Mezzo secolo di cambiamenti accelerati
Cominciamo da un breve inquadramento storico, necessario
per capire a che punto siamo arrivati e per trarne gli insegnamenti del caso.
Il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale è
stato caratterizzato da un’ accelerazione della storia e da
cambiamenti culturali, sociali ed economici assai bruschi, che hanno a loro
volta implicato, tanto nei Paesi sviluppati che nei cosiddetti “Paesi in via di
sviluppo”, delle reazioni spontanee in gran parte indipendenti dalle politiche
pubbliche.
Fra questi cambiamenti, spesso aventi carattere di rotture vere e
proprie, citerò come eventi particolarmente significativi le decolonizzazioni,
la conquista dei diritti civili e la resistenza alle dittature, la
trasformazione e la desertificazione del mondo rurale, le crisi industriali che
vi fecero seguito, le migrazioni interne ed esterne, l’urbanizzazione
incontrollata, le rivolte dei giovani, la globalizzazione.
Tra le reazioni provenienti dalla società in
quanto tale (soprattutto da alcune categorie di persone, in larga parte
riconducibili alle nuove classi medie) segnalo le manifestazioni consce e
inconsce di nostalgia e la ricerca di punti di riferimento nel passato,
considerato come un insieme di valori materiali o immateriali, cioè il patrimonio
nelle sue varie forme.
Allo stesso tempo si è prodotta una profonda
consapevolezza dell’interdipendenza tra il culturale e il naturale, tra l’essere
umano e il suo ambiente, tra le esigenze di consumo e i limiti delle risorse
disponibili, che costituiscono anch’esse un patrimonio, in larga misura non
rinnovabile. Questa situazione ha fatto emergere un paradosso: il legittimo desiderio
di condurre una vita migliore adesso, grazie ad una crescita apparentemente (n.d.t.) perpetua,
e la consapevolezza del dovere di preservare le stesse opportunità anche per i
nostri discendenti, cosa che presuppone la sostenibilità delle nostre decisioni
e delle nostre azioni.
L’impatto sull’istituzione-museo
L’istituzione del museo, ereditata da un mondo lento e relativamente stabile
guidato dall’élite del sapere, del potere e dell’avere, è stata scelta in modo
del tutto naturale quale strumento per la conoscenza, la conservazione e la
valorizzazione di questi differenti patrimoni, insieme a qualche altra misura
presa dalle autorità pubbliche (monumenti e siti protetti, parchi e riserve
naturali, lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO). Il museo ha il vantaggio
di poter essere creato facilmente da qualsiasi fondatore, sia esso un
collezionista, un’associazione, un’università o un politico. Ciò ha causato un’esplosione
museale a partire dagli anni Sessanta e Settanta’ del secolo scorso, una tendenza
ulteriormente accelerata negli anni Ottanta e Novanta. In un Paese come la Francia ci sono oggi all’incirca
tanti musei quanti se ne potevano contare in tutto il mondo 50 anni fa. Tutte
le città, ma spesso anche semplici paesi, volevano avere il loro museo, mentre
i musei d’arte più importanti come il Metropolitan di New York, il Louvre di
Parigi, l’Ermitage di S.Pietroburgo funzionavano da grandi poli di prestigio
per i grandi Paesi sviluppati. Allo stesso tempo, l’esplosione del turismo di
massa faceva del museo una destinazione privilegiata dei viaggiatori e un
obiettivo da perseguire per politici locali in cerca di crescita facile. In
questo contesto, nel 1971 e 1972 si sono verificati una serie di eventi
apparentemente scollegati che hanno cambiato il corso delle cose nel mondo dei
musei, mostrando che anche dei “conservatori” o “curatori” per professione
potevano comprendere che il mondo stava cambiando e che i modelli tradizionali
non erano più sufficienti per rispondere alle nuove aspettative dei gruppi
sociali e culturali. Nello spazio di due anni abbiamo visto:
- l’aggiunta del termine “sviluppo” alla definizione
ufficiale del Museo così come stabilito da Icom (Conferenza Generale di ICOM,
Grenoble, 1971);
- l’invenzione del termine “eco-museo” per indicare un
nuovo rapporto del museo con la natura e l’ambiente (1971), in preparazione
della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma nel 1972;
- la creazione a Le Creusot (1971-1972) di un museo senza collezioni, basato su
un territorio, una popolazione e sui patrimoni locali, un’innovazione destinata
a diventare un punto di riferimento internazionale;
- la Tavola Rotonda
UNESCO-ICOM di Santiago del Cile, durante la quale i più importanti museologi
dell’ America Latina hanno scoperto la complessità della società che li
circondava e inventato il concetto di “museo integrale”.
Questi quattro eventi hanno causato la
nascita del tutto inaspettata, e la successiva espansione, di un movimento
chiamato in seguito “Nuova Museologia”, che ha suscitato la creazione di gruppi
nazionali e successivamente di una organizzazione chiamata MINOM (Movimento
Internazionale per la
Nuova Museologia), e ha infine portato alla generalizzazione
di due termini dal significato simile, l’eco-museo e il museo di comunità. Più
in generale, mi pare che si possa - e dovrebbe - distinguere tra i musei
tradizionali locali, centrati sulla conservazione di collezioni “morte”, e
quelli che si dedicano principalmente a una gestione partecipativa del
patrimonio della comunità e del territorio. Una seconda distinzione può essere
fatta tra i musei a finalità turistiche e quelli che cercano di servire in
primo luogo la popolazione locale. Infine, si osserva sempre più un criterio
fondamentale, centrato sulla qualità della relazione tra il museo e le
dinamiche territoriali di sviluppo culturale, sociale ed economico.
Oggi e domani: un contesto difficile
Da dieci anni a questa parte stiamo assistendo, per quanto riguarda i musei
locali, a un triplice fenomeno:
- l’invecchiamento delle istituzioni e, spesso, dei loro
fondatori;
- la rarefazione del volontariato e i crescenti costi di
mantenimento;
- il graduale disimpegno, per quanto riguarda il capitolo
dei finanziamenti, da parte delle amministrazioni pubbliche.
Di conseguenza, nella maggior parte dei Paesi europei e anche oltre (Svezia,
Portogallo, Francia, Italia, Giappone, per parlare solo dei Paesi che mi hanno
contattato al riguardo), vi sono musei chiudono, o che saranno costretti a chiudere
o che, ancora, prevedono di ridurre drasticamente le loro attività. E questo
mentre prosegue la creazione di nuovi musei, di centri interpretativi, di
eco-musei e di centri d’arte. Ci si potrebbe chiedere se si ha a che fare con
una specie di “bolla” in procinto di esplodere, in analogia con le bolle delle
nuove tecnologie o del mercato immobiliare – soltanto, le conseguenze
sullo sviluppo economico e sociale sono meno spettacolari!
La crisi economica mondiale, a partire dal 2008, ha aggravato questa
situazione per le sue conseguenze dirette e indirette sulle finanze pubbliche e
private, sulle fondazioni e sulle diverse forme di mecenatismo.
Questa tendenza alla disgregazione della
rete dei musei locali in Europa occidentale parrebbe in molti territori
irreversibile. Oltre alle cause interne sopra riassunte, la pressione dei
settori prioritari, del welfare, della sicurezza, dell’inclusione sociale, dell’infanzia
e degli anziani non indipendenti, dello sport, si fa sempre più forte su tutti
gli attori, pubblici e privati, lasciando poco spazio al finanziamento di
attività considerate “gratuite”: in effetti, non sono attività che rendono, né
dal punto di vista economico né elettorale. Il turismo stesso, che troppo
spesso giustifica le politiche pubbliche del patrimonio, privilegia i grandi
musei e i monumenti e i siti più rilevanti, o gli eventi più mediatici (come le
grandi mostre e i festival), a discapito delle istituzioni comunitarie, aventi
più che altro il ruolo di istituzioni di prossimità.
Fino ad ora ogni museo si è difeso da solo,
anche se alcuni incontri periodici di professionisti museali hanno dato l’allarme
e lanciato appelli drammatici ai loro finanziatori tradizionali, pubblici e
privati. Lo facevano, però, in nome di una giustificazione di tipo culturale:
il patrimonio è importante per l’identità delle popolazioni, i musei possiedono
collezioni di eccezionale valore scientifico e svolgono un ruolo educativo nei
confronti della scuola pubblica, attirano i turisti, etc... Purtroppo, tutto
questo non basta più a indurre finanziatori pubblici o fondazioni a
scelte favorevoli o a sostegni permanenti, soprattutto quando il numero dei
visitatori diminuisce e i costi operativi aumentano. Né la cosa porta a una
mobilitazione delle popolazioni a beneficio del “loro” patrimonio o del “loro” museo.
Mi sembra dunque che, se crediamo alla
necessità, per i politici locali, di valorizzare il patrimonio e promuovere l’istituzione
museale, dobbiamo cambiare approccio e tornare all’intuizione geniale dell’incontro
di Santiago, cioè rendere il patrimonio e il museo utili alla società e al suo
sviluppo. E lo sviluppo qui deve essere inteso come il miglioramento
(sostenibile) della qualità di vita e del contesto in cui si vive, un approccio
dunque che implica la considerazione e l’utilizzo del patrimonio come risorsa
del territorio e della comunità. A partire dagli anni Ottanta il Portogallo ha
visto nascere un movimento locale centrato sulla “funzione sociale del museo”
ed è attualmente attiva a Lisbona una formazione universitaria che si occupa di
“socio-museologia”.
Che fare?
Attualmente non c’è consenso sulle risposte da dare a questa domanda. Proveremo
allora a immaginare alcune piste che potrebbero essere discusse ed esplorate da
reti regionali, già esistenti o da creare, per giungere a risultati collettivi
concreti e solidali.
Prima di tutto, una moratoria
La misura più urgente è uno stop immediato alla creazione di nuovi musei.
Inaugurare un museo significa caricarsi della responsabilità di creare un’istituzione
permanente, che richiederà una sempre rinnovata mobilitazione di risorse umane
e finanziarie, e che finisce sempre con l’accumulo di collezioni e documenti
che devono essere gestiti e conservati. Quando l’iniziativa è presa da una
persona o da un gruppo di persone (un’associazione, per esempio), verrà il
giorno in cui i fondatori non saranno sostituiti e si sarà allora costretti a
chiedere finanziamenti pubblici nonché il riconoscimento ufficiale di «museo»,
procedura subordinata a norme esigenti. Se l’iniziativa viene da un comune o un
ente pubblico, l’arrivo di una nuova giunta dopo le elezioni o una diminuzione
del bilancio annuale, o anche semplicemente il passaggio mal organizzato da una
fase di investimenti a una limitata alla gestione del quotidiano, basteranno
spesso a rendere fragile o a bloccare un museo nato tra l’entusiasmo generale.
Dobbiamo quindi fermare le iniziative
irresponsabili: se i più importanti musei d’arte, di storia o di scienze,
situati in città o siti importanti, saranno sempre attivi, in quanto tesori
nazionali o addirittura universali e quindi destinatari di un’attenzione
privilegiata a livello nazionale o regionale, i musei locali, quale che sia il
loro interesse, non hanno questo vantaggio e possono facilmente essere
trascurati, chiusi o distrutti.
La moratoria che propongo dovrebbe essere
ampiamente pubblicizzata. Sarebbe completata dalla raccomandazione, estesa a
tutti gli amanti del patrimonio, di riunirsi intorno ai musei esistenti, e a
questi di aprirsi a tutte le sollecitazioni e di accogliere tutte le buone
volontà.
Poi, una diagnosi
I musei non sono che la parte emergente, selezionata e
sterilizzata, dell’iceberg patrimoniale. I cambiamenti o addirittura le rotture
di ordine socio-economico e socio-culturale che li interessano hanno
conseguenze, al contempo, sull’insieme dei patrimoni, si tratti di paesaggi,
costruzioni urbane o rurali, tradizioni e saperi, dialetti. Mi sembra dunque
fondamentale, e soprattutto molto urgente, lanciare in ogni territorio un’attività
di valutazione, o diagnosi, della situazione del patrimonio e del, o dei,
musei esistenti. Si tratta al contempo di fare un inventario, un bilancio delle
azioni condotte fino ad oggi o tutt’ora in corso, e di condurre una valutazione
delle opportunità e dei rischi per il futuro, vicino e lontano.
La diagnosi dovrà essere partecipativa e
tesa a coinvolgere il maggior numero possibile di attori del patrimonio
(proprietari e utenti), professionisti (museologi, direttori ed esperti
scientifici) e responsabili locali (politici, militanti di associazioni,
operatori economici). Ciò permetterà non solo di fare un “inventario”, ma anche
di conoscere e raccogliere un primo gruppo di persone motivate ??e a vario titolo capaci di svolgere un ruolo in una futura
strategia patrimoniale.
Bisognerà inoltre confrontare la diagnosi
con gli obiettivi, i programmi e le esigenze di sviluppo del territorio, in
modo da riconoscere le cooperazioni e i conflitti possibili.
Uno dei risultati di questa diagnosi potrà
consistere nell’abbandonare certi musei e certi progetti, oggettivamente non
praticabili. Si cercherà per essi una o più soluzioni, senza cadere nell’accanimento
terapeutico.
Infine, un’organizzazione
Ogni livello del territorio (comune, provincia, regione etc.) dovrebbe dotarsi
di un dispositivo di governance del patrimonio, comprendente non solo i
monumenti e i siti, ma anche tutto il patrimonio diffuso materiale e
immateriale, i paesaggi e tutte le istituzioni che su questo patrimonio
intervengono (musei, biblioteche, archivi, centri culturali, parchi e riserve
naturali).
Questo dispositivo deve associare
strettamente, nella progettazione come nella decisione, i poteri pubblici, la
società civile e le sue organizzazioni e, infine, gli attori economici del
territorio, dal più piccolo al più grande. Non nascerà, come accade oggi nella
maggior parte dei casi, dalla volontà di “valorizzare il patrimonio” o di
rafforzare la “identità culturale”. Cercherà di individuare gli interessi e le
esigenze degli stakeholder, che alla fine si riveleranno i migliori promotori
del patrimonio, essendo consapevoli di averne bisogno. Solo su queste
basi le strutture di gestione del patrimonio (come i musei e gli eco-musei)
potranno ottenere i mezzi per la loro azione, in modo da rispondere a queste
esigenze nella continuità (criterio di sostenibilità) e nel rispetto delle
norme scientifiche, professionali ed etiche comuni a tutti i patrimoni.
Credo che queste strutture debbano essere
ripensate, per farne delle vere e proprie imprese del “terzo settore” o dell’ “economia
sociale”, abbandonando progressivamente i vecchi statuti, municipali o
para-municipali (ad eccezione, naturalmente, delle grandi istituzioni), o
magari associativi. A seconda dei Paesi e delle consuetudini regionali, ci si
orienterà verso statuti cooperativi che faranno interagire gli stakeholder del
patrimonio locale in direzione di una ibridazione delle risorse: apporti di
capitali, sovvenzioni, mecenatismo, servizi, redditi da attività.
A un livello territoriale più vasto, si
tratterà di preparare una mappa e un piano pluriennale di copertura dei
territori per quanto riguarda il patrimonio. Esso potrà assumere la forma, per
esempio:
-
di reti mutualistiche
di musei locali e di istituzioni patrimoniali analoghe (fino a biblioteche,
archivi, centri culturali, aree naturali);
- del collegamento di questi musei locali con uno o più
musei importanti, dotati di mezzi professionali;
- della fusione di musei prossimi dal punto di vista geografico e/o tematico, o
della chiusura di musei con deposito delle loro collezioni in un museo
regionale adatto.
Questo lavoro, che necessiterà di studi approfonditi, dell’intervento
di specialisti (compresi consulenti legali e finanziari) e di trattative spesso
difficili, dovrebbe essere fortemente sostenuto, se non promosso, dalle
autorità provinciali e regionali, che potrebbero dedicargli risorse in
sovvenzioni ed expertise, subordinate all’ottenimento di risultati tangibili.
*
Quale politica patrimoniale e museale?
Una volta delineato questo approccio generale, vediamo ora le modalità e il
contenuto concreti di una strategia e di una programmazione centrate sulle
istituzioni responsabili della gestione del patrimonio di un territorio.
Un’offerta di servizi e di prodotti
Se consideriamo il museo locale, o una qualsiasi istituzione analoga, come un’impresa
cooperativa di utilità culturale e sociale, dobbiamo essere in grado di offrire
prodotti e servizi che rispondano alle aspettative dei suoi stakeholder. Per
esempio:
Stakeholder
|
Offerta di servizi
|
Ricercatori, insegnanti, funzionari,
artisti, operatori turistici, decisori politici e amministrativi
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Centro di risorse (mappe,
documenti, collezioni di oggetti, fotografie, filmati, registrazioni, video)
disponibili in loco e on-line. Portale internet e database digitalizzati.
|
Organismi pubblici per il
monitoraggio, la valorizzazione e la gestione del paesaggio (livello
provinciale, regionale, nazionale), centri di formazione per la gestione di
contesti rurali e urbani, distretti industriali, ecc.
|
Gestione del paesaggio: monitoraggio,
conservazione, insegnamento, lettura del paesaggio, organizzazione di eventi,
interpretazione, sentieri
|
Organismi portatori di un’Agenda 21,
ONG ambientaliste, università, ricercatori di archeologia, botanica,
zoologia, antropologia, ecc.
|
Inventario archeologico, etnologico,
ecologico, biodiversità, gestione ambientale, educazione ambientale,
formazione di una Agenda 21 e delle sue conseguenze
|
Comuni e strutture pubbliche e
private di azione artistica e culturale, scuole dei diversi livelli
|
Realizzazione di attività culturali:
mostre, itinerari di visita, feste, programmi d’arte, animazioni. Azioni
educative. Capacità logistica.
|
Organismi sociali, amministrazioni comunali, educazione
permanente
|
Programmi di integrazione e
inclusione culturale e sociale dei nuovi abitanti, alfabetizzazione culturale
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Agenzie e agenti di sviluppo economico locale, organizzazioni
sindacali agricole, artigianali e commerciali
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Identificazione e
strutturazione di filiere di produzione, di trasformazione e
commercializzazione di prodotti alimentari, naturali o legati all’artigianato
tradizionale
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Agenzie di viaggio, tour-operator, visitatori individuali
|
Accoglienza,
informazioni turistiche, organizzazione dei programmi di gruppo o
personalizzati, pubblicazione di materiale promozionale e di orientamento,
offerta di guide professionali, creazione di percorsi ed eventi
|
In quest’ottica, è assolutamente evidente che ogni stakeholder deve garantire
il finanziamento dei servizi che gli sono resi, sia direttamente, cioè
pagandone il prezzo, sia attraverso sovvenzioni equivalenti. Ciò presuppone che
l’impresa sia in grado di rispondere in modo competente alle richieste
professionali di questi stakeholder divenuti clienti: stima dei costi reali,
negoziazione dei contratti e delle convenzioni, controllo qualità,
comunicazione.
Monitoraggio
Trattandosi di imprese di gestione collettiva/cooperativa del patrimonio, è
essenziale stabilire un sistema di valutazione permanente e partecipativo,
coinvolgendo non solo gli attori ma anche i beneficiari e gli utenti dei
servizi, dei prodotti e delle azioni. Si tratta di definire gli indicatori e i
criteri da utilizzare in tre aree principali:
- il culturale - gestione delle risorse patrimoniali
(capitale culturale) del territorio, a seconda del contesto, della cultura
vivente delle comunità interessate e dell’interesse generale (politiche
pubbliche dei diversi livelli amministrativi), impatto sull’educazione
scolastica e permanente;
- il sociale – impatto del patrimonio e delle azioni che lo utilizzano sulla
coesione sociale, la trasmissione delle tradizioni e dei valori, lo sviluppo
della creatività individuale, l’inclusione dei nuovi residenti, la vita
associativa (capitale sociale);
- l’economico - equilibrio investimenti-funzionamento,
impatto sull’occupazione, bilancio delle azioni della filiera, misura
della qualità dei prodotti e delle pratiche, condizioni del patrimonio immobile
(patrimonio economico).
È preferibile creare sin dall’inizio un meccanismo
permanente di valutazione e di restituzione dei risultati e delle osservazioni
alle comunità e agli stakeholder. Potrebbe essere utile, se non necessaria, l’assistenza
esterna da parte di una personalità indipendente (esperto, accademico) per
apportare uno sguardo neutro e interrogativi originali.
Carattere permanente dell’azione
Uno dei problemi principali cui vanno incontro oggi i musei e altre istituzioni
locali, proprio per il loro essere originati da iniziative comunali,
associative, comunitarie o individuali, mi sembra consistere nel loro
invecchiamento, e ciò almeno per quanto riguarda le realtà meno recenti. Il
progetto iniziale, la scelta dello statuto e della programmazione corrispondono
di solito alle idee della generazione fondatrice. Il tempo è passato, l’istituzione
ha proseguito per la sua strada, rispettando le linee guida iniziali, ma è
subentrata una nuova generazione, poi un’altra, sono cambiate le condizioni di
vita, la cultura vivente, il contesto sociale, politico ed economico. Le
strutture sono invecchiate materialmente ed esigono investimenti per la
loro conservazione e il loro aggiornamento. Soprattutto, i membri della comunità
non si riconoscono più davvero in quanto presentato, hanno altre aspettative e
altri bisogni, e non sono disposti ad accettare spese importanti, in tempo e
denaro, solo per prolungare o anche migliorare l’esistente. Volontariato e
filantropia languono.
Ancora più grave è il fatto che i giovani non
s’interessano più a una visione passatista del patrimonio. Al di là delle
visite scolastiche obbligatorie, niente li attira in un museo concepito da e
per i loro nonni. Come possiamo sperare che la popolazione attiva di domani,
costituita da questi stessi giovani giunti a maturità, torni a investirsi nel
patrimonio?
Il monitoraggio non basterà a fornire
risposte a questi problemi. La politica del patrimonio, il museo, l’eco-museo e
tutte le strutture di questo genere dovranno adattarsi al ciclo delle
generazioni, dunque rimanere vivi e periodicamente trasformarsi, o rassegnarsi
a sparire.
Patrimonio, museo e sviluppo locale
Il patrimonio, nel suo significato più ampio, è una risorsa essenziale, il
capitale principale del territorio, assieme al capitale umano. Interviene
in tutti i settori e in tutte le fasi dello sviluppo di questo territorio, in
quello che si chiama sviluppo locale (Corsivo mio, N.d.T.).
Precisiamo anzitutto cosa si intende per
sviluppo locale: non consiste nella crescita della ricchezza del territorio e
dei suoi abitanti, si tratta unicamente del miglioramento sostenibile
della qualità della vita e del quadro di vita degli abitanti. Ovviamente,
la qualità di vita ha una componente economica, ma non è l’unica. Il
patrimonio, viceversa, appare in tutti i settori e in tutti i programmi di
sviluppo, si riferiscano essi al contesto culturale e naturale, all’istruzione,
al divertimento, alle attività agricole, artigianali e commerciali, alle
relazioni umane e all’occupazione, all’attrattività e all’immagine del
territorio, ai piani regolatori e a molti altri settori. Ciò significa che gli
attori sociali e le istituzioni del patrimonio hanno la loro parola da dire nei
processi decisionali, nelle modalità e nelle azioni che hanno come scopo lo
sviluppo locale.
Reciprocamente, gli agenti dello sviluppo
locale devono investirsi fortemente nella gestione del patrimonio e cooperare
con gli agenti e gli attori del patrimonio, in primo luogo con i musei.
Inoltre, l’istituzione patrimoniale, diciamo
il museo per semplificare, è uno strumento per lo sviluppo, possiede le
attrezzature, gli esperti, le informazioni che sono necessarie per numerosi
programmi e azioni di sviluppo. Praticamente tutti i servizi indicati come
esempi nella tabella sopra proposta sono utili al processo di sviluppo. Il
museo deve dunque far parte, ufficialmente e nella pratica quotidiana, di tutto
il dispositivo dello sviluppo locale, partecipando sia alle decisioni che alle
azioni.
È per l’efficacia del suo ruolo nello
sviluppo del territorio che il museo otterrà il riconoscimento della sua
legittimità e le risorse di cui avrà bisogno.
(Pontebernardo, 22 maggio 2011)
Nota al testo
Rilanciamo sulla nostra rivista un
testo originanariamente pubblicato sul sito SIMBDEA – Società Italiana per la Museografia e i Beni
Demoetnoantropologici (http://www.simbdea.it), che ringraziamo, nella persona di Pietro Clemente, e cui
rimandiamo per utili approfondimenti sul tema.
Riportiamo di seguito la nota con cui
Pietro Clemente aveva accompagnato l'articolo:
«Pubblichiamo in forma non controllata
dall’autore, e in traduzione nostra (Luca Mancini, revisione René Capovin della Fondazione Luigi Micheletti) la
traduzione del testo di De Varine (già presidente ICOM internazionale e
fondatore della nuova museologia, esperto di sviluppo, autore di Le radici del futuro. Il patrimonio
culturale al servizio dello sviluppo, a cura di Daniele Jalla, CLUEB, Bologna, 2005) presentato al
convegno di Pontebernardo (Cuneo, Alta Valle Stura, sede dell’ecomuseo della
pastorizia), come contributo al dibattito sui musei nel tempo della crisi. Sono
note che possono essere interpretate in modi diversi, che risentono
l’esperienza più francese e terzomondista di De Varine, ma che hanno avuto, in
ogni caso, nella limitata circolazione finora avvenuta tra addetti ai lavori,
una grande forza di sollecitazione di idee. Il testo uscirà negli atti
dell’incontro di Pontebernardo, costruito e diretto da Mario Cordero e Daniele
Jalla, che si proponeva di dare dimensione internazionale al tema della crisi
nel campo del patrimonio. Poiché ci sembra importante leggere questo testo e
farlo entrare nella riflessione comune abbiamo deciso di farlo circolare nel
modo semi-informale che è proprio di molti testi influenti, ma sapendo comunque
che l’autore ne è informato e gradisce, e che i curatori del convegno (che
ringraziamo) lo consentono in questa forma di ‘inedito’ che circola tra le
persone interessate e nell’ambito della nostra attività associativa.
Pietro Clemente»