni».
Vittorio Foa,
in un capitolo de La Gerusalemme rimandata intitolato non
a caso “Educazione, fonte di conflitto”, annovera l’aumento dell’istruzione dei
lavoratori industriali tra le cause dell’Industrial
unrest
nell’Inghilterra degli anni dieci. Foa riporta a questo proposito alcune
annotazioni del Barone George Askwith, alto funzionario dell’amministrazione
centrale inglese e autorevole mediatore nei conflitti di lavoro. Nel volume Industrial Problems and Disputes (1920),
Askwith esprimeva una forte preoccupazione per l’assenza di prospettive e la
delusione dei giovani scolarizzati nel momento in cui abbandonavano la scuola
per entrare nel mondo del lavoro industriale:
«Il ragazzo
trovava che l’indirizzo educativo della scuola era ora rovesciato. A scuola si
tentava con ogni mezzo di allargare ed espandere al sua mente al punto che si
chiedeva che uso si sarebbe fatto di tutte le materie che facevano studiare.
Adesso era il contrario. Il lavoro era chiuso, limitato e ristretto: il ragazzo
era incoraggiato a diventare provetto in una o poche operazioni, non ad
acquistare una conoscenza generale di un lavoro. [...] Il ragazzo che lascia il
suo addestramento scolastico scopre in fabbrica che il lavoro parcellare è il
destino della sua vita. [...] La maggioranza cade nella delusione e la
conseguenza della delusione è l’amarezza e quindi l’antagonismo al sistema cui
si attribuisce la causa della situazione»[24].
La contraddizione tra meccanizzazione e
istruzione aveva di fatto raggiunto una soglia critica nei primi decenni del
‘900, con la diffusione dell’organizzazione scientifica del lavoro. Inoltre,
dopo la seconda guerra mondiale, il relativo benessere materiale delle classi
subalterne nei paesi industrializzati e la scolarizzazione di massa avevano
favorito ulteriormente l’emergere di nuove esigenze di autorealizzazione da
parte dei lavoratori, da cui derivò una minore accettazione di ruoli disagiati
e subordinati.
La tensione emerse in maniera dirompente
negli anni cinquanta e sessanta, quando la parcellizzazione dei processi di
lavoro fu sottoposta ad una severa critica proveniente da più parti. La
sociologia e la psicologia industriale ne denunciarono gli elementi
disfunzionali dal punto di vista della produzione (che richiedeva sempre di più
la cooperazione cosciente e responsabile da parte delle sue componenti) e del
controllo della forza-lavoro (i lavoratori culturalmente più preparati
acquisivano una forza sempre maggiore, in termini di consapevolezza e di
sapere-potere, per opporsi a rapporti di produzione di tipo autoritario). Anche
in questo frangente, i teorici del management riconobbero all’istruzione un
ruolo chiave nel generare aspettative di crescita professionale e insofferenza
nei confronti dei processi di lavoro parcellizzati: «man mano che i dipendenti raggiungono
un maggior livello di istruzione» - scriveva il famoso psicologo delle
organizzazioni Rensis Likert nel 1961 - «crescono le loro aspettative riguardo
al livello di responsabilità, autorità e reddito di cui potranno godere»[25]. Alle
stesse conclusioni giunse nel 1964 il sociologo Robert Blauner, dopo aver
condotto un’indagine comparata in quattro diversi settori (grafico, meccanico,
tessile, chimico) dell’industria americana: "Uno dei fattori più
importanti nel determinare le aspirazioni di un individuo verso il lavoro è
l'istruzione. Quanto maggiore è il grado di istruzione, tanto maggiore è il
bisogno di controllo e di creatività"[26]. Contemporaneamente una
critica alla parcellizzazione provenne dai lavoratori della grande industria e
dalle loro organizzazioni, che rivendicavano il diritto alla rotazione delle
mansioni e al controllo dell’intero ciclo produttivo:
«Alle linee
delle puntatrici gli operai si prendono l'esaurimento nervoso con le migliaia
di punti che danno in un giorno e che risuonano dentro la testa come tanti
colpi di martello. Un operaio non può impazzire facendo sempre questa
operazione: bisogna scambiarsi le mansioni, fare diversi lavori e controllare
tutto il ciclo di produzione. Tocca agli operai che ci lavorano dire come
devono essere distribuite le mansioni e quanti uomini ci devono essere in una
squadra per il numero di pezzi che si fanno in un giorno. Imporre la rotazione
delle mansioni vuole anche dire impedire alla Fiat di tagliare continuamente i
tempi, cosa che invece succede quando l'operaio è costretto a ripetere sempre
come una macchina la stessa operazione"[27].
Alle tensioni sopracitate fece seguito
una stagione caratterizzata dall’introduzione di nuovi modelli di
organizzazione del lavoro, che miravano ad incrementare la produttività
attraverso un maggiore coinvolgimento dei lavoratori: teamwork, total
quality management, empowerment, decentramento
delle responsabilità e delle decisioni divennero le parole d’ordine in molti
settori.
Le
nuove forme di organizzazione del lavoro
Ad uno sguardo superficiale, queste
innovazioni sembrano rispondere alla domanda di maggior potere - empowerment, appunto - e
di maggiore partecipazione da parte dei lavoratori, che vengono coinvolti
sempre di più nel processo decisionale; in questo modo si riduce la necessità
di una linea gerarchica di supervisione diretta. E al beneficio per i
lavoratori si aggiunge quello dell’impresa, perché la nuova organizzazione
aumenta la produttività e, allo stesso tempo, si “snellisce”, abbattendo i
costi relativi.
La retorica manageriale vede in questa
nuova logica organizzativa un cambiamento epocale: la fine del fordismo - e,
con esso, del conflitto industriale - e l’inizio una nuova era contraddistinta
dalla cooperazione attiva e consapevole tra i vari soggetti coinvolti nel
processo di lavoro.
Molte ricerche[28], dalla fine egli anni
ottanta in avanti, hanno mostrato come la realtà effettiva di queste
innovazioni sia ben diversa dalla rappresentazione che ne offre il discorso
manageriale dominante. Da subito si è potuto verificare come, nei luoghi di
lavoro ristrutturati secondo questi nuovi modelli, non si realizza un reale
ampliamento delle possibilità di regolazione autonoma da parte dei lavoratori -
così come non si allargano i margini di discrezionalità (intesa come
possibilità di scelta vincolata entro un contesto di dipendenza). Al contrario,
la nuova logica organizzativa tende ad «incrementare il grado di eteronomia dei
processi di lavoro»[29]. I
momenti di parziale autonomia, quando si affida ai lavoratori il compito di
individuare i miglioramenti possibili, sono immediatamente negati, perché «tali
miglioramenti, una volta identificati, sono destinati (proprio come nella più
convenzionale logica fordista-taylorista) a essere codificati e standardizzati,
dunque a diventare parte della mansione predefinita e imposta. [...] In un
certo senso, il cronometro, simbolo dell'intervento sul lavoro da parte dello
scientific management, passa dalla mano di Taylor a quella del lavoratore: è
lui stesso a provvedere alla taylorizzazione del proprio lavoro»[30]. Le
prassi di miglioramento continuo, dunque, estendono e perfezionano il
taylorismo, offrendo all’impresa una inedita possibilità di utilizzo delle
competenze e delle conoscenze implicite del lavoratore. Inoltre, la maggiore
responsabilità di quest’ultimo, attuata in un contesto di minore autonomia
reale e di maggiore sorveglianza, si rivela «una strategia di costrizione, non
di motivazione»[31].
Un discorso analogo può essere fatto per
il settore terziario e per tutti i lavori caratterizzati da un alto contenuto e
domanda di conoscenza. Anche in questo caso il processo di apparente
ri-soggettivazione del lavoro - da cui ci si attenderebbe maggiore autonomia,
creatività e responsabilità per il lavoratore - nasconde in realtà nuove forme
di subordinazione e controllo, spesso più efficaci delle classiche modalità
industriali. La diffusione delle Information and Communication Technologies,
inoltre, ha permesso di applicare al cosiddetto «lavoro cognitivo» i principi
dell'organizzazione scientifica del lavoro, disciplinando e standardizzando i
processi lavorativi legati alle tecnologie numeriche e digitali. Se poi al
taylorismo digitale[32]
aggiungiamo la competizione globale cui sono esposti i lavoratori della
conoscenza, anche e soprattutto quelli più qualificati (un progettista indiano
costa, a parità di qualifica e di capacità, dieci volte meno di un suo collega
statunitense), queste figure sembrano destinate ad un progressivo impoverimento
professionale, accompagnato da un sensibile indebolimento del loro potere
contrattuale nel mercato del lavoro.
Anche la tesi secondo la quale le
condizioni attuali e future del mercato del lavoro richiederebbero un livello
sempre maggiore di conoscenze non ha trovato conferma nei risultati della
ricerca empirica. Al contrario, sembra essersi affermata la tendenza opposta,
ossia la crescita della domanda di posti di lavoro dequalificati e instabili in
particolare nel settore dei servizi (telecomunicazioni, turismo e ristorazione,
assistenza clienti, distribuzione e vendita di prodotti alimentari, assistenza
ad anziani e disabili...)[33]. Molte
ricerche hanno evidenziato come, all’interno di questo trend occupazionale, vi sia una forte tendenza
a privilegiare le competenze sociali e le qualità estetiche dei lavoratori e
delle lavoratrici, a scapito delle conoscenze tecniche, delle competenze
cognitive e dei titoli di studio[34]. Inoltre,
la maggior parte di coloro che sono considerati lavoratori della conoscenza
svolgono mansioni dequalificate con un bassissimo contenuto cognitivo[35].
Ad ogni modo,
l’elemento di continuità, nell’evoluzione dei processi produttivi, sembra
essere proprio la progressiva espansione e generalizzazione del carattere
eteronomo della produzione capitalistica, che occupa una posizione centrale
nella concezione marxiana del processo di lavoro.
La socializzazione eteronoma del lavoro
Secondo Marx il
tratto specifico del processo di lavoro nel modo di produzione capitalistico è
rappresentato dalla sua unità con il processo di estrazione del plusvalore, di
cui rappresenta lo snodo centrale. Il processo di produzione immediato,
infatti, si colloca tra due atti circolatori: la compravendita della
forza-lavoro, all’inizio del circuito capitalistico, e lo scambio monetario nel
mercato delle merci alla fine[36]. Nel
capitalismo il pluslavoro si trasforma in plusvalore, che si realizza come
profitto nel mercato.
Ai fini di una
crescita sempre maggiore dei profitti, si rende necessario un comando diretto
sulla produzione, che permetta di controllare non solo i prodotti del lavoro,
ma il processo di lavoro stesso. Tale comando si esprime compiutamente nel
passaggio dalla sussunzione formale alla
sussunzione reale[37].
Il processo di
socializzazione del lavoro si configura così come un processo di “socializzazione
eteronoma”, la cui unità con il processo di valorizzazione del capitale ne
determina la tendenziale e continua espansione. Le varie innovazioni
organizzative che si sono susseguite negli ultimi decenni, comprese quelle che
sembrano proporre una rinnovata possibilità di controllo e di autonomia del
lavoratore, nascono e si sviluppano entro uno spazio vincolato la cui finalità
ultima è la valorizzazione del capitale. In altre parole, l’eterodirezione -
sempre crescente per grado e ampiezza - è il tratto specifico fondamentale del
processo di lavoro nel modo di produzione capitalistico, a prescindere dai
diversi livelli di qualificazione, mansione e inquadramento dei lavoratori.
Per questo
l’organizzazione del lavoro rimane di fatto una struttura imperativa, che
implica necessariamente una tensione tra ruoli di comando e ruoli di
subordinazione, una diseguale distribuzione dell’autorità, e che rovescia
l’eguaglianza formale che caratterizza i rapporti di lavoro nel capitalismo:
«Come sosteneva
K. Renner, mentre nella stipulazione del contratto assistiamo all’autonomia
delle libere volontà, successivamente si afferma un contesto di eteronomia
della volontà, e l’organizzazione del lavoro è il luogo in cui la prestazione
diviene immediatamente sociale, ma anche subalterna ad una logica organizzativa
esterna alle singole volontà. l’uguaglianza formale si esaurisce nel momento
della compravendita di forza lavoro, e scompare nell’esecuzione del rapporto di
lavoro, ovvero nella fase in cui il lavoro è inserito nel processo lavorativo»[38]
Infatti, la
scienza giuridica ha più volte riconosciuto che il diritto del lavoro, oltre
all’istanza protettiva, assolve anche alla funzione di «formalizzazione
giuridica (e, dunque, alla legittimazione) dei rapporti di potere propri del
modo di produzione sorto con la rivoluzione industriale»[39].
Pedagogia sociale e processo produttivo
Se si assume
questa prospettiva, e se ne traggono le conseguenze, l’autosufficienza
educativa dell’impresa non appare più come una metodologia neutrale e
innovativa per acquisire la padronanza di un mestiere (e di non meglio
specificate competenze di cittadinanza), bensì come una strategia di
socializzazione e disciplinamento ideologicamente connotata. Il riconoscimento
della dimensione strutturale del conflitto e della relazione di potere entro i
rapporti di lavoro fa emergere, nel momento in cui si affronta il tema della
formazione del lavoratore, la necessità di una mediazione pedagogica che non
può essere demandata interamente all’azione unilaterale dell’impresa.
Nella prima
parte di La pedagogia come scienza, il pedagogista Francesco De Bartolomeis insiste sulla
necessità di liberare la problematica pedagogica «sia dall’esclusivismo
filosofico e dalle sue generalizzazioni azzardate, sia dalle approssimazioni e
dalle angustie di un punto di vista empirico, didattico in senso deteriore,
cioè incapace di fondazione critica, di sistematicità e di controllo dei suoi
procedimenti»[40]. Queste
due tendenze regressive rappresentano un rischio sempre attuale nel dibattito
pedagogico. In entrambi i casi, la restrizione del campo d’indagine del
pedagogista, in una direzione o nell’altra, impedisce di interrogare la
complessa dialettica scuola-società, ossia l’insieme di processi sociali,
politici ed economici che determinano le coordinate materiali entro cui operano
le scienze dell’educazione. In altre parole, ciò che si perde è la ragione
stessa della pedagogia sociale, intesa come sapere che si costituisce attorno
al «nesso tra assetto sociale e teoria educativa»[41], e che vede l’azione
educativa «necessariamente iscritta nei percorsi storici di sviluppo della
società»[42] e,
quindi, della produzione.
Di fronte al
tema del lavoro, la pedagogia ripropone spesso la divaricazione individuata da
De Bartolomeis: da un lato troviamo l’interrogazione filosofica sul lavoro in
quanto generica attività di trasformazione della natura da parte dell’uomo;
dall’altro una serie di analisi e proposte legate a particolari modelli di
organizzazione del lavoro, cui spesso viene attribuita una centralità che non
trova riscontro nei risultati della ricerca scientifica - economica e
sociologica - sulle trasformazioni del mercato del lavoro e dei processi
produttivi. È il caso, ad esempio, delle molte riflessioni pedagogiche che, più
o meno esplicitamente, assumono come scenario presente e futuro la cosiddetta
‘economia della conoscenza’[43].
È possibile
avanzare un’ipotesi di ricerca in pedagogia sociale e del lavoro fondata su
presupposti differenti rispetto a quelle sopraccitate? Una riflessione che
indaghi il lavoro a partire dalla forma specifica che questo assume nel modo di
produzione capitalistico, in una prospettiva generale, dunque, ma storicamente
determinata? E, una volta delineate le caratteristiche del processo di lavoro e
gli aspetti sociali, economici e politici ad esso collegati, quali saperi,
conoscenze e competenze sono necessari affinché il soggetto che affronta
percorsi di formazione in situazione di lavoro sia in grado di comprendere la
struttura educativa latente[44] nell’organizzazione
del lavoro e le reali coordinate materiali del proprio agire entro la
dimensione sociale dei processi di lavoro? Si tratta certamente di una
prospettiva di ricerca inesplorata, attorno alla quale è però possibile
verificare la capacità decostruttiva, prima, e propositiva, poi, della
mediazione pedagogica. Anche a partire da quella che il pedagogista Raffaele
Mantegazza definisce la «curvatura specificamente pedagogica dello
sfruttamento»:
«Si tratta di
far emergere i dispositivi di questa curvatura, leggendo in determinato uso
dello spazio, in determinate scansioni di tempi, in un rinnovato investimento
sui corpi, in pratiche linguistiche, segniche, simboliche, degli elementi che,
nel loro insieme, costituiscono un massiccio investimento sull’individuo, volto
a renderne possibile un sfruttamento integrale e senza residui»[45].
Il sapere
tecnico e professionale è tutt’altro che un sapere neutrale[46], essendosi sviluppato entro
i vincoli descritti sopra, e necessita, per essere realmente padroneggiato, di
uno sforzo conoscitivo, riflessivo e critico che non può maturare
spontaneamente nell’ambito ristretto della sua applicazione pratica.
Ridurre
l’apprendimento di una tecnica all’esperienza particolare e contingente del
singolo processo produttivo significa condannare il soggetto a farne un
utilizzo limitato e prestabilito, a divenire strumento dello strumento. In
questo modo si offre al lavoratore una formazione frammentaria e parziale, che
per di più lo espone al rischio di una rapida obsolescenza professionale. Lo
stesso discorso vale per qualunque progettazione dell’offerta formativa
costruita a partire dalle esigenze immediate della tessuto produttivo.
Sicuramente il
mondo delle imprese non è interessato a offrire a ciascun lavoratore conoscenze
scientifiche, progettuali e operative tali da consentire una maggiore
padronanza della tecnica e, allo stesso tempo, una comprensione più ampia del
mondo della produzione, perché una formazione del genere entrerebbe in
conflitto con le esigenze di controllo del processo produttivo e con la
struttura gerarchica dell’organizzazione del lavoro. Inoltre richiederebbe un
investimento in termini di tempo e costi che la maggior parte delle imprese non
è disposta a sostenere (in particolare nella realtà italiana, caratterizzata da
una ridotta dimensione delle imprese) .
Anche per
questa ragione è importante stabilire vincoli normativi che mantengano spazi e
tempi di apprendimento separati: non solo per offrire contenuti formativi
eterogenei, ma anche per permettere all’apprendista, o al lavoratore in
formazione, di sviluppare un rapporto critico-riflessivo con il sapere tecnico
e professionale. Ciò può avvenire solo all’interno di un contesto non
interamente subalterno alla logica organizzativa e alle finalità dell’impresa.
In conclusione,
non si tratta di assegnare all’educazione il compito di negare ciò che può
essere negato solamente con la modificazione storica dei rapporti sociali di
produzione. È possibile, però, mantenere, nella reciproca contaminazione, una
separazione funzionale tra formazione e produzione, che permetta al soggetto da
un lato di riflettere criticamente sul proprio agire, dall’altro di ricevere
una formazione professionale sempre eccedente rispetto a quella appresa nel
contesto lavorativo in cui si trova temporaneamente ad operare.
Il presente contributo è l’adattamento di un articolo dal
titolo «La contraddizione tra autonomia dei processi educativi ed eteronomia
dei processi produttivi», precedentemente pubblicato sulla rivista CQIA Rivista. Formazione, Lavoro, Persona,
(5), pp. 82-93, 07/2012.