Il peggiore di
tutti era - secondo la pittoresca espressione usata dallo studioso inglese Lyon
Playfair (1818-1898) nel 1862 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta
sui fumi tossici - l’inquinamento dovuto alle scorie dell’industria chimica. A
cominciare dai primi decenni dell’Ottocento Britannia si era avviata alla
conquista industriale del mondo grazie allo spirito di intrapresa della sua
borghesia e alle scoperte dei suoi tecnici-scienziati. La crescente produzione
di carbone aveva consentito all’Inghilterra di sviluppare una moderna
siderurgia e di fabbricare nuovi potenti motori
per azionare le nuove e veloci macchine
per pompare l’acqua e per la
filatura e la tessitura. Le colonie africane offrivano abbondante cotone e
quelle indiane offrivano l’indaco per colorare le stoffe.
Tutto questo sforzo
richiedeva però agenti chimici per il trattamento, il lavaggio e la sbianca
delle fibre e dei tessuti, soprattutto acidi e sostanze alcaline come il
carbonato sodico. L’unica fonte di carbonato sodico, all’inizio del 1800, era
rappresentata dal minerale greggio ricavato da alcuni laghi salati egiziani
oppure dalle ceneri di alcune piante coltivate apposta. Ma non si poteva
impostare una grande industria moderna su così aleatorie materie prime.
Il medico francese Nicola
Leblanc (1742-1806) aveva inventato, nel 1787, subito prima della rivoluzione
francese, un processo artificiale per la fabbricazione del carbonato sodico,
con i capitali forniti dal Duca di Orleans, Filippo Egalité (1747-1793),
patrizio progressista, ma la rivoluzione e poi l’uccisione, appunto nel 1793,
del Duca di Orleans, patrizio non sufficientemente rivoluzionario, avevano
fatto fallire l’impresa di Leblanc che, malato e in miseria, si suicidò nel
1806.
Il processo era, se si
pensa allo stato della chimica del tempo, geniale. Esso utilizzava come materie
prime il sale, l’acido solforico, il carbone e il calcare e si svolgeva in due
passaggi. Nel primo il cloruro sodico veniva fatto reagire con acido solforico
e si otteneva solfato sodico e acido cloridrico; nel secondo passaggio il
solfato sodico veniva trattato a caldo con carbone e carbonato di calcio: si
formava carbonato sodico (la merce cercata), solfuro di calcio e anidride
carbonica. Il residuo solido della reazione veniva trattato con acqua che
scioglieva il carbonato sodico, solubile, lasciando un rifiuto solido di
solfuro di calcio, contenente anche carbone e calcare.
Il processo generava così due sottoprodotti
nocivi e inquinanti, uno gassoso, l’acido cloridrico, e l’altro solido, il
solfuro di calcio, e comportava un enorme spreco di materiali: per produrre una
tonnellata di carbonato sodico occorrevano sei tonnellate di materie prime e si
formavano tredici tonnellate di rifiuti solidi, liquidi e gassosi.
La produzione del
carbonato sodico col processo Leblanc, comunque, cominciò nei primissimi anni
del 1800 in
Inghilterra dove esisteva già una industria che produceva acido solforico
bruciando lo zolfo importato dalla Sicilia. L’acido cloridrico veniva lasciato
andare nell’atmosfera e, trascinato dalle piogge, finiva sulla vegetazione e
nel terreno “bruciando” alberi e raccolti; Il solfuro di calcio veniva
accumulato in discariche dove, per contatto con le piogge, si scomponeva
liberando idrogeno solforato, gas puzzolente e anch’esso dannoso per la
vegetazione. L’industria chimica nel paese più industriale del mondo cominciava
abbastanza male.
Naturalmente i proprietari
dei terreni e dei boschi e gli agricoltori cominciarono ben presto a protestare
e fecero arrivare alla Camera dei Lords la richiesta di leggi che facessero
cessare l’inquinamento. Come sempre succede, furono nominate delle Commissioni
di inchiesta le cui relazioni sono preziose per avere un quadro del procedere
sviluppo della “rivoluzione chimica”. Per ridurre l’inquinamento alcuni
industriali avevano costruito camini alti fino a 100 metri, ma in questo
modo non si faceva altro che diluire l’acido cloridrico e disperderlo su una
superficie ancora più grande. Altri fabbricanti, per evitare di scaricare l’acido
cloridrico nell’atmosfera, facevano gorgogliare i fumi acidi in acqua dove l’acido
è molto solubile. Ma anche così le fabbriche si riempivano in breve tempo di
fusti pieni di soluzione acida e corrosiva che doveva essere pure smaltita da
qualche parte.
Dopo un lungo dibattito,
nell’aprile del 1862 alla Camera dei Lords e nel luglio successivo alla Camera
dei Comuni, fu approvata la prima importante legge contro l’inquinamento
atmosferico - l’Alkali Act - che imponeva agli industriali di eliminare almeno
il 95 % delle emissioni nell’atmosfera dell’acido cloridrico prodotto nel
processo di fabbricazione del carbonato sodico. Fu istituito anche uno speciale
ispettorato col compito di assicurare il rispetto della legge con visite presso
le fabbriche e con controlli e analisi, uno dei primi organi pubblici di lotta
all’inquinamento. Il primo Alkali Inspector, nominato nel 1863, fu il chimico
Robert Angus Smith (1817-1884), a cui si devono analisi sistematiche dei gas
dell’atmosfera e interessanti informazioni sull’acidità delle piogge.
A questo punto alcuni
imprenditori affrontarono il problema dal verso giusto. Si sapeva che l’acido
cloridrico può essere ossidato e trasformato in cloro: un processo di
ossidazione con biossido di manganese e con riciclaggio dei reagenti era stato
scoperte dal chimico svedese K. Scheele (1742-1786); il processo, perfezionato
nel 1866-68 da W. Weldon (1832-1885) e H. Deacon (1822-1876), fu applicato all’acido
cloridrico raccolto come sottoprodotto nel processo Leblanc; con l’ossidazione
dell’acido cloridrico non solo si faceva fronte a quanto richiesto dalla nuova
legge, ma si otteneva una seconda merce, il cloro, richiesta in quantità
crescente dall’industria della carta, per la sbianca dei tessuti e per il
trattamento delle acque e vendibile con profitto. È uno dei primi casi che
sembra dare ragione al principio che “la difesa dell’ambiente paga”.
Ma i guai non erano ancora
finiti. Il processo Leblanc produceva come sottoprodotto anche il solfuro di
calcio: a parte le nocività di questo rifiuto solido lasciato in discariche all’aria
aperta, era una follia perdere in questa scoria tutto lo zolfo impiegato nel
processo Leblanc; lo zolfo era allora una costosa materia prima importata dalla
Sicilia, con continue liti, sui rifornimenti e sui prezzi, con il governo
siciliano prima e italiano poi, e con i relativi concessionari. Per rompere il
monopolio siciliano dello zolfo gli inglesi, a partire dal 1839 avevano
cominciato a produrre acido solforico utilizzando le piriti di cui si erano
scoperti grandi giacimenti in Spagna, ma anche così lo zolfo restava una
materia costosa.
Sempre secondo la
filosofia che “la difesa dell’ambiente paga” alcuni imprenditori inglesi
cominciarono a trattare le scorie di solfuro di calcio con un processo che
consentiva di ottenere, da una parte idrogeno solforato e dall’altra, per
ossidazione, anidride solforosa. Dalla reazione fra i due si otteneva zolfo
molto puro che poteva essere rimesso in ciclo. Il processo fu perfezionato da
A. Chance (1844-1917) e Carl Friedrich Claus nel 1882 ed è tuttora usato per ottenere zolfo dai gas naturali acidi,
ricchi di idrogeno solforato.
Tutto questo lavoro arrivò tardi e
non salvò il processo Leblanc dal declino. Infatti intorno al 1865, proprio
quando veniva approvata in Inghilterra la prima legge contro l’inquinamento
atmosferico, il chimico belga Ernest Solvay (1838-1922) costruiva i primi
impianti basati su un processo di sua invenzione, capace di trasformare il sale
marino in carbonato sodico con il riciclo di gran parte dei sottoprodotti; come
unica scoria si forma del cloruro di calcio.
Nei primi anni del
Novecento il processo Leblanc era ormai abbandonato ma la sua storia merita di
essere ricordata perché vi si ritrovano i volti, i caratteri, i comportamenti,
che siamo abituati a riconoscere in molte delle attuali controversie ambientali
e anche la morale che un po’ di coraggio e lungimiranza da parte dei governanti,
un po’ di fantasia e di innovazione da parte degli inquinatori, permettono agli
imprenditori di continuare a lavorare, a produrre merci, a fare profitti con un
po’ meno danni agli inquinati e alla natura, che conta pure qualche cosa anche
lei.