Lorenzo Tomatis, International Society of Doctors for the Environment (ISDE), 52100 Arezzo, Italy
A Carpi, ogni anno si svolge un convegno, le Giornate Ramazziniane, dedicato al medico e scrittore Bernardino Ramazzini,
nato in quella stessa città nel 1633. In tale occasione, su indicazione di un'accademia
di esperti internazionali di scienze ambientali e medicina del lavoro, il
sindaco consegna un premio a scienziati meritevoli, distintisi per aver portato
importanti contributi in difesa della salute pubblica. Quella che segue è la
trascrizione del discorso di ringraziamento tenuto da Lorenzo Tomatis, a cui il
premio Ramazzini fu assegnato nel 2005.
Prologo
Nella sua
introduzione al De morbis artificum
diatriba, Bernardo Ramazzini spiega, con modestia, che quel libro gli era
stato ispirato non dal desiderio di gloria ma dal senso del dovere; non aveva la
pretesa di scrivere un testo di grande rilievo artistico, piuttosto voleva
redigere un testo per il bene della comunità e dei lavoratori. Ramazzini è stato
un esempio di come i principi della scienza, della giustizia e dell'equità sociale
possano armoniosamente ed efficacemente coesistere nella professione medica
svolta con competenza, sensibilità e impegno. Nella nostra società queste tre
qualità raramente convergono insieme e dei tre principi, l'equità sociale è
quello più consistentemente maltrattato mentre la scienza, che per definizione è
considerata al di sopra di ogni critica, in modo sovente deliberato non si
accorge della possibilità che la sua presunta oggettività possa essere invece soverchiata
dai conflitti di interesse.
Uno dei
principali meriti di Bernardino Ramazzini è l’aver reso i medici consapevoli di
questioni aggiuntive rispetto a quelle solitamente considerate, – in
particolare del problema del tipo di lavoro che il paziente svolge (quam artem exerceat) – e appartenenti a
un'area di interesse medico che Ippocrate aveva trascurato e che la medicina
scientifica non considera come parte dei suoi compiti: la salute dei lavoratori.
Anche se la descrizione di Ramazzini delle condizioni di lavoro e le raccomandazioni
che egli dà per il loro miglioramento si riferiscono al periodo preindustriale,
esse sono ancora largamente valide oggi come lo è l’enfasi data alla
prevenzione primaria.
La
prevenzione, soprattutto la prevenzione primaria, è l’oggetto di questa mia
presentazione. Si potrebbe ritenere superfluo richiamare qui la distinzione fra
prevenzione primaria e secondaria, ma basta un rapido sguardo alla letteratura
scientifica contemporanea per notare una sorta di oblio di questa differenza,
cosicché la prevenzione secondaria sembra essere considerata l'unico strumento
di prevenzione disponibile, con le terapie farmacologiche inserite in un territorio
mal definito in mezzo a questi due livelli. I nostri importanti progressi nella
comprensione dei meccanismi di evoluzione, fin dai primi stadi, delle lesioni
cancerogene hanno spostato l'attenzione medica dall’insieme dei complessi
aspetti dell’eziopatogenesi – cioè, dagli aspetti di insorgenza e sviluppo
(patogenesi) della malattia, con particolare attenzione alle sue cause
(eziologia) Ndt – al solo aspetto di patogenesi della malattia.
Per esempio,
il programma della Conferenza internazionale sui confini della prevenzione tumorale
(International Conference on Frontiers in
Cancer Prevention) che si terrà nel mese di ottobre 2005, presentata come
“il più completo e transdisciplinare convegno mondiale di prevenzione del
cancro", mostra un eccellente livello di presentazioni scientifiche ma dedicate
principalmente alla diagnosi precoce, agli screening,
alla predisposizione genetica e alla prevenzione farmacologica, mentre la
ricerca eziologica sul cancro, direttamente correlata alla prevenzione
primaria, rappresenta una parte soltanto minoritaria del programma. Quel tipo
di tendenza aristocratica che dai tempi di Ippocrate a quelli di Bernardino Ramazzini
ha portato la medicina scientifica, o almeno un ampio settore dell’establishment biomedico, a trascurare i
problemi di salute dei lavoratori si manifesta oggi con la priorità data alla ricerca
intellettualmente stimolante che usualmente ha una buona potenzialità di
ritorno economico come suo implicito, ma non dichiarato, interesse. In questo
contesto, l’industria farmaceutica gioca un ruolo sia diretto che indiretto,
grazie agli effetti di condizionamento dei suoi cospicui finanziamenti.
Difficoltà della prevenzione
primaria del cancro
A lungo, la
ricerca sulla prevenzione primaria e la promozione dell'equità sociale e sanitaria
sono state ostacolate da una relativa insufficienza di finanziamenti e dalla
difficoltà, se non dall'impossibilità, di ottenere fondi per progetti
specifici. Oggi, il sostegno finanziario è più abbondante per diverse aree
della ricerca; così, la giustificazione della mancanza di fondi per rifiutare il
sostegno a determinati progetti di ricerca potrebbe essere facilmente
contestata. Un metodo differente, indiretto ma efficace, è utilizzato da
qualche tempo per ostacolare attività di ricerca considerate non di interesse
per il sistema economico dominante. Questo metodo consiste nel finanziamento
generoso offerto ad aree preselezionate della ricerca scientifica: in tal modo
si possono attrarre i ricercatori verso obiettivi diversi da quelli della
protezione della salute pubblica. Le quantità di fondi più rilevanti sono
indirizzate verso le sperimentazioni cliniche su vasta scala, le analisi dei
meccanismi di azione bio-molecolare o le predisposizioni genetiche, i cui
risultati sono ampiamente pubblicizzati e garantiscono l'accesso a importanti
riviste scientifiche. Alcuni dei progetti sono utili e innovativi, altri invece
possono essere messi in pratica soltanto con un ingente sforzo economico e
organizzativo reso possibile dalla disponibilità di fondi in grande quantità.
Questo non significa che quel tipo di ricerca non debba essere svolta, ma che non
dovrebbe comportare il soffocamento di progetti di ricerca non graditi al sistema
economico.
L’impedimento per
scarsità dei fondi è stato rimpiazzato da un impedimento per eccesso di fondi. Per
resistere all'attrazione di finanziamenti abbondanti e sicuri, di pubblicazioni
su riviste con alti impact factor e
pertanto alle prospettive di una carriera brillante, occorrono le stesse doti
di coraggio, determinazione e spirito di sacrificio che erano necessarie molti
anni fa per avviare e perseguire i primi programmi di ricerca sulla prevenzione
con finanziamenti scarsi o inadeguati. Che ci siano ancora scienziati capaci di
mantenere questo coraggio e questa determinazione è una delle poche ragioni di
speranza in questa era, così individualista e spregiudicata.
La prevenzione
primaria, perseguita per prevenire l'occorrenza della malattia e con un carattere
di universalità senza distinzioni come una delle sue principali
caratteristiche, dovrebbe sempre avere alta priorità. La prevenzione primaria
delle malattie infettive non incontrò resistenze importanti, se non per la
riluttanza di alcuni gruppi ad accettare le terapie di vaccinazione
sistematica, e fu perciò saldamente edificata sulla base della cooperazione
internazionale. Se la prevenzione primaria delle patologie infettive non ha
trovato applicazione con la stessa attenzione ed efficacia in tutto il mondo
non è stato a causa di dubbi sulle cause eziologiche di queste malattie le
quali, una volta identificate – nessuno lo ha mai negato – sono egualmente
patogene a tutte le latitudini, ma è stato a causa della perversa combinazione
della povertà estrema esistente in alcuni paesi, con l’irriducibile egoismo dei
paesi ricchi e l'avidità delle corporation
multinazionali.
La prevenzione
primaria dei tumori di origine lavorativa e ambientale, invece, ha dovuto
superare una serie di ostacoli ripetutamente posti lungo il suo cammino, e
l'identificazione come cancerogeno di un agente fisico o chimico è stata troppe
volte accolta con scetticismo, se non con aperta ostilità. Diverse sostanze
chimiche sono state riconosciute in alcuni paesi come cancerogene ma non in
altri, e anche laddove sono riconosciute come cancerogene, le loro concentrazioni
accettate o permesse possono variare considerevolmente da paese a paese, come
se la loro cancerogenicità potesse sparire o modificarsi al passaggio di confine.,
Il ritardo ricorrente
fra l'identificazione di un agente cancerogeno e l'adozione di misure preventive
adeguate per la sua rimozione non può essere spiegato dalla mancanza di conoscenze
procedurali mediche specifiche e avanzate, come accadde per la lotta iniziale
contro alcune malattie epidemiche. Le misure prese sono state quasi sempre tardive
e incomplete, applicate solo dopo che il danno era stato fatto e, anche in quel
caso, raramente in grado di fornire piena protezione. L'assunzione prevalente,
usata anche come giustificazione impropria, è che la produzione di certi beni è
necessaria e vitale – anche quando è in realtà mirata solo ad aumentare il
consumo di beni non essenziali – e che i rischi conseguenti alla loro
produzione sono il prezzo inevitabile che la società debba pagare. Questo orientamento
di pensiero ha rapidamente portato a trascurare l'osservazione che il prezzo più
alto è in realtà pagato da un settore particolare della popolazione, per il
quale l'incidenza e la mortalità sono considerevolmente più elevate che nel
resto della popolazione.
Le radiazioni
ionizzanti sono un buon esempio di come l'emergere della prova di cancerogenicità
di un agente ambientale non sia necessariamente seguita dall'adozione di misure
preventive e, sovente, nemmeno da elementari norme di prudenza. Sette anni dopo
la scoperta dei raggi-X da parte di Roentgen avvenuta nel 1895, furono
pubblicati due rapporti che descrivevano la loro capacità di indurre tumori
maligni della pelle;,
questo è un esempio eccezionale di brevità nel lasso di tempo intercorso fra
l'introduzione di un agente nell'ambiente e il riconoscimento dei pericoli
associati al suo uso. Eppure i radiologi non diedero l’attenzione dovuta ai
rischi potenziali associati all'uso dei raggi-X, né la diedero le autorità sanitarie
e l’opinione pubblica. Data la loro estrema utilità per scopi diagnostici e terapeutici,
lo sviluppo delle tecniche di applicazione dei raggi-X è stato in realtà un
bene. Ciononostante, dobbiamo anche essere dispiaciuti per il fatto che le
conoscenze per il loro uso siano state acquisite a lungo nella totale assenza
di ogni precauzione.
L’esempio
delle radiazioni ionizzanti evidenzia anche le difficoltà che si incontrano
nella presa di coscienza dei pericoli dovuti all’esposizione a piccole dosi, tanto
nell’ambiente di lavoro quanto in quello generale. Ci vollero poi più di quarant’anni
prima che fosse ammessa anche la cancerogenicità delle radiazioni naturali, quando
fu finalmente riconosciuta come causa delle malattie tumorali nei minatori dello
Schneeberg. E
ci vollero molti altri decenni prima che fosse ufficialmente accettato che la
popolazione in generale può essere sottoposta a rischio per l’esposizione a
radiazioni naturali a livelli molto più bassi di quelli trovati nell’ambiente
delle miniere. Un eccesso di rischio
tumorale è stato recentemente dimostrato anche
per dosi singole o prolungate di radiazioni che per decenni erano state
proclamate prive di pericoli, in un contesto di evidenze che mostrano come
anche l'esposizione alla radiazione di fondo sia cresciuta, seppure di poco, negli
ultimissimi anni. Come per altri agenti
ambientali, interessi economici e politici si sono sovrapposti in modo
sostanziale alle necessarie priorità di difesa della salute pubblica.
Sul fronte
occupazionale, il benzene – per il quale l'evidenza di cancerogenicità risale
agli anni ’20 del Novecento – è uno degli esempi più importanti. La
concentrazione di 100 parti per milione (ppm) ufficialmente accettata nel 1946,
fu ridotta drasticamente a 10 ppm nel 1978, anche se le conoscenze sulla sua
cancerogenicità erano rimaste pressoché invariate fra le due date. E neppure si
svilupparono conoscenze molto più avanzate negli anni ’90 del Novecento, quando
la massima dose di concentrazione accettabile per il benzene fu abbassata a 1 ppm
mentre si proponeva di abbassarla 0,3 ppm. L'evoluzione verso valori sempre più
ridotti di concentrazione accettabile non è stata guidata da progressi nella
comprensione dei meccanismi di cancerogenicità del benzene o da un’accresciuta attenzione
per il rischio gravante sui lavoratori da parte delle industrie o delle
autorità sanitarie è stata, invece, il risultato della lotta per la salute
condotta da lavoratori, sindacati, scienziati e medici uniti contro interessi
economici straordinari.
Nonostante il fatto che la tossicità del benzene sui globuli rossi sia stata ulteriormente
e recentemente confermata anche per concentrazioni inferiori a 1 ppm, forti
interessi industriali stanno ancora cercando di scongiurare il riconoscimento del
rischio a bassa concentrazione.
L'amianto è probabilmente
il più drammatico,
degli esempi che dimostrano la discrepanza fra il raggiungimento dell'evidenza
scientifica di effetti deleteri per la salute e la sua traduzione in adeguate
misure di prevenzione. A causa della determinazione di interessi economici
potentissimi a mantenere il livello del proprio profitto, a tutti i costi, ancora
non esiste un accordo internazionale per bandire la produzione e l'uso
dell'amianto su scala mondiale e più di due milioni di tonnellate di questo
minerale sono tuttora prodotte annualmente. Mentre il fronte del progresso si
muove lentamente nella direzione giusta, alcuni paesi ricchi continuano a
sfruttare le legislazioni occupazionali molto permissive o inesistenti nei
paesi poveri e mandano loro le vecchie navi ricoperte di asbesto per farle
demolire.
La nascita dell'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro
La messa in
pratica di misure di prevenzione primaria è associata, in modo fondamentale,
con l’attribuzione e la quantificazione del rischio [abbinato a un agente
chimico-fisico, Ndt]. Questa attribuzione, chiaramente, dipende dalla
disponibilità di informazioni su un insieme di fattori di rischio, in modo che
i programmi di intervento possano essere formulati in funzione dell'urgenza,
della fattibilità e delle priorità, che dipendono dalla rilevanza del rischio
individuato. Le fonti di informazioni più note e affidabili sui rischi di
cancerogenicità per l'uomo sono quelle basate sulle valutazioni dell’Agenzia
internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) e
del Programma di tossicologia nazionale (NTP).
Poiché la IARC
ha iniziato i propri programmi di valutazione diversi anni prima del NTP,
dispone di informazioni su un numero maggiore di agenti cancerogeni.
In
retrospettiva, il periodo in cui la
IARC fu creata può essere considerato come un’epoca di
entusiasmo, con una grande speranza di successo per la ricerca sul cancro. Fu
anche un’epoca in cui l’idea che la prevenzione primaria dovesse avere un’alta priorità
nella lotta contro il cancro sembrava aver convinto alcune delle autorità più
importanti a livello mondiale, un’epoca in cui le promesse formulate dai
politici furono poste in atto con una rapidità stupefacente, raramente se non mai
vista nella politica internazionale. L'otto novembre 1963, dodici importanti personalità
francesi di diversa estrazione culturale, fra cui l'oncologo Antoine Lacassagne,
il biologo Jean Rostand, lo scrittore Francois Mauriac e l'architetto Charles
Le Corbusier, si rivolsero al Presidente francese, Charles de Gaulle e lo
invitarono ad avviare un programma di ricerca internazionale per combattere una
delle più grandi minacce per la specie umana: il cancro. Il Presidente de
Gaulle aveva da poco fatto visita a due persone a lui particolarmente care,
entrambe malate terminali di tumore; l'emozione suscitata da quella visita può essere
stata fondamentale nel fargli prendere una decisione favorevole con grande
rapidità. L’ex generale de Gaulle chiese ai ministri degli affari esteri dei
paesi ricchi che contribuivano in modo sostanziale alla ricerca e al controllo del
cancro su scala mondiale (oltre a Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione
Sovietica) e al direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
di incontrarsi a Parigi per discutere l’avvio di un’iniziativa coordinata e
comune. I ministri degli esteri di altri due paesi, precisamente Repubblica
federale tedesca e Italia, furono successivamente invitati all’incontro che si
tenne nel mese di dicembre 1963.
Grazie
alla forza dei suoi ideali di fondo, l'iniziativa così generosamente e
vigorosamente proposto dalla Francia riuscì a prendere sostanza, nonostante una
certa ostilità da parte dell’Unione Internazionale Contro il Cancro (la più antica e a quel tempo più importante agenzia
internazionale per il controllo del cancro, meglio conosciuta con l’acronimo
francese, UICC), che, mentre in teoria aderiva all’idea di una maggiore attenzione
per la ricerca sul cancro, non celava la propria mancanza di entusiasmo per la
creazione di un’istituzione che sarebbe stata al di fuori del suo controllo. Ci
fu anche opposizione da parte dei dirigenti dei diversi Centri nazionali contro
cancro, che sostenevano l’iniziativa in principio, ma temevano che una nuova organizzazione
internazionale potesse drenare fondi e competenze scientifiche via dagli istituti
posti sotto il loro controllo. Il progetto mantenne l’orientazione originaria
in difesa della salute pubblica, ma non ebbe lo stesso successo nello stimolare
la generosità finanziaria degli stati partecipanti.
Idealismo e realismo dei finanziamenti
La proposta
originaria del Presidente de Gaulle prevedeva che la nuova Istituzione
internazionale fosse finanziata con lo 0,5 per cento delle spese militari degli
Stati partecipanti. Sulla base delle stime di bilancio per la difesa nel 1965
dei primi sei paesi aderenti all’iniziativa voluta dalla Francia, lo 0,5 per
cento avrebbe significato una dote di circa quattrocento milioni di dollari annuali
(lo 0,5 per cento del bilancio per la difesa stimato sui soli Stati Uniti
avrebbe continuato contribuito con 265 milioni di dollari). Il sostegno finanziario
per la nuova istituzione al livello originariamente proposto avrebbe
significato un rilancio molto consistente della ricerca sul cancro. I primi sei
stati aderenti infine si accordarono su un contributo annuale molto più modesto,
di 150.000 dollari ciascuno, così che il bilancio iniziale annuale della IARC
fu di 900.000 dollari – quattrocento volte meno di quanto sarebbe stato se la
proposta francese originaria fosse stata accettata. Il finanziamento aumentò negli
anni mentre altre nazioni si univano all'agenzia e un rendiconto di circa 37
milioni di dollari fu inserito dal consiglio di amministrazione nei consuntivi
dell'agenzia per il biennio 2004- 2005; lo 0,5 per cento delle spese per la
“difesa” stimate da parte dei 16 Stati attualmente partecipanti all'agenzia in
uno qualunque di quei due anni, avrebbe significato una disponibilità finanziaria
di circa due miliardi di dollari.
In
accordo con gli statuti approvati dall'Assemblea Mondiale per la Sanità il 20 maggio 1965 a Ginevra, e con le
raccomandazioni fornite dal Consiglio di amministrazione e dal Consiglio scientifico,
fu deciso che l'agenzia, in funzione del proprio ruolo internazionale, avrebbe
stabilito un programma di attività permanenti che includessero: (a) la raccolta
e divulgazione di informazioni sull'epidemiologia e sulla ricerca tumorale sia
nei paesi sviluppati, sia nei paesi via di sviluppo, (b) l’identificazione delle
cause del cancro e (c) la promozione della collaborazione internazionale in
materia di prevenzione del cancro a livello mondiale.,
Lione, in Francia, fu scelta come sede della IARC, che ufficialmente cominciò
la sua attività nel mese di maggio 1967.
La coesistenza
sotto lo stesso tetto di uffici e laboratori, insieme con un’efficiente struttura
amministrativa, favorì la multidisciplinarietà, che fu una caratteristica rilevante
di molti programmi IARC fin dall'inizio. Il fatto che l’agenzia potesse offrire
l’accesso a strumentazioni e laboratori attivamente coinvolti nella
pianificazione e nello sviluppo della ricerca rese possibile l'avvicinamento di
ricercatori con competenze ed esperienze diverse, inclusi patologi, biochimici,
chimici, tossicologi e virologi, così come epidemiologi ed esperti di statistica
biomolecolare. In questo modo, la
IARC fu in grado di assemblare gruppi di ricerca che potevano
interagire e collaborare efficientemente e su base paritaria con scienziati di ogni
altro istituto di ricerca nel mondo.
Il programma delle monografie IARC
Fra le prime
attività dell'agenzia ci furono la raccolta e l'analisi dei dati sull’incidenza
e sulla mortalità del cancro, un programma formativo e la valutazione dei
rischi di cancerogenicità per l'uomo. In questa presentazione, focalizzerò l’attenzione
sull'ultima di queste attività fondamentali, anche se le altre due, assieme a
diversi altre iniziative, sono state molto feconde di risultati e meriterebbero
a loro volta una descrizione approfondita. Quando, nel 1968, l'agenzia fu incaricata
di fornire un elenco di sostanze cancerogene, erano già disponibili due liste affidabili,
seppure incomplete, di agenti cancerogeni per l'uomo: una preparata da Hueper e
Conway comprendeva
17 agenti o gruppi di agenti considerati in modo definitivo cancerogeni per l’uomo,
e una fornita dall’OMS, comprendente 16 agenti cancerogeni.
Il Programma delle
Monografie IARC ebbe inizio nel 1969; nel 1972, fu pubblicato il primo volume di
una serie che sarebbe stata conosciuta in tutto il mondo come le “Monografie
arancioni". Finora, sono stati pubblicati ottantacinque volumi delle Monografie
e quattro altri volumi sono in stampa, per una copertura di 900 sostanze
(reagenti chimici, gruppi di reagenti, miscele complesse, fonti di esposizione
occupazionale, agenti biologici, abitudini culturali, agenti fisici).
Gli agenti
singoli e le fonti multiple di esposizione sono assegnati a differenti gruppi,
secondo il livello di evidenza della loro cancerogenicità: al gruppo 1, al
quale appartengono i cancerogeni umani, sono assegnati attualmente [2005, Ndt] 95
agenti; al gruppo 2A, a cui appartengono i probabili cancerogeni umani, sono
assegnati 65 agenti; il gruppo 2B, formato da agenti potenzialmente cancerogeni
per l'uomo, ne elenca 240; il gruppo 3, composto da agenti non classificabili
per la cancerogenicità negli uomini, è formato da 608 agenti; al gruppo 4,
formato dagli agenti probabilmente non cancerogeni per l'uomo, è assegnato un
solo agente [il caprolattame, Ndt]. Escludendo per il momento il gruppo 3 – ma ricordando
che la limitazione e l'inadeguatezza dell'evidenza di cancerogenicità per gli
agenti di questo gruppo potrebbe non essere necessariamente correlata solo alle
caratteristiche della loro interazione biologica ma anche alla qualità è alla quantità
dei dati disponibili – vi sono 403 sostanze per le quali esistono prove di associazione
causale con l’insorgenza di cancro nell’uomo, con evidenza progressivamente
ridotta spostandosi dal gruppo 1 al gruppo 2B.
A mia
conoscenza, nonostante un certo numero di tentativi, nessuno è mai riuscito a scalzare
un agente cancerogeno incluso nel gruppo 1 per spostarlo su un livello di maggiore
incertezza. Ciononostante, anche se è impossibile negare l'evidenza per gli agenti
cancerogeni inclusi nel gruppo 1, la definizione di cancerogenicità di certe
sostanze è stata limitata all'induzione di particolari tipi di tumori, con
l'inserimento di un dubbio o la negazione di associazione causale con altri
tipi di tumori. Per esempio, mentre nessuno osa negare che il cloruro di vinile
provoca l'angiosarcoma al fegato, una cospicua e rumoreggiante frazione dell’establishment scientifico sostiene che
non vi sia associazione causale del cloruro di vinile con altre forme istologiche
di tumori del fegato o con l’insorgenza di tumori in altri organi.
Un
altro esempio è la formaldeide, riconsiderata dalla IARC nel 2004 e
trasferita al gruppo 1 dal gruppo 2A, al quale fu assegnata una prima volta nel
1987 e una seconda volta nel 1995.
A posteriori, uno potrebbe chiedersi se l'esitazione
manifestata nel 1987 e nel 1995 fosse giustificata, ma perlomeno nel 2004 fu
definitivamente riconosciuta come sostanza cancerogena per l'uomo. La ammissione
di evidenza della sua cancerogenicità, comunque, è limitata all’induzione di forme
di carcinoma dell’apparato rino-faringeo, mentre l'evidenza di un'associazione
con la leucemia mieloide è considerata elevata ma non sufficiente, e soltanto un'evidenza
limitata di cancerogenicità è riconosciuta per l’associazione con i tumori dell’apparato
sino-nasale. Ci si potrebbe chiedere oggi se le esitazioni, evidenziate perfino
in quest’ultima valutazione molto più raffinata siano davvero funzionali a
un’efficace difesa della salute pubblica. In ambienti chiusi c'è, per esempio,
una concreta possibilità di esposizione domestica alla formaldeide che
principalmente colpisce i bambini. Non è facile stabilire il livello al quale
l'esposizione a basse concentrazioni di un cancerogeno rappresenti un rischio per
tutto il resto della propria vita quando l'esposizione avviene in un'età di particolare
fragilità in certi aspetti dell’organismo e, per definizione offre il più lungo
tempo possibile per la manifestazione di effetti a lungo termine. La difficoltà
di pianificare un adeguato studio epidemiologico su questi aspetti è una chiara
dimostrazione dei limiti dei nostri metodi di studio. Ciononostante, la
consapevolezza di questi limiti dovrebbe suggerire un impegno più grande per la
prevenzione primaria invece dell’indirizzamento verso la negazione a priori, o anche solo verso l’ignoranza
della possibilità di rischi a lungo termine.
Il ruolo predominante dell'epidemiologia
È interessante
osservare che l'inizio del programma di stesura delle Monografie IARC alla fine
degli anni ‘60 del secolo scorso abbia coinciso con il riconoscimento
dell'epidemiologia come disciplina fondamentale per la valutazione del rischio
di insorgenza delle malattie non epidemiche, incluso il cancro. Questo è stato
a un importante cambiamento rispetto alla tendenza prevalsa fin dal 1922,
quando Passey riuscì a indurre nelle
cavie da laboratorio tumori maligni della pelle usando estratti di fuliggine; i
suoi risultati furono considerati come la conferma definitiva delle
osservazioni di Percival Pott [che aveva abbinato l’insorgenza di tumori della
pelle negli spazzacamini al contatto prolungato con la fuliggine, Ndt], il che
implicava che le osservazioni epidemiologiche e cliniche dovevano essere
confermate anche sperimentalmente prima di poter essere accettate. In seguito,
all’inizio degli anni ‘70 del Novecento, ci fu accordo sul fatto che i
risultati epidemiologici potessero essere essi stessi prova di causalità e cominciò,
anzi, a prevalere l’idea che soltanto gli studi epidemiologici potesse fornire
prove attendibili per una relazione causale fra esposizione e insorgenza di
tumori nell’uomo. Una prima conseguenza fu che i risultati sperimentali, in
particolare quelli dei test biologici a lungo termine [condotti su cavie, Ndt],
furono considerati di importanza secondaria. La seconda conseguenza fu che gli epidemiologi
cominciarono a tentare di quantificare i rischi attribuibili a certe cause e a
calcolare, certamente in modo rozzo, la proporzionalità dei casi di tumore che si
sarebbero potuti evitare con un’efficiente prevenzione. I tentativi di
quantificazione più noti furono quelli di Wynder e Gori, di
Higginson e Muir e, in forma più elaborata
e dettagliata, di Doll e Peto. Questi
tre studi attribuivano in modo unanime la stragrande maggioranza dei tumori a
cause ambientali ed erano in accordo sul fatto che i fattori di rischio più
rilevanti fossero correlati con lo stile di vita, in particolare con l'uso del
tabacco e le abitudini alimentari, che furono indicate come responsabili del 60–70
per cento dei casi di tumore, con stime di molto inferiori per il numero di
tumori dovuti alle esposizioni occupazionali o ad altri tipi di esposizione
ambientale.
Il tabacco sicuramente
gioca un ruolo essenziale nell'aumento dei danni causati dal cancro nell’uomo,
e ci sono pochi dubbi che una migliore educazione sociale, orientata alla cura
della propria salute, potrebbe aiutare le persone a essere più consapevoli e responsabili
nella scelta delle abitudini quotidiane. Tuttavia, l'enfasi data ai fattori
legati allo stile di vita, a detrimento dell'informazione sul ruolo degli
inquinanti chimici, ha favorito una produzione ininterrotta di sostanze con
effetti negativi sulla salute che rimangono occultati, secretati o
deliberatamente sottostimati. Inoltre, l’attribuzione della maggior parte dei casi
di tumore allo stile di vita, che è considerato come frutto di libere scelte
personali, amplifica in modo eccessivo la responsabilità individuale, sposta
l'attenzione dalle omissioni delle autorità sanitarie, e oscura il ruolo eziologico
degli altri fattori di rischio.
Un’attribuzione dei rischi incoerente
Il modo in cui
sono valutati i rischi attribuibili ai diversi agenti è incoerente, infatti, livelli
ineguali di evidenza della cancerogenicità di molti fattori di rischio sono
trattati tutti allo stesso modo.28 Un requisito necessario per
dichiarare cancerogena una sostanza chimica diffusa nell’ambiente è che studi
epidemiologici conclusivi possano dimostrare una relazione causale, e in
particolare è richiesta un’evidenza robusta per associare un'esposizione di
tipo occupazionale all’insorgenza di tumori nell’uomo prima che un'associazione
causale sia unanimemente accettata. L'evidenza di un contributo al fardello del
cancro dovuto al tipo di alimentazione è solitamente circostanziato e, in
alcuni casi, piuttosto debole. Una precisione puntigliosa è richiesta per
calcolare i rischi occupazionali e ambientali, mentre una grande ampiezza è concessa
alla definizione dei rischi legati alla dieta, la cui incidenza è stimata
variabile fra il 10 e il 70 per cento. È stato riconosciuto, comunque, che i
cancerogeni occupazionali identificati fino a questo momento “tendono a essere
quelli che aumentano il rischio per particolari tipi di cancro in modo molto
più evidente”, e che altri cancerogeni occupazionali potrebbero non essere
stati individuati semplicemente perché non sono stati analizzati o perché
l'esposizione riguarda un numero ridotto di lavoratori e non è stato finora su
di essi sollevato alcun sospetto.27
Un'elegante ambiguità
Per un verso,
è stato riconosciuto che certe sostanze industriali diffuse nell'ambiente (per
esempio i pesticidi) possono aumentare la frequenza dei tumori; per un altro
verso, la loro identificazione come fattori di rischio è stata resa dipendente
dalla dimostrazione della loro cancerogenicità in situazioni di esposizione
molto elevata, come nel caso dell'esposizione occupazionale. Queste dimostrazioni,
tuttavia, dipendono a loro volta da una serie di condizioni obbligate, come la
pre-esistenza di un sospetto di cancerogenicità, la presenza di un numero sufficiente
di individui esposti per assicurare la validità statistica delle osservazioni, e
una durata sufficientemente lunga sia dell'esposizione che delle successive
osservazioni. Amplificando la complessità delle procedure per stabilire una
convincente evidenza di aumento del rischio di tumore con discussioni senza
fine sull’attendibilità statistica dei dati, può anche aver contribuito a
focalizzare l'attenzione maggiormente se non esclusivamente sul cancro, riducendo
in questo modo l’attenzione sugli altri possibili effetti negativi sulla
salute. È stato ulteriormente riconosciuto che alcune sostanze ma, come esplicitamente
indicato, certamente non tutte, per le quali c’è evidenza sperimentale di
cancerogenicità, anche se rilevata a dosi molto più elevate di quelle di
esposizione quotidiana, possono egualmente produrre effetti analoghi sull’organismo
umano.
Questo modo di
presentare e interpretare i dati mette in luce un’ambiguità particolarmente elegante
che ha permesso di associare la certezza di rischi proclamati e
convincentemente accertati con ampie zone d’ombra. Queste aree ombreggiate, dove
sono relegate consistenti componenti dell’eziologia tumorale, non hanno ancora destato
attenzione sufficiente, principalmente perché la ricerca sui meccanismi
molecolari, spesso correlabili con nuove cure terapeutiche e con la componente genetica
di origine del rischio, è aumentata enormemente a spese degli studi sull’eziologia
e sulla prevenzione primaria, quest’ultima presa in considerazione quasi
esclusivamente in relazione allo stile di vita.
L'assegnazione
di un composto a uno dei gruppi indicati dalla IARC ha conseguenze importanti per
la definizione dei rischi correlati e la loro traduzione in misure di
prevenzione primaria. La maggior parte degli agenti assegnati al gruppo 1 e
molti di quelli assegnati al gruppo 2A sono trattati come cancerogeni umani e sono
soggetti a norme legislative stringenti. Il gruppo 2B, comunque, rappresenta un’area
dov’è posizionato un insieme di 240 agenti a causa dell’inadeguatezza delle evidenze
sperimentali ed epidemiologiche sulla loro cancerogenicità. La sistematica
demolizione dell’importanza dei test di cancerogenicità a lungo termine e l'estrema
cautela con la quale alcuni epidemiologi giudicano l’evidenza di rischio per il
timore di essere accusati di prove di cancerogenicità falsamente positive, dà
enfasi a questa inadeguatezza. In questi casi, l’inadeguatezza, così come
l'assenza di dati, non può comunque essere considerata equivalente a un’evidenza
negativa, e neppure può essere considerata più rilevante ai fini della salute pubblica
di risultati sperimentali positivi.
La probabilità
che nuovi dati epidemiologici siano disponibili in un prossimo futuro sui
composti assegnati al gruppo 2B, per evitare un’indefinita estensione nel tempo
della loro permanenza in quest'area di attesa, è piuttosto remota. Date le
difficoltà oggettive di progettare studi adeguati, capaci di dimostrare in modo
credibile rischi di basso o medio livello, e la possibilità di accesso dei
risultati di questi studi soltanto a riviste scientifiche con basso impact factor, gli agenti assegnati al
gruppo 2B non hanno sollevato l’interesse degli epidemiologi. Allo stesso modo,
ci sono possibilità solo limitate che essi possano essere sottoposti a nuove
analisi a lungo termine, vista anche la drastica riduzione del numero di laboratori
indipendenti interessati a impegnarsi in test biologici a lungo termine, i
quali, con poche cospicue eccezioni, sono in questo momento quasi
esclusivamente nelle mani dei laboratori commerciali o dei laboratori interni
all'industria.
Assenza di soluzioni semplici per gli agenti di tipo 2B
Non ci sono
soluzioni semplici per situazioni che possono essere definite del tipo 2B,
quando la raccolta dei dati epidemiologici e sperimentali è relativamente
limitata e non raggiunge il livello di evidenza considerato sufficiente. Il
gruppo 2B include agenti molto diversi in termini di salute pubblica e rilevanza
economica, così come nel livello di evidenza della loro tossicità. Alcuni
dovrebbero essere sottoposti senza indugio a investigazioni approfondite, per
esempio l’acetaldeide, l’acrilonitrile, la benzina, il bitume, il cloroprene,
il tetracloruro di carbonio, l’1,2-dicloroetano, l’esaclorobenzene, e alcuni
altri agenti che sono stati recentemente retrocessi dal gruppo 2B al gruppo 3,
che include l’atrazina, gli ftalati, la lana di roccia e la lana di vetro.
Se la validità
del principio di precauzione non sarà accettata, le situazioni di tipo 2B creeranno
un’impasse il cui unico risultato
sarà la perpetuazione ufficiale delle condizioni di rischio, con possibili
conseguenze ignominiose sulla salute. In termini pratici, queste situazioni
sono altrettanto difficili da trattare quanto quelle correlate con esposizioni
a basse dosi di cancerogeni umani conclamati. Tuttavia, ammettere questa
difficoltà non significa che dobbiamo negare a priori la loro possibile azione eziologica. Il ruolo effettivo di
una lunga serie di fattori di rischio nell’aumento dell’incidenza del cancro è
ancora troppo poco noto, e gli effetti nocivi di concentrazioni basse o molto
basse di inquinanti ambientali hanno iniziato a essere spiegati solo da poco
tempo. Gli effetti dannosi di dosi estremamente basse di agenti che operano
come disruttori endocrini hanno sollevato più di altri l’attenzione, tanto che
perfino un quotidiano come il Wall Street
Journal ha espressamente manifestato preoccupazione per l'esposizione al
bisfenolo A, agli ftalati e all’atrazina.
Il ruolo delle basse concentrazioni
Il cadmio, che
fu riconosciuto come cancerogeno dopo un periodo relativamente lungo di esposizione
occupazionale, manifesta un ampio spettro di effetti nocivi alla salute.
Considerato un agente cancerogeno non genotossico, a dosi estremamente basse si
è mostrato mutageno senza effetti diretti di danno al DNA, ma per interferenza
con i meccanismi di riparazione degli errori durante la replica del DNA.,
A concentrazioni che possono essere trovate diffusamente nell'ambiente, il cadmio
può così indurre instabilità genomica, che non è sufficiente di per sé a
causare mutazioni neoplasiche ma è sufficiente ad aumentare la suscettibilità
cellulare ad altri agenti esogeni ed endogeni, contribuendo in questo modo
all'aumento potenziale del rischio di cancro.
Altri esempi
degli effetti nocivi a lungo termine dovuti all'esposizione a basse
concentrazioni di inquinanti ambientali includono la possibilità di origine
prenatale di alcune leucemie infantili. Le traslocazioni genetiche
tipiche della leucemia mieloide, probabilmente dovute all'esposizione materna ad
alcune sostanze tossiche, sono state osservate fin dalla nascita in bambini che
hanno sviluppato la malattia anni dopo. Mentre non sono sufficienti di per sé a causare la malattia, queste
possono aumentare il rischio di leucemia inducendo instabilità genomica., Inoltre,
è stata riscontrata un'associazione fra l'esposizione materna durante la
gravidanza e l’esposizione paterna prima del concepimento a una serie di
sostanze chimiche e le mutazioni delle proteine Ras proto-oncogene in bambini che in seguito hanno sviluppato la leucemia
linfocitica, mentre anche l'esposizione
pre-natale e quella immediatamente post-natale a inquinanti atmosferici è stata
indicata come associata a un aumento di rischio dei tumori infantili.,
La nostra responsabilità
Una
delle priorità della ricerca oggi è dipanare la complessità delle interazioni
gene-ambiente, che modulano la suscettibilità alle malattie degenerative. Potremmo
pensare che ci saranno progressi sostanziali quando diventerà possibile
misurare in modo affidabile sia l'esposizione ambientale, sia le variazioni
genetiche. Finora, è
stata prestata molta più attenzione allo studio del genoma individuale, invece
che ai livelli di esposizione ambientale degli individui; la metodologia sviluppata
per leggere il codice genetico è
attualmente molto più avanzata e accurata delle metodologie applicate per la
misura dei livelli di esposizione ambientale. Per
compensare questa disparità, è essenziale un impegno maggiore nel miglioramento
delle procedure di misura dell’esposizione. Nel frattempo, comunque, non dovremmo
mai dimenticare che sulla strada impervia di misura dell'esposizione, un ruolo
chiave nella protezione della salute pubblica sarà giocato dalle azioni finalizzate
a vietare o a diminuire drasticamente la presenza di sostanze nocive nel nostro
ambiente.
Se davvero vogliamo
preparare un prospetto credibile dei rischi attribuibili agli agenti
fisico-chimici e, soprattutto, se davvero vogliamo mettere in pratica una
prevenzione primaria efficiente, coscienti delle responsabilità che abbiamo
verso le generazioni presenti ma anche verso quelle future, dovremmo
considerare seriamente tutte le varie componenti di rischio che sono fino a
questo momento state ingiustificabilmente sottostimate o ignorate.